SANTA VOGLIA DI VIVERE E DOLCE VENERE DI RIMMEL

Come faccio ogni giorno, ascolto la radio per ascoltare le notizie riguardo il numero di contagiati, i positivi, i decessi, i vaccinati, il Recovery Found. L’ascolto perchè, proprio in questo momento mi sembra un dovere civile, da diretto interessato, informarmi su come e quando usciremo fuori da questa pandemia. Però, un paio di secondi prima di pigiare il tasto Radio del sistema, mi passa qualcosa rimasta nella sezione Media, cioè le canzoni. E’ Rimmel, di Francesco De Gregori.

Che fa, potrei mai farmela scappare, solo per non perdermi l’ultima intervista in diretta al Direttor dei direttori virologi dello Spallanzani? Al Diavolo! Rimmel, dall’inizio alla fine e per ben due volte!

Quindi alzo il volume e vengo quasi sbalzato dal sedile da quel potente e indimenticabile attacco, le cui vibrazioni entrano fin dentro le costole di chi ascolta. Non ci è dato sapere chi fu a suonare quel pianoforte, Francesco o Visentin, a picchiettare con prepotenza quel riff  condito da parole di rabbia scritte sul bordo di un letto d’albergo, in attesa di essere chiamato da Mago Zurlì per uno spettacolo per bambini.

Immenso. L’unico aggettivo idoneo per un LP storico, inconfondibile per quella strana carta da parati a strisce bianconere sul front, con al centro il cammeo di una bella signora d’altri tempi. Nel periodo d’oro di Fausto Papetti, dei night club e delle zampe di elefante simili a tende canadesi, l'album bandiera di De Gregori fece un botto di di 500.000 copie vendute. Dopo ho perso il conto.

Anche la società italiana cambiava e fra i volantini ciclostilati di Lotta Continua, infilati nelle tasche degli Eskimo facevano capolino anche altri fogli dove c'era scritto "hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo", anche se si credeva ben altro .......mentre Francesco ride ancora sotto i baffi. Però si scopriva che era pure bello canticchiarla, e magari suonarla alla chitarra.

 

 

 

Rimmel è certamente il giro di boa della musica italiana. Statuario, monumentale e ricordato soprattutto per canzoni indimenticabili come Pablo, Pezzi di vetro suonata da Renzo Zenobi (da sempre considerata un esame insormontabile per le dita dei ragazzi che cominciano a suonare la chitarra) e soprattutto per Buonanotte fihttps://www.iltitanic.com/premi/20.jpgorellino, ispirata da Winterlude di Dylan anche se la versione di Bob (diversa anche musicalmente) è… “il walzer di Zimmerman che pattina con la sua piccola mela, vagando per il Midwest coperto di neve alla ricerca dei recessi che racchiudono le bellezze della loro sessualità e nei quali si rifugiano per sfuggire al brutto mondo esterno”. Questo scrive Anthony Scaduto nella biografia di Dylan. In questa pagina web dedicata a questo disco ne approfitto per sancire definitivamente la bufala della moglie morta in un disastro aereo, anche se un’altra figura legata davvero a questa canzone è poi morta davvero, ma non per una catastrofe. Nonostante tutte le difficoltà per le registrazioni effettuate in incognito nelle sale ministeriali della RCA Italiana, grazie a Dio Rimmel fu pubblicato con la complicità di Lilli Greco, Ennio Melis e Ubaldo Consoli.

Illuminato da una luce abbagliante “Fatima style” che stravolse il mio pessimo scibile musicale limitato a Sandro Giacobbe nei juke box della spiaggia, nel 1975 cominciai ad essere infettato da questa strana malattia, recuperando anche sui dischi precedenti. Appena acquistato, tornai a casa con un cartone quadrato dai colori irrimediabilmente ostili ad un interista e che suscitò anche gli sfottò di mio fratello che lo vide addirittura poggiato sul mio comodino con tutti i crismi, le accortezze e le cure che richiedevano a quei tempi i long playing importanti.

Grazie a questo disco cambiò tutta la mia vita musicale, in seguito facendomi scoprire tante altre cose. Già storico fan nel mitico Rimmelclub di Daniele Di Grazia, ho poi varato nel 2005 il mio Titanic dedicato al Principe. Sì va bene, ho dato anche io, ma da Francesco ho ricevuto molto, molto di più; tantissime cose che non è il caso di raccontare.

Pubblicato quasi di nascosto negli studi RCA, Rimmel fu scritto nel 1975 e scritto a 23 anni - perché è a quell’età che nascono i capolavori -  in preda a giovanili gelosie davanti a un bel mangiatore di fuoco, a pensieri seduti su un letto di via del Mattonato e a Puny Rignon che chiamò Francesco vincente dopo avergli letto quattro assi che avrebbe spedito chissà a quale indirzzo.

Nel 1975, famosa fu la frase di Giaime Pintor all’uscita del disco: "De Gregori non è Nobel, è Rimmel". E' il contrario. Credendolo mendace come un trucco, Francesco non si fidò di quel che gli disse la prima moglie di De Andrè, che uno zingaro gli aveva fatto le carte definendolo vincente. Invece mai profezia fu più azzeccata. Mai come quella volta De Gregori sbagliò le sue previsioni, perché quel futuro invadente non l'ha distrutto e stracciato come avrebbe voluto ma l'ha preso per mano convivendoci fin dal primo momento, fin da quando creò un capolavoro come Alice, a soli vent'anni. Ecco perché la sua carriera non è stato un trucco ingannevole ma una meravigliosa realtà, perché tutto quello che ha scritto e prodotto l'ha fatto in nome dell'arte. Ecco perché Francesco è Nobel, e non Rimmel.

Southampton Harbour. April 3, 2021

Il Nostromo


Rimmel ‎(LP, Album) – RCA - TPL1 1107     Italy - 1975                   Rimmel ‎(Cass, Album) – RCA - TPK1 1107 – Italy - 1975

Rimmel ‎(LP, Album) – RCA - TPL1 1107 – Italy - 1975               Rimmel ‎(LP, Album) – RCA - TPL1 1107 – Italy - 1977

Rimmel ‎(LP, Album, RE)  RCA - TPL1 1107 - Italy   1980                    Rimmel ‎(CD, Album) – RCA PD70742 – Italy 1985

Rimmel ‎(CD, Album) RCA 74321 625132 – Italy 1998                       Rimmel ‎(CD, Album, RE) RCA TPL1 1107  Italy 1998

Rimmel ‎(CD, Album, RE, RM, Dig) BMG Ricordi S.p.A. 74321 765072 Italy 2000

Rimmel ‎(CD, Album, RE) BMG Ricordi, Sorrisi E Canzoni TV, Panorama (23) 74321625132, none, TPL 11107 Italy 2003

Rimmel ‎(CD, Album, RE) RCA BBCD01 Italy 2007                  Rimmel ‎(LP, Album, RE)  RCA, Sony Music TPL1 1107 Europe 2013

Rimmel ‎(CD, Album, RE, Dig) Sony Music, RCA 88843067542 Italy 2014                 Rimmel ‎(LP, Album, RP, 180) Sony Music, RCA 88875121261 Europe 2015

Rimmel ‎(CD, Album, RE) Panorama Magazine PACD2802 Italy Unknown

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In quest’anno ci governa Moro con una coalizione politica DC; viene assegnato il Nobel agli italiani Renato Dulbecco per la medicina ed Eugenio Montale per la letteratura; libanesi cristiani e musulmani si uccidono a Beirut; alla morte di Franco, Juan Carlos sale sul trono di Spagna; il PCI di Enrico Berlinguer acquista maggiore peso nella vita politica del Paese: nel mese di giugno, supera la DC nelle elezioni regionali. Si parla per la prima volta di "compromesso storico"; Koehler  e Milstein realizzano gli anticorpi monoclonali e Stephen Schneider denuncia l’effetto serra; viene messo in commercio il primo videoregistratore domestico; il primo miniassegno viene emesso dall'Istituto Bancario S. Paolo di Torino il 10 Dicembre: 100 lire; nascono le prime radio libere; i radicali Marco Pannella, Adele Faccio ed Emma Bonino lanciano la campagna per la liberalizzazione dell'aborto provoncando il loro clamoroso arresto; i giovani votano a 18 anni, così la finiscono una volta per tutte di falsificare la firma dei genitori sul libretto scolastico delle assenze; un commando delle Brigate Rosse, con un assalto alle carceri di Casale Monferrato, fanno evadere Renato Curcio; nella manifestazione antifascista a Milano un colpo di pistola uccide Claudio Varalli. Seguiranno rappresaglie e scontri con le forze dell’ordine anche a Firenze dove tra la folla altri colpi di pistola uccidono Rodolfo Boschi, militante del Pci; il Parlamento approva la riforma del Diritto di Famiglia; si dimette il Governatore della Banca d'Italia Guido Carli e al suo posto viene nominato Paolo Baffi; tre giovani della Roma-bene, dopo aver invitato a un loro festino due ragazze in una villa del Circeo, le seviziano e poi le uccidono; sul litorale romano di Ostia, in un campo incolto in via dell'idroscalo, viene trovato il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini per mano del giovane Giuseppe Pelosi. Con lui scompare una delle più grandi figure della nuova cultura italiana; muoiono pure Juan Peron e Aristotele Onassis.

Carovita: Giornale £ 150 - Biglietto del Tram £ 100 - Tazzina Caffè £ 120 - Pane £ 450 al kg, Latte £ 260 - Vino al litro £ 350 - Pasta al kg £. 480 - Riso al kg £ 420 – Topolino (il giornalino) £ 500 - Carne di Manzo al kg. £ 4500 - Zucchero al kg £ 430 - Benzina £ 305; l'inflazione è al 19,2%.

Nello sport Niki Lauda vince il Mondiale di Formula Uno, Oleg Blokhin vince il Pallone d’Oro e la domenica sera Adriano De Zan ci racconta che la Juve vince lo scudetto con Zoff, Gentile, Cuccureddu, Furino, Morini, Spinosi, Altafini, Causio, Gori, Capello, Bettega (All. Parola)

Il Premio Strega va a Tommaso Landolfi con A caso e il Campiello va a Stanislao Nievo con Il prato in fondo al mare

Di moda vanno il boxer e il dobermann, l'accendino Dunhil, gli abiti peruviani e gli Intillimani, il megafono, i volantini e il ciclostile, i viaggi a Soci, Austria e Monaco, la calcolatrice Texas Instruments, la macchina fotografica Olympus, l’orologio Tissot. Le dimensioni degli occhiali si restringono: arrivano i Ray Ban con le stanghette laterali verso le orecchie che terminano con una parte semimolle piegata verso il basso e che praticamente avvolge l’orecchio da sopra obbligandoci in strane manovre.

Viaggiamo con la Renault 5, la Simca GLS, la moto Laverda, la Vespa 125, la Fiat 850 Coupè, la Renault4, le nuove moto giapponesi.

Si fuma lo spinello, ma per chi non lo fuma il risultato è identico: Lucky Strike, Camel, Chesterfield senza filtro e come donne francesi che hanno un buon profumo e fan girar la testa: Gitanes, Gauloises, Caporal. Tutta roba per uomini duri.

Ci intossichiamo con Girella Motta, Paciugo Tanara, Starcrem, Ciokito, Cioccovella, Ciocorì, Biancorì, Twix Raider, Duplo, Tronky Ferrero. In pubblicità la donna è ancora un po’ stupidina, rigorosamente casalinga, vestita in modo molto castigato in tailleur oppure in gonna nera, camicia di seta chiara e collana di perle, sempre impegnata a risolvere il suo unico dilemma: quale detersivo usare. Con una messa in piega alla Brodo Knoor, tale da farla assomigliare a Margie Simpson, svolge bene il ruolo della madre di figli educatissimi e della moglie di un uomo virile e che non deve chiedere mai (infatti le femministe si incazzano parecchio). Ma a volte  è un po’ scemo anche lui: si chiede tante ma tante cose, si stupisce come un idiota ad ogni nuovo prodotto e fa il credulone ad ogni argomento propostogli. Spot da ricordare sono Gianfranco Mulè e la tedesca Solvi Stubing di "Chiamami Peroni: sarò la tua birra"; Denim, il profumo per l'uomo che non deve chiedere mai ; ….in tutto il mondo, in tutto il mondo, non c’è nessuno come Jo Condor. Gigante, pensaci tu..”, col gigante che con un’incredibile pazienza risolve i problemi di quegli incapaci; il mitico sedere di Rosa Fumetto dei jeans Jesus in "chi mi ama mi segua"; il digestivo Antonetto con Nicola Arigliano che si passa la mano sulla pancia sul tram e dice "E' così comodo che si può prendere anche in tram".

Al cinema vediamo Frankenstein Junior, Quel pomeriggio di un giorno da cani, L’uomo che volle farsi re, Yuppi du, Fantozzi, Profondo rosso, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Lo squalo, Profumo di donna, Piedone lo sbirro, L'inferno di cristallo, Prima pagina, Scene da un matrimonio e i films polizieschi con l’educato e composto commissario Maurizio Merli e il trasandato trasteverino Tomas Milian.

In televisione c’è Vita da strega, Signore e Signora con Lando Buzzanca e Delia Scala, Flipper il delfino, Attenti a quei due, Mazzabubù, Anna Karenina, Il fauno di marmo, L'amaro caso della  baronessa di Carini, Mazinga, Orzowei, Star Trek e …Gustavo, un cartone ungherese che finiva con la scritta koniec "fine".

Indossiamo trasandati giacconi di panno o di velluto a coste con il bavero alzato che ci difendono a malapena dal freddo nei cineforum e nelle riunioni delle federazioni politiche; jeans Levi’s e scarponcini della marca “più sporchi sono meglio è”. Le ragazze hanno lunghe gonne a fiorellini da femminista sotto enormi maglioni che arrivano quasi alle ginocchia. Portiamo la barba incolta e i capelli lunghi e spettinati. La cravatta è ai minimi storici (bei tempi!), le camicie si portano aperte ed è proprio per la necessità di far stare il colletto bene aperto sulla scollatura dei due o tre bottoni, che nascono i colletti di grandi dimensioni. Le giacche, invece, hanno generosi revers che chiudono alto sul davanti, per cui i bottoni sono tre o quattro. Lo stesso discorso vale anche per il trench.

Giochiamo con Bruciapista Mattel e la pista Sizzler, le automobilini Dinky Toys, il videogioco Pong (oggi più noioso di un minuto di Radio Maria).

Leggiamo Ernesto, Padre padrone, Trattato di semiotica generale, Skorpio, Lanciostory, Il manifesto, l’Unità, Postal Market e Confidenze, le enciclopedie I quindici, Mille Perché, Vita Meravigliosa, Sapere, Conoscere e Capire.

L’anno è da ricordare anche per le uscite di album come "Born To Run" di Bruce Springsteen; "Blood On The Tracks" di Bob Dylan; "Wish You Were Here" dei Pink Floyd; "Phisical Graffiti" dei Led Zeppelin; "Metal Machine Music" di Lou Reed. Ma anche “Windsong” del compianto John Denver, un disco che staziona nei primi posti delle classifiche USA per lungo tempo, a dimostrazione del fatto che gli americani rimangono sempre sotto l'influenza della musica country. Esplode la musica funk: lo "street funk" di George Clinton getta le basi per la disco music; che emette i suoi primi vagiti con l'accoppiata Moroder-Van McCoy; "Saturday Night Live" debutta in tv; il film "Nashville" di Robert Altman rilancia la country-music. Anche l’Italia vanta bravi rocker: dalla PFM all’indimenticabile Ivan Graziani. Affascinati da tutto questo ben di Dio e liberati per sempre da Orietta Berti & Co., i ragazzi sentono un'esigenza più intima che è quella di parlare, di raccontare la rabbia, gli umori, le ansie, gli amori e le speranze dell’epoca. Trionfa la canzone d’autore italiana con De Gregori, Guccini, Venditti, De Andrè, Lolli, Rosso, Fossati, Bennato e gli effetti si vedono: a Sanremo vince Gilda con Ragazza del Sud. 

Allo Zecchino d’oro vince "La figlia del Re di Castiglia" e al Festivalbar Drupi con “Sereno è”. Però proliferano le prime riviste musicali come Ciao 2001 e Nuovo Sound e con esse gli italiani cominciano a scoprire le bufale che i cantanti delle nostre Canzonissime spacciavano per loro successi. Per loro è tempo di crisi, il canto del cigno lo tenta pateticamente Mino Reitano che si presenta in una trasmissione pomeridiana dedicata ai giovani con un pesante maglione nero, la barba e i capelli lunghi e una chitarra folk. Canta “Il tempo delle more” con un arpeggio alla Cohen. Non ha ancora capito niente!  

Ascoltiamo Una storia disonesta, Sabato pomeriggio, L'importante è finire, Piange il telefono, Profondo rosso, Buonasera dottore, You're the first the last my everything, Parlami d'amore Mariù, El bimbo, L'Alba, Emmanuelle, Reach out I'll be there, Aria, Ci vuole un fiore, Il Giardino proibito, Tornerai tornerò, Testarda io, Rock the boat, Una Paloma blanca, Stiamo bene insieme, Sei bellissima, Stasera che sera, Manuela, Se mi vuoi, From souvenirs to souvenirs, Overture from Tommy, Island girl. Gli album più venduti in Italia sono Profondo rosso, RIMMEL, Can't get enough, Just another way to say I love you, 19ma Raccolta Fausto Papetti, James Last in concert, Sabato pomeriggio, Anima latina, Fabrizio De Andre' vol. VIII, Yuppi du, 20ma Raccolta Fausto Papetti, Del mio meglio n. 3 Mina, Borboletta, Baby Gate Mina, L'alba, White gold, Canto de pueblos andinos, Never can say goodbye, Incontro, Un po' del nostro tempo migliore. 

Ma cominciano a conoscere anche la musica straniera. Da una ricerca sul gusto musicale degli italiani risulta che il 50% ascolta musica americana, il 30% la musica inglese e solo il 20% la musica italiana. Questa tendenza è rappresentata da dischi come Another Green World, Shakti, Born to run, Blood on the Tracks, Physical Graffiti, Windsong, Wish You Were Here, Horses, Atlantic crossing, ma anche dischi italiani: La luna, Io che non sono l'imperatore, Volume VIII, Anidride solforosa, Il grande mare che avremmo traversato, Poco prima dell'aurora, Lilly, Canzoni di rabbia. Tormentone dell’estate: Sabato pomeriggio, di Claudio Baglioni.

http://www.rimmelclub.it/storia/storia.htm

 

 

 

 

"La RCA a quel tempo, negli anni 70, era un autentico porto di mare, una vera e propria fabbrica. C'erano uffici, studi di registrazione, magazzini, presse per la produzione dei dischi in vinile. E poi un grande bar, una mensa, perfino un campetto di calcio. Era una struttura talmente grande e piena di cose che ci portavano addirittura in gita le scolaresche per far vedere ai ragazzi come si facevano i dischi. lo stavo lavorando a Bufalo Bill e dopo Rimmel per forza di cose il mio nuovo disco era molto atteso, c'era molta curiosità per quello che stavo facendo. Entrò nello studio dove mi trovavo una scolaresca delle medie, ragazzini che probabilmente non conoscevano le mie canzoni, il mio pubblico era già un po' più adulto. Di me sapevano poco o niente e rimasero molto perplessi, tipo 'ma questo è davvero un cantante?'. Neanche quello che usciva dagli altoparlanti sembrava convincerli molto. Dicevano: 'Se è così che si fanno i dischi, allora siamo capaci tutti'''.
Ride, Francesco. Ride anche pensando a come nacque rimmel: "la RCA era una specie di ministero, aveva una decina di studi fra grandi e piccoli. lo, come tanti altri, ci bivaccavo dentro ed ero diventato amico di questo, amico di quello, amico di molti musicisti (o "turnisti", come si diceva allora) ... con il disco precedente avevo avuto un sacco di problemi, io avrei voluto lavorare con una band, ma il mio produttore insisteva per un disco più scarno, più "da cantautore". Alla fine aveva vinto lui. Ma adesso non volevo che le nuove canzoni che stavo scrivendo suonassero come decideva qualcun altro. Così mi inventai che dovevo fare dei provini e per fare i provini non c'era bisogno dell'autorizzazione di nessuno. Andavi lì, ti mettevi nella prima sala libera con i musicisti che trovavi disponibili e registravi. Oggi sembra impossibile, ma era davvero così, era molto bello. Con la scusa dei provini in realtà cominciai a registrare Rimmel".

Ma nessuno se ne accorse? "A un certo punto, per forza di cose, Lilli Greco (pseudonimo di Italo Greco, uno dei più importanti produttori e discografici italiani, che ai tempi lavorava appunto con Francesco De Gregori, nda) se ne accorse, perché vide che di provini ne avevo fatti un po' troppi ... chiese in giro, "ma De Gregori che sta combinando?" Sentì le registrazioni, perché comunque i nastri rimanevano lì alla RCA, capì tutto e non la prese bene. Un pomeriggio andai alla RCA per continuare il mio lavoro e trovai lo studio sbarrato. Tra l'altro io lavoravo in una sala, la sala "a", dove di solito si registravano le colonne sonore dei film, che nessuno voleva usare perché aveva un vecchissimo banco a valvole e un registratore con sole quattro piste: cose che oggi varrebbero una fortuna sul mercato vintage, ma che allora erano già superate. 

 

 foto by   http://www.beatsessanta.it/

 

 

E' stato il primo disco che ho potuto arrangiare e produrre per conto mio. Naturalmente la cosa mi preoccupava un po', così avevo chiamato qualche amico a suonare con me, tipo Renzo zenobi alla chitarra acustica e Mario Schiano al sax. Al contrabbasso c'era Roberto Della Grotta, che poi è diventato buddista e del quale non ho più saputo niente, e poi tutto il gruppo dei Cyan, che prima di me aveva suonato con Riccardo (Cocciante) ed erano nella fattispecie Alberto Visentin al pianoforte, Franco di Stefano alla batteria, George Sims alla chitarra  e Roger Smith al basso.

E in realtà sono stati loro a fare la maggior parte del lavoro. Mi ricordo quando costrinsi Franco di Stefano a sbattere le bacchette una sull'altra durante la registrazione di "Buonanotte

" perché volevo un suono "tipo le nacchere".

Ancora oggi mi domando perché mai non gli ho fatto suonare le nacchere direttamente. ...RIMMEL è stato registrato durante l'inverno 74-75 utilizzando una macchina a 8 piste già antiquata a quell'epoca; il fonico Ubaldo Consoli faceva i salti mortali per "entrare e uscire" su quelle poche piste e riuscire ad avere un suono decente. Utilizzavamo un compressore a valvole che oggi farebbe la sua figura sul mercato dell'antiquariato e cercavamo, per quanto possibile, di suonare in diretta.

La sera tardi, finito di lavorare, si andava tutti a mangiare in qualche trattoria sulla via Tiburtina, di quelle frequentate dai camionisti. Bevevamo quel particolare tipo di vino dei castelli che si può bere solo quando si è molto giovani, e birra a fiumi. Io ero il capo della banda."

 

 

I Cyan con Lilli Greco

 

GLI AUGURI PER IL QUARANTENNALE DI RIMMEL DA PARTE DI CHI L'HA COSTRUITO (in esclusiva per il Titanic)

 

Quel lontano giovedì o venerdì prima della registrazione mi sono visto con Francesco.

Il primo brano programmato per il "provino" di lunedì si chiamava "Rimmel". Ho ancora il piccolo arrangiamento scritto alla buona per i colleghi e lo spartito per Della Grotta, che leggeva a vista.

Nella mattinata di lunedi' ricordo che abbiamo provato un po' insieme e poi in due o tre prese al massimo. Consoli aveva il pezzo sul nastro. L'ambiente era molto disteso, c'era l'ottimismo e quasi l'incoscenza della gioventu'. Renzo Zenobi era trepidante e ansioso, Francesco aveva la sicurezza dei forti e i dubbi dei geni. Lui cantava accompagnandosi con la chitarra per farci da guida ed i suoi toni ispiravano la nostra maniera di suonare (in diretta).

Per ogni canzone si facevano 2 o 3 prese e se c'erano degli errori bisognava riprendere da capo. Mi ricordo della disponibilità tranquilla di George Sims che ha avuto da sempre un buon gusto innato. Poi Francesco registrava la voce definitiva, senza troppe storie, con sicurezza e spontaneità.  Mi ricordo che Ubaldo Consoli si era inventato un colore nelle frequenze e nel mix che avvolgeva il tutto e dava un tocco di magia. C'era il segreto dei"provini" che noi abbiamo rispettato.

Il resto l'ha già detto Francesco.   (Alberto Visentin)

 

 

Ciao sono Franco di Stefano. Sono dei bei ricordi e

ho una gran voglia di tornare indietro e ripetere tutto. Un bacio a tutti.

(Franco Di Stefano)

 

 

 

 

Sono molto orgoglioso di aver preso parte alla nascita dell'album Rimmel.

E' stato, e sarà sempre uno dei momenti più belli della mia vita.

(George Sims)

George ha concesso la foto al Titanic attraverso il grandioso sito  http://www.beatsessanta.it/

 

Vorrei che fosse ricordato anche Ubaldo Consoli, tecnico del suono mio collega e fraterno amico, fra i più apprezzati della RCA e sopratutto da Francesco...anche i tecnici della RCA hanno fatto la storia di questa grande Società...prematuramente e volutamente defenestrata.

Ubaldo era molto riservato professionalmente… difficilmente riuscivi a capire ciò che succedeva in studio di registrazione… si prodigava molto per l'artista, questo si, che poi, alla fine, attingeva e si impossessava tranquillamente dei consigli del fonico (anche noi si produceva… e come): Francesco, non ricordo su quale LP, lo cita, nei titoli, anche come produttore. Eravamo amici, conservo veramente un bel ricordo di Ubaldo…Un amico che vorrei avere ancora vicino.

Enzo Martella (RCA-BMG)

 

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Rimmel fu una consacrazione inattesa. Ho saputo solo più tardi che Ennio Melis, il boss della Rca, aveva fortemente creduto nel progetto, al punto di inondare letteralmente i punti vendita. Senza il suo entusiasmo forse non staremmo qui a parlare.

Ovvio: il successo, l’adulazione, il denaro cambiano tutto quel che ti gira intorno, ma nessun disco, giuro, è stato uno spartiacque nella mia vita. Il modo di riferirmi agli altri, al mondo, alla discografia, al pubblico è sempre quello.

Felice? Certo. Ma mai ragionato in termini di ville e macchinoni».

«In quel periodo, a Roma, tutti volevamo diventare cantautori. C’era una fioritura, e un locale, il Folkstudio, che ci offriva lo spazio adatto.

Immagino di avere un certo talento se sono arrivato fin qui ma storicamente ho preso questo treno nel momento in cui la piattaforma era affollata; eravamo in tanti, e c’era anche tanta attenzione da parte del pubblico giovanile, miei coetanei che volevano cantare, essere cantati e ascoltare.

Avevo uno stile che ad alcuni poteva anche sembrare sgradevole, ma certamente molto personale; un modo di scriver canzoni fortemente evocativo, brani che lasciavano il segno, inusuali, nel bene e nel male».

Agli altri artisti piaceva invece lavorare in studi più moderni ed ecco perché non avevo trovato molte difficoltà a fare le mie registrazioni clandestine ... era uno studio che non usava nessuno per fare dischi e fu lì che conobbi Ubaldo Consoli, un fonico vecchia maniera specializzato nella registrazione in diretta delle grandi orchestre di musica classica e proprio per questo non molto richiesto per i dischi di musica leggera.https://www.iltitanic.com/2021/102.jpg
Invece il suo apporto tecnico fu fondamentale per il sound di rimmel e Ubaldo fu, insieme a me, il vero produttore del disco. Comunque quel giorno trovai lo studio sbarrato e mi sentii fregato: avevo praticamente già registrato mezzo disco e a questo punto non sapevo più che fine avrebbero fatto le cose che consideravo già acquisite".
Porte chiuse, dunque. ma il giovane De Gregori non si perde d'animo, e piuttosto che starsene zitto va dritto dal grande capo della RCA, Ennio Melis: "gli davo ancora del lei. gli dissi quello che stavo facendo, gli spiegai che Lilli Greco aveva delle idee e io ne avevo altre. 'Mi dica cosa devo fare, ho trovato tutto chiuso, non posso lavorare'.

Ero pronto a fargli sentire quello che avevo fatto fino a quel punto, ma Melis rifiutò (anche se sono convinto che qualcosa avesse ascoltato. alla fine disse: 'Torni pure a lavorare in studio come ha fatto finora, però se viene fuori un brutto disco se ne assume lei la responsabilità'. Così tornai a finire alla luce del sole quello che avevo iniziato a fare come un topo nel formaggio". No, non venne fuori un brutto disco.
E' l'eleganza della veste sonora una delle caratteristiche che hanno reso Rimmel un disco così unico e fuori dal tempo. Una eleganza stilistica che fa venire alla mente certe sonorità della West Coast.
"si cita spesso Bob Dylan a proposito delle influenze che possono avere avuto ma in realtà dentro Rimmel c'è tutto quello che divoravo a quell'epoca, fagocitando disordinatamente stili e scritture diversissimi fra di loro. C'erano senz'altro James Taylor, Carol King, Joni Mitchell, c'era addirittura Elton John in certe cose.
A Renzo Zenobi devo anche la costruzione delle armonie vocali di Piccola mela e la sua assidua presenza in studio assicurò continuità a tutto il lavoro quando magari io partivo per andare da qualche parte a fare una serata.
Mi rendo conto che raccontata così la registrazione di Rimmel sembra una gabbia di matti, ma credo che la luminosità e la grazia di questo disco nascano anche da questa apparente disorganizzazione, da questa voglia di divertirsi che nulla però toglieva alla nostra concentrazione" .
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

 

 

 

De Gregori, l’Italia raccontata da un «cronista» con la chitarra
«Rimmel? Riuscii a farlo a modo mio con la scusa dei provini»

Francesco De Gregori
MILANO — Quattordici al­bum per raccontare una gran­de storia. Quella di Francesco De Gregori. È la nuova iniziativa targata Corriere della Sera: da oggi, e a seguire ogni marte­dì fino al 5 gennaio, in edicola troverete settimana dopo settimana i cd della collana «Contemporanea » dedicata al cantautore romano. Ciascun album è in vendita a 10,90 euro (più il prezzo del quotidiano) ed è accompagnato da un contributo inedito di circa 40 pagine. Interviste esclusive nelle quali De Gregori racconta la nascita e i retroscena di ogni cd, più una guida all’ascolto e i testi di tutte le canzoni.

Si comincia (e come poteva essere differente?) con quello che è il suo album più celebre e (forse) migliore: «Rimmel». Uscito nel 1975, mise l’allora giovane musicista sotto le luci della ribalta. Non che De Gregori fosse uno sconosciuto assoluto, aveva infatti alle spalle una discreta gavetta. Dal 1970 era ospite fisso del Folkstudio, la mitica cantina di via Garibaldi a Roma dove sono passate generazioni di musica popolare e autoriale italiana. Era già stato in tour nel ’71 come chitarrista di Caterina Bueno. E aveva registrato diversi dischi: «Theorius Campus» in duo con un’altra giovane promessa del­la musica italiana (Antonello Venditti), il suo primo da solista («Alice non lo sa», in vendita in questa collana dal 20 ottobre) e «Francesco De Gregori », album d’esordio con una major discografica (la Rca italiana, dall’87 acquistata dal colosso Bmg) e penultimo appuntamento di questa raccolta.

Ma fu «Rimmel» a farlo uscire dalla nicchia. Le vendite lo premiarono alla grande (è stato uno dei dischi più venduti del decennio), la tracking list diventò una sorta di colonna sonora per un’intera generazio­ne. La «Rimmel» che dà il titolo all’album, e poi «Pezzi di vetro », «Il signor Hood», «Pablo » (con l’arrangiamento di Lucio Dalla), «Buonanotte fiorellino », «Le storie di ieri», «Quattro cani», «Piccola mela » e «Piano bar»: nove brani che messi uno dietro l’altro for­mano una pietra miliare della canzone d’autore italiana.

E dire che la genesi dell’album fu, come dire?, davvero bizzarra. «La Rca era una specie di ministero — racconta De Gregori nel libretto che accompagna il cd della collana — aveva una decina di studi fra grandi e piccoli. Io, come tanti altri, ci bivaccavo dentro ed ero diventato amico di questo, amico di quello, amico di molti musicisti (o 'turnisti', come si diceva allora). Con il disco precedente avevo avuto un sacco di problemi, io avrei voluto lavorare con una band, ma il mio produttore insisteva per un disco più scarno, più da 'cantautore'. Alla fine aveva vinto lui. Ma adesso non volevo che le nuove canzoni che stavo scrivendo suonassero come decideva qualcun altro. Così mi inventai che dovevo fare dei provini e per fare i provini non c’era bisogno dell’autorizzazione di nessuno. Andavi lì, ti mettevi nella prima sala libera con i musicisti che trovavi disponibili e registravi. Oggi sembra impossibile, ma era davvero così, era molto bello. Con la scusa dei provini, in realtà cominciai a registrare 'Rimmel'».

Dopo, fu tutta un’altra storia. Di successi ripetuti, da «Bufalo Bill» a «Viva l’Italia», dalla «Donna cannone» fino all’ultimo «Per brevità chiamato Artista ». Ma anche di contestazioni addirittura feroci e di etichette da lui per nulla gradite: tipo quella di essere troppo «ermetico». In realtà, pochi sono riusciti a interpretare il proprio tempo come ha fatto De Gregori. La sua storia, giunta oggi quasi al traguardo dei 60 anni (li compirà il 4 aprile del 2011), è diventata la nostra storia. E, un po’, anche la storia di questi ultimi decenni.
Maurizio Pluda  06 ottobre 2009

 

 

 

 

 

«Con Fabrizio ci siamo conosciuti al Folkstudio dove lo portò una sera mio fratello Luigi e ci trovammo subito simpatici. Tanto che, qualche tempo dopo, mi invitò da lui in Sardegna, a Portobello di Gallura, per provare a fare delle cose insieme: “Belìn — lui diceva sembre belìn —, perché non vieni da me? Devo scrivere e non c’ho idee!”.

“Vengo di corsa”. Non c’era nessuno, era inverno, faceva un freddo della Madonna. Mi invitò secondo me perché era curioso: gli piaceva vedere come scrivevano gli altri. E poi, stranamente, era anche un po’ insicuro. Di me gli interessava il versante angloamericano che lui non conosceva bene perché si era formato sugli chansonnier francesi. Con me, figuriamoci, si ubriacò di Dylan. Rimasi quasi un mese a casa sua, facemmo molte canzoni come La cattiva strada, Oceano, Dolce luna, Canzone per l’estate, Amico fragile, scritta solo da lui, e Le storie di ieri che avevo scritto io e di cui lui si era innamorato.

Era un pezzo che doveva già finire nel mio disco precedente, ma la casa discografica non me la fece mettere, “perché rischi di passare dei guai” dal momento che parlava di Mussolini.

 

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Fabrizio allora disse “La faccio io!” e la pubblicò nel disco che venne fuori da quel nostro incontro, Volume 8.

Quando la pubblicai anch’io sul mio album Rimmel si incazzò pure: “Belìn, me lo potevi dire che la facevi, così non la pubblicavo io!”.

“Ma io non lo sapevo che l’avrei pubblicata!”: venne infatti sdoganata dalla Rca proprio perché era uscita sul suo disco. Fu un periodo magico. Lì infatti nacquero anche diverse altre canzoni di Rimmel tra cui Buonanotte fiorellino. Un giorno gliela faccio ascoltare e Fabrizio: “Belìn bello questo: è un pezzo che fa soldi!” e ride.

La realtà è che noi stavamo lì per lavorare ma non vedevamo l’ora di finire per andarci a divertire, quindi lavorammo intensamente, anche se da parte sua con una certa fatica mentre per me era una cosa giocosa perché ero già felice solo di essere là con lui, a scrivere e a fare musica. Fabrizio invece viveva sempre la fase della scrittura con molta ansia: “È bella questa cosa, che ne dici? È bella?”. “È bellissima!”. “Ah, belìn, non lo so!”.

Andava confortato in questo senso, anche se, naturalmente, scriveva benissimo. Avevamo un metodo di lavoro strano: non è che stavamo lì a parlare, a discutere dei testi delle canzoni, le scrivevamo e basta. Qualche volta non ci incontravamo nemmeno perché anche se io mi svegliavo tardi lui aveva quasi ribaltato il giorno con la notte.

Molti si chiedono perché non ci sono pezzi di quel periodo cantati insieme ma l’intento non è mai stato quello: l’idea era di scrivere testi e fare delle musiche. E così fu».

La Repubblica, 6 gennaio 2019

 

 

 

 

 

Un ritratto in una fotografia, simile a quello incorniciato nella copertina del suo disco più noto: "Rimmel", ovvero il cosmetico per le ciglia. Il racconto ruota intorno alla parola trucco e a quel ritratto femminile: è un amore, anzi un matrimonio finito. Dove come sempre colpe e ragioni non sono mai da una parte soltanto. È la storia di una sconfitta, di una partita persa malgrado le previsioni, malgrado il vaticinio del futuro vincente fatta con le carte. Perché quella previsione era il trucco di uno zingaro. E le carte con i quattro assi dello stesso colore e il Come Quando Fuori Piove del poker sono l’emblema dell’azzardo dei sentimenti. 

Il ritratto femminile scolpito tra gli accordi del pianoforte ci consegna una donna che si vuole dimenticare, da cancellare  dal proprio presente perché devastante. A lui resta quella fotografia dove lei nemmeno lo guarda, anche se la tiene tra le pagine dei suoi libri, tra le pagine di quella storia fatta di chiari e di scuri. Un ritratto femminile che parla del destino, della sfida; quando dopo tanto tempo i due si rincontrano dopo essersi rifatti una vita e lei gli chiede se conserva ancora quella foto e lui risponde sì, ce l’ho ancora. "È tutto quello che puoi avere di me, il mio ritratto che evita il tuo sguardo". "Rimmel" è una canzone potente, una canzone evocativa dell’anima come l’ha definita Roberto Vecchioni. È il ritratto della lealtà di sentimenti compromessi dai trucchi.

Giommaria Monti, autore di "Francesco De Gregori. Dell'amore e di altre canzoni" per 

https://www.rockol.it/news-735724/8-marzo-otto-donne-cantate-da-francesco-de-gregori

 

 

 

Tutto è perfetto: ironia, sentimento, anticonformismo, poesia, senso storico, fantasia. Sono presenti tutti gli elementi che saranno oggetto di attenzione in questo campo per almeno dieci anni. E ciò investe non solo il piano dei contenuti, ma anche quello musicale. Ci sono le ballate folk in stile americano (Rimmel, Il Signor Hood, Le storie di ieri, Buonanotte fiorellino), c'è la melodia italiana (Piccola mela), ci sono linee armoniche assolutamente inedite (Pezzi di vetro, Quattro cani, Piano bar). Vi sono tempi in due quarti, in tre quarti, in quattro quarti, terzinati. Vi è l'uso del contrabbasso al posto del basso elettrico, e la presenza di ottimi jazzisti, primo tra tutti il maestro Mario Schiano. Vi è una zampata dell’amico Lucio Dalla che suggerisce di modificare il risvolto melodico del ritomello di Pablo .

 

 

 

Ci sono canzoni, nella carriera di un artista, che rimangono per sempre. lo identificano, lo segnano e lo perseguitano anche. Sono quelle con cui il grande pubblico lo ha conosciuto, lo ha amato. Succede un po' a tutti: cosa sarebbe un concerto dei Rolling Stones senza 'Satisfaction', o uno di Bruce Springsteen senza 'Born to run'? Anche se loro, gli artisti, magari ritengono più significative altre canzoni.
E' così anche per Francesco De Gregori: Rimmel è la sua "signature song", come dicono gli americani. ed è davvero una canzone straordinaria: "la scrissi in due distinti momenti a distanza di qualche tempo. In una stanza d'albergo di Milano, da solo, scrissi le strofe stando seduto su un letto. L'inciso incredibilmente venne fuori; qualche tempo dopo, sempre a Milano mentre aspettavo negli studi della RAI di porta Carlo Magno di partecipare a un programma per bambini presentato da Cino Tortorella.
No, non ho mai avuto un rapporto particolarmente difficile con questa canzone. E' un pezzo musicalmente così aperto e solare che farlo dal vivo non può che far bene alla scaletta del concerto. E poi piace alla gente, se lo aspettano, lo vogliono cantare con me. lo non ho niente in contrario, solo che a volte non andiamo insieme perché l'arrangiamento live non può essere uguale a quello del disco, sono passati troppi anni ... Lo registrammo in quel clima di sperimentazione, il clima dei 'provini', per intenderci. Al contrabbasso avevo portato un giovane jazzista romano, Roberto Della Grotta, che suonò in un modo tutto suo, irripetibile sul palco. Adesso sarà che sono passati degli anni, ma Rimmel tende a diventare più rotonda, più dolce, musicalmente vira un po' verso il country.
E' chiaro che Rimmel è un pezzo di vita vissuta, molte canzoni che canto lo sono, ma questo importa fino a un certo punto, non è che rifarle sera per sera faccia diventare la scaletta una seduta di autoanalisi. Le canzoni, soprattutto se sono buone canzoni, trascendono la biografia di chi le scrive, scavalcano l'episodio da cui magari sono nate. E' una vita che scrivo e canto canzoni nei concerti, se ogni sera dovessi calarmi nella situazione che le ha ispirate sarebbe come girare per il museo delle cere, entrare in una specie di routine emozionale. Le mie vecchie canzoni mi accompagnano cambiando insieme a me, assumendo per me sera per sera sfumature e toni diversi. Solo in questo modo riesco ad avere un rapporto leale con loro, quello di un artista ancora vivo e non di un restauratore di tabernacoli. E solo così credo di poter avere un rapporto leale col mio pubblico, con quelli che hanno pagato il biglietto".
C'è anche un fatto musicale, legato al piacere dell'esecuzione. Un fatto che prescinde dal testo, dalla storia della canzone in sé. Ed è la voglia di suonare, magari improvvisando le parti qua e là, anche cambiando la linea del canto perché una volta le note giuste erano quelle e oggi sono queste altre. E allora? Una canzone la devi cantare per come ti va quella sera, non per come ti è andato vent'anni prima, quello sarebbe tradire il pubblico. Anche un testo non è mai archeologia, si può cambiare qualcosa qua e là, aggiungere una strofa, toglierne un'altra".
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

 

 grazie a Vito Vita

 

 

 

(da Giorgio Lo Cascio - DE GREGORI - Muzzio Editore)
Ecco Francesco nuovamente in sala di registrazione. Ci sono delle novità? Vediamo: ha carta bianca, e qui nulla di nuovo. E' il solo responsabile degli arrangiamenti e della produzione, e questa è una novità. Le canzoni sono belle, e qui nulla di nuovo. Che altro dire? Che l'obiettivo è perfettamente a fuoco? Che tutti i pianeti del sistema solare sono allineati nelle congiunzioni più favorevoli? Che le sei corde del cuore sono miracolosamente accordate? Sì, forse occorre dire proprio queste cose.
RIMMEL esce con una copertina molto aggressiva: il volto dolcissimo di una giovane donna della fine dell'800 incorniciato con carta da parati decisamente spropositata. Tutto è perfetto: ironia, sentimento, anticonformismo, poesia, senso storico, fantasia. Sono presenti tutti gli elementi che saranno oggetto di attenzione in questo campo per almeno dieci anni. E ciò investe non solo il piano dei contenuti, ma anche quello musicale. Ci sono le ballate folk in stile americano (Rimmel, Il Signor Hood, Le storie di ieri, Buonanotte fiorellino), c'è la melodia italiana (Piccola mela), ci sono linee armoniche assolutamente inedite (Pezzi di vetro, Quattro cani, Piano bar). Vi sono tempi in due quarti, in tre quarti, in quattro quarti, terzinati. Vi è l'uso del contrabbasso al posto del basso elettrico, e la presenza di ottimi jazzisti, primo tra tutti il maestro Mario Schiano. Vi è una zampata dell'amico Lucio Dalla che suggerisce di modificare il risvolto melodico del ritomello di Pablo, aumentandone il fascino e la presa e meritando con ciò di diventarne coautore. Non aveva alcuna possibilità di fallire, non poteva evitare di diventare ciò che è diventato: una costruzione concreta, cresciuta fino a essere osservabile da grandi distanze e fino a costituirsi come punto di riferimento. Ben diversa da quelle splendenti esplosioni di gioia che illuminano per un attimo la nostra coscienza e poi svaniscono poiché abbiamo altro da osservare, altro da ascoltare. Che eloquenza, non è vero? Il disco ebbe una vendita in continua crescita, fino a diventare un best seller, e continuò a tenere il mercato per molto tempo. In termini di marketing si può dire che non ebbe una dinamica a picco bensì una parabola molto allungata (fenomeno rarissimo nel campo della discografia). Con questo disco Francesco abbandonò definitivamente il mondo dell'adolescenza ed entrò nel mondo adulto, dove ogni cosa è maledettamente seria.
Dunque, RIMMEL era defìnitivamente decollato e volava alto nei limpidi cieli del nostro Paese. I discografici, chiusi nelle loro grandi gelaterie di lampone che fumavano lente, si stropicciavano le mani e facevano tintinnare i bicchieri; i colleghi sconcertati da questo nuovo fenomeno si interrogavano perplessi, il pubblico si gonfiava come un'onda d'acqua limpida, Francesco faceva il suo ingresso ufficiale nell'incrocio dei venti. Essendo finalmente in condizione di provvedere da solo ai propri bisogni, Francesco prese in affìtto un piccolo appartamento nella Trastevere più antica e più incontaminata: in via del Mattonato, accanto a falegnami, rimesse per le carrozzelle, importatori in proprio di sigarette, osterie.
La via era una traversa di via Garibaldi e si affacciava proprio sul vecchio locale ove risiedeva il Folkstudio prima di essere costretto a cambiare sede a causa di un sordido tradimento e che, incapace di ritrovare l'anima che gli era stata sottratta, cambiava continuamente proprietario e destinazione. Era proprio un appartamentino da single: tre piccole stanze, una cucina a vetri scavata su un balconcino interno, moquette scura nella stanza da letto, antichi pavimenti a piastrelle esagonali, di quei pavimenti elastici che senti ondeggiare lievemente sotto i piedi quando cammini.
Francesco vi trasferì subito le sue poche cose: l'impianto stereo e i dischi, un tavolo con i cavalletti, un letto. Poi acquistò i rimanenti oggetti indispensabili e vi si installò immediatamente, abbandonando per sempre il tetto patemo, dove i suoi genitori rimasero soli a considerare con affetto e con grandissima preoccupazione il loro secondo figlio che affrontava da solo il mondo armato, di un'effìmera chitarra, anzichè del potente scudo della laurea, come invece avrebbero desiderato.

 

 

Piano bar è una canzone che deve molto a Elton John ascoltavo anche Lou Reed, gli Stones, c'erano i gruppi rock come i Led Zeppelin.  C'era il Rod Stewart di 'Every picture tells a story'.

 

 

Non credo che sia importante sapere esattamente a chi è dedicata una canzone, è come quando i Beatles fanno 'Lucy in the sky with diamonds" e ci sono schiere di diciottenni che dicono "vedi, è L.S.D."; può essere, non essere, che ti frega, 'Lucy in the sky" è lì, è bella o brutta indipendentemente dai suoi significati puntuali, precisi, mi fa paura insomma vedere le cose così.

  

Prima cosa: l'ascolto totale. Si deve sempre partire dal tutto per scendere alle parti, si deve cioè recepire la forma totale dell'opera (gestalt) e ascoltare dentro di noi la sensazione finale, generale che ci dà senza preoccuparci di capire o tradurre.
In Rimmel questa forma ci è data dall'incalzare "country" di armonie e melodia, melodia di una semplicità schematica disarmante, primaria, tendente a non disturbare la narrazione. Questa forma ci è data da picchi di immagini apparentemente slegati: ci troviamo storditi e meravigliati, senza un punto d'appoggio: non riusciamo ad associare direttamente e subito quel che ascoltiamo a quel che abbiamo visto e siamo. Ma sentiamo una tensione dilagante in tutta la canzone, avvertiamo che i veli e le maschere sottintendono di più di una semplice storia d'amore. Questa forma non ci spara niente addosso di immediatamente masticabile, niente che non siano stimoli o curiosità, o stato febbrile d'attesa, o persino voglia di lasciarsi andare tra i versi senz'altro voler sapere, perché la sensazione generale è così intensa che basta da sola.
È un po' come lasciarsi portare dal mare senza chiedersi che mare sia, se sia veramente mare, se ci sia una riva da qualche parte o no.
Poi, lentamente emergono come da un naufragio dei relitti, dei pezzi d'immagine, delle parole. Soprattutto quelle che lì non dovrebbero mai esserci, non han ragione di starci: QUATTRO ASSI DI UN COLORE SOLO - COLLO DI PELLICCIA - SPEDIRE LE LABBRA - etc.
Se teniamo gli occhi ben chiusi, il quadro tende ad assumere una sua illogica logicità. I frammenti colti ci danno la misura di un dolore contenuto, mascherato, di una passione espressa in centimetri, mai sollecitata, mai magnificata, antiretorica.
È sì certamente una storia d'amore ma non abbiamo il luogo, non conosciamo i protagonisti, non sappiamo il motivo, non percepiamo la quantità del dolore. Eh, si perché di un addio si parla: questa è l'unica cosa chiara. Rileggiamo, riascoltiamo.
Ancora non ci interessano i particolari; ci affascinano ma non ce le spieghiamo tutte quelle metafore: eppure cogliamo il cuore dell'esternazione, una rassegnazione apparente, un voler nascondersi, un senso di sconfitta legata alle cose della vita più che alle colpe di qualcuno, una capacità straordinaria di ricordare a salti, a sbalzi, senza fermarsi e crogiolarsi su un unico quadro e scenario, quasi bruciassero a raccontarli troppo a lungo: tocca e fuggi. E al fondo un po' di cinismo amaro, nessuna traccia di autoconsolazione a cui siamo fin troppo abituati; in fondo gli errori e gli sbagli come occasioni perse, ma perse e basta, inutile rivangare. Non c'è un "Ti amo", un "Ti ho amato", non c'è una stella, una luna, una lacrima, non esiste una concessione al sentimentalismo, perché tutto questo mischiarsi senza tempo di ricordi è di per sé stesso sentimento latente, sotterraneo, stretto all'intenzione, inespresso, ma chiarissimo. È una cronaca. De Gregori ci dà l'essenziale impersonandolo in oggetti e posti, situazioni e cambi di campo che sono l'equivalente delle confessioni che non fa in modo diretto, per non delimitare la cronaca facendola storia letta e consumata.
Ecco, questo ci basta perché questo trascende personaggi, motivi, dolore. Si è sempre in due a lasciarsi in fondo e sempre gli stessi sono i motivi, inutile descriverli. Questo ci basta per capire che grande canzone evocativa dell'anima, leggibile a tutti i livelli abbiamo davanti. La transmedialità è lampante. Il conflitto tra termini e versi provoca un nugolo di BISOCIAZIONI che vanno oltre il già detto, il già sentito. Sta a noi , sta a chi ascolta congiungere i poli dei due contingui significanti. Ma la tensione che proviamo nel non riuscirci del tutto razionalmente è molto più di capire è "sentire" in "toto" il nugolo di stimoli che ha portato l'autore a costruire quella e non altra BISOCIAZIONE, perché là dentro c'è molto di più di un significato solo: ci sono riferimenti (links) alla sua vita personale che si acculìmulano in un verso,e quelli non potremo mai scoprirli ma, per il miracolo della creatività, sentiamo che comunque quei riferimenti sono o potrebbero anche appartenere a noi: riconosciamo nostra quell'universalità del sentire umano che non si può ridurre a un behavior (comportamentismo) di stimolo-risposta di un solo tipo, ma implica passaggi e fughe e ritorni di molti tipi. Non serve nient'altro, ho detto. Rimmel come tante altre canzoni di De Gregori canta per quell'emozione misteriosa generalizzata che ci coglie in pieno.
Non serve altro ma altro c'è, perché comunque il lessico, lo stile non sono un bluff.
L'incipit è il solito:dar per scontato che si è detto qualcosa prima, ed entrare nella storia quando è già cominciata.
QUALCOSA RIMANE, non tutto, non una disperazione eterna o piagnistei simili, "qualcosa", un tratto intravisto a momenti, un segno che comunque non ti levi di dosso.
E la vita di tutti i giorni che è fatta di gioie e di dolori (METAFORA DA CANZONE NON DA POESIA) scorre, va per i fatti suoi. Come lui stesso fosse un negozio, una grande casa di idee da regalare e da vendere, De Gregori cambia insegna al portone: il motivo del distacco è espresso in un lampo: "Io accampavo scuse, fuggivo, tu avevi ragione. Ma senza autoflagellazione, senza masochismo, buttato là come un dato di fatto.
Ammirato da tutti, coccolato, convinto di essere un vincente, si accorge che gli affetti e gli amici ingannano spesso in buona fede. Nello ZINGARO c'è una morfologia tutta degregoriana: questo ciarlatano che è poi il destino lo ha illuso per "mazzoliarlo" al momento giusto promettendogli un FUTURO INVADENTE che a lui così riservato e nemico del chiasso e della notorietà non doveva nemmeno star tanto bene. Zingaro e futuro non è stato capace di contenerli ed è perfetto che dia colpa all'età (che età fisica non è, ma atteggiamento di libertà infantile).

CHI MI HA FATTO LE CARTE MI HA CHIAMATO VINCENTE, MA LO ZINGARO E' UN TRUCCO..

E' UN FUTURO INVADENTE....  FOSSI STATO UN PO'  PIU' GIOVANE, L'AVREI DISTRUTTO CON LA FANTASIA. L'AVREI STRACCIATO CON LA FANTASIA

 

In sei versi ha scritto la sua infanzia, l'impatto col successo, ha accennato, solo accennato al grande amore. La sintesi è perfetta. Poi arriva il presente : lei non c'è, è una sineddoche (le labbra), l'altro uomo non c'è, è ancora una sineddoche (indirizzo nuovo), lui, Francesco, anche lui è una sineddoche (la mia faccia), ma si permette dopo la vaga confessione di colpa dei primi versi di tirarle una sottile stilettata: hai barato parecchio con me ("quattro assi di un colore solo") e le carte di colpo diventan persone, perché questo era il senso, perché lei non bara solo con le carte, ma con gli uomini, coi sentimenti.
Il finale è un film tra Renoir e Casablanca. Lui la ricorda truccata (ma il "rimmel" è anche quello che cola col pianto) introducendo il colpo di genio dell'attimo dell'addio con un botta e risposta di una sintesi allucinante ma più espressivo di tutto un romanzo.
 Lei domanda "hai ancora quella mia foto?", Glielo domanda mentre sono fuori e il vento sta lì a far capire che niente è come prima, che qualcosa drammaticamente si muove. E si muove su di lei che non è più un amore ma una "persona", un corpo, una fisicità qualunque sulla strada: si muove su di lei che è un'ultima annoiata sineddoche ("collo di pelliccia").
Lui non capisce il senso della domanda o forse sì ne ha un certo sentore e risponde senza pensarci "Si, ho ancora quella foto".
"Bene, tientela, perché da oggi in poi è l'unica cosa che ti resta di me". È un addio asettico, tagliente, spietato, comico, diretto, impietoso, originalissimo tutt'insieme. Mai nella canzone italiana si era vista una descrizione simile di un abbandono: non una lacrima, una carezza, un gesto, una spiegazione, un moto di rabbia, un senso di compassione, un ultimo ricordo. Niente. E nemmeno una confessione diretta; nessun "ti lascio", nessun "è finita". Solo quell'improvviso tragicomico giro di parole per non infierire (ma sarà vero poi?), più secco di qualsiasi no.
Questo colpo di genio narrativo, e altri, altri ancora, sono alla base di tutto il rinnovamento comunicativo nonché lessicale di De Gregori, di cui parleremo ancora. E non sono semplicemente una "veste", una "forma" come abbiamo detto già, ma una parte integrante del messaggio dell'esternazione; non solo un "modo", ma anche "il corpo", la "sostanza", a volte il contenuto stesso. E nonostante ciò non smetterò mai di ripetere che un'operazione capillare sul significato dei simboli e delle metafore delle sue canzoni è un lavoro perfino inutile. Quello che conta è "sentire" la forza delle evocazioni e goderne la bellezza, l'opportunità, la collocazione. Quello che conta è lasciarsi prendere, sempre, dalla totalità della canzone, perché smembrarla in parti come abbiamo testè fatto può essere un esercizio interessante ma non aggiunge niente alla bellezza della canzone. E a volte è persino (come detto) impossibile, perché tante e tali sono le alternative che bisognerebbe avere una stanza nella sua testa e nella sua memoria per capirle.
"Rimmel" (l'album, tutto l'album) è stato un giro di boa per tutta la letteratura in canzone, una vera rivoluzione copernicana, una esplorazione mediale e transmediale che non ha quasi pari nella storia recente della canzone (se si eccettua, in altro modo, Vasco).
Ma Rimmel è già un'opera, per così dire, matura, successiva. Come è giunto, per che gradi, con quale esperienza F. De Gregori ad un linguaggio, ad una narratività, ad uno stile così esclusivo e scatenante? Che storia c'è alle spalle di Rimmel? Da dove è partito tutto? (Roberto Vecchioni)

 

 «Amo i cani, specialmente i randagi, sono rimasto sempre affascinato dai loro comportamenti misteriosi. Perché rifiutarsi di credere che io abbia davvero dedicato una canzone a quattro cani?». Detto da De Gregori, il creatore, c'è ovviamente da crederci, anche se i suoi ermeneuti cercano da quasi mezzo secolo di appiccicare un nome a ognuna delle bestiole. “Il primo è un cane di guerra... vive addosso ai muri e non parla mai”, “il secondo è un bastardo che conosce la fame... ed il piede dell'uomo e la strada”, “il terzo è una cagna... e semina i figli nel mondo”, “il quarto ha un padrone... ogni tanto si ferma ad annusare la vita”. Francesco si diverte, e un po' si incazza, a leggere sulle medagliette assegnate per procura rispettivamente i nomi suo, di Venditti, di Patty Pravo e Lilli Greco. «Queste interpretazioni sono apparse in Internet su blog gestiti da persone che dicono di essere miei fan ma sono solo talebani che inventano storie assurde e complicatissime dietro la semplicità delle canzoni».

 

 

 

C'è un verso bellissimo di Enrico Ruggeri che dice: "punti invisibili rincorsi dai cani', nella canzone 'il mare d'inverno'. E' come se i cani andassero decisi verso qualcosa che non esiste. Ti domandi cosa passi per il loro cervello".
Nell'arpeggio di Quattro cani è presente quella bella calligrafia musicale tipica di certe cose che faceva Donovan con la chitarra acustica e questo lo devo sicuramente alla presenza in studio di Renzo Zenobi, che di Donovan era un grande ammiratore.

ulla fiducia dell'autore possiamo quindi rilassarci nella gentilezza melodica di questo tributo al migliore amico dell'uomo, spesso senza il viceversa, con piccole invenzioni di Lucio Dalla con battimani e ululati, ma senza disturbare: “Quattro cani per strada e la strada è già piazza e la sera è già notte, se ci fosse la luna, se ci fosse la luna si potrebbe cantare”. De Gregori dimostra una sensibilità particolare verso i cani, l'ultimo amore è Jose «femmina, conosce la mia vita e sa che sono sempre in viaggio». Nel 2000 compone le parole di “Tobia”, commovente brano di Zucchero che conclude “Shake”: «De Gregori ha avuto l'idea geniale di una storia vista dagli occhi del cane che non sa ritrovare la strada di casa a causa dei perduti odori». Prima ci sono stati “El can de Trieste” (1968) di Lelio Luttazzi che fa le feste “solo davanti a un fiasco de vin”, “Escluso il cane” (1977) di Rino Gaetano, unico conforto dopo un amore finito e “Il pelo sul cuore” (2000) di Renato Zero: “Quanti padroni perdonerai per non lasciarti là dove sei”. E riecco Venditti con l'incipit di “Dimmelo tu cos'è” (1982): “Il nostro cane non mi riconosce più...”. Quando il suo nuovo «amico» Alighiero nel 2016 si spegne, Antonello posta su Facebook una foto insieme con la scritta: «17 anni di amore, rispetto e tanta musica vissuta insieme come fratelli», relazione sicuramente più serena e longeva rispetto a quella con l'ex partner di debutto Francesco, che ha già calato il suo poker, con “quattro gatti moschettieri verso la libertà”, peccato di gioventù opportunamente soppresso.

Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

Adoro i cani e il brano esprime il mio amore per gli animali... anche se mia madre non me li faceva tenere: un pelo un giro sarebbe stata una tragedia! Appena ho potuto ne ho preso uno… mi dà un senso di famiglia.

Ma mi piacciono anche i cani che trovo per strada…A volte sono una compagnia migliore degli umani, anche perché non parlano. Nei loro occhi vedi quello che vuoi: sei al riparo dalle delusioni.

Francesco De Gregori

(intervista di G. Pianetta, 2003)

 

 

 

 

La graphic novel ‘Figli del mondo’ è un tributo all’universo dei cani, tanto presenti nei brani del cantautore romano quanto al centro dell’impegno di LNDC Animal Protection. L’opera, che cita 20 brani di De Gregori ed è tributo ai suoi 70 anni compiuti proprio ad aprile, ci porta nell’anima di uno dei legami più forti della nostra vita, quello con i nostri fedeli amici cani, parlando di libertà, lotta e poesia, ma anche ingiustizie e riscatti. Da oggi è visibile e scaricabile gratuitamente sul sito dell’associazione.

Milano, 21 aprile 2021 – Una graphic novel che omaggia i cani, tanto presenti nei brani di Francesco De Gregori quanto al centro dell’impegno di LNDC Animal Protection. Si chiama ‘Figli del mondo’ e da oggi è visibile e scaricabile gratuitamente.

Sono venti i brani del cantautore romano che, ripresi attraverso citazioni e immagini, raccontano il profondo intreccio d’amore, e di silenziosa comprensione, capace di creare non solo legami tanto intensi quanto indissolubili, ma anche momenti di intimità unici, come quelli che segnano il cammino delle grandi amicizie della vita. Il rapporto tra l’uomo e il cane, quindi, può ed è tutto questo, sia nelle canzoni di De Gregori sia nelle attività giornaliere di LNDC Animal Protection, degli oltre 3mila volontari e di tutto il team dell’associazione che strenuamente lavora per portare questi preziosi compagni di vita ad essere rispettati, protetti, riconosciuti, amati, ma anche spesso salvati da morte certa. La lotta per la vita e l’amore che ne scaturisce, infatti, è l’altro tema al centro dell’opera, densa anche di momenti poetici e riflessivi nei quali uomo e animale viaggiano senza ombra di dubbio sulla stessa strada, dentro un orizzonte comune.

Da ‘Quattro cani’ fino a ‘Due Zingari e ‘Sempre per sempre’ le immagini di questa amicizia scorrono nelle pagine della graphic novel scritta e voluta da Michele Pezone, responsabile diritti animali LNDC Animal Protection che, con questo lavoro, ha voluto togliersi le vesti di avvocato a difesa degli animali per indossare quelle, decisamente più romantiche, di uomo in osservazione della vita. “La storia raccontata”, spiega Pezone, “è stata illustrata dal mio caro amico Francesco Di Gregorio e Francesco Colafella, valorizzata poi dal progetto grafico di Silvia Paglione. Vuole essere un omaggio da parte di LNDC, oltre che mio, a De Gregori per ringraziarlo di tutto quello che, senza saperlo, è stato per me e per tutte le persone che nei suoi brani hanno ritrovato e nutrito tante parti preziose di sé. E che continueranno a farlo, perché parole e musica non sbiadiscono, come la luce dell’antica e intramontabile amicizia che lega uomini e animali”.

https://www.legadelcane.org/rassegna-stampa/lndc-omaggia-de-gregori-i-cani-una-passione-comune/?fbclid=IwAR2LFreFkYcAEZz2jRS7w77xHYV8fxLKWkbbxedxD2rblOJf_u4jSIPvQvc

nella foto di Daniele Barraco, Francesco De Gregori con il suo Billo.

 

L'uomo che inventò i cantautori. Ecco come Ennio Melis, compianto direttore della Rca italiana, ricordava i tempi pionieristici della discografia
Con la scomparsa in febbraio di Ennio Melis, è venuto a mancare il più illuminato dei discografici-artigiani. A lungo direttore della Rca italiana, in questa intervista del 2002 racconta la storia della sua vita e dell'etichetta discografica che fu casa di De Gregori, Battisti, Morandi, Zero, Venditti e Baglioni.

"Durante un'udienza col Papa (Pio XII, ndr) il capo della Rca americana, che era un cattolico e si chiamava Fonshon, chiese che cosa poteva fare per Roma. Il Papa, memore del bombardamento di San Lorenzo, disse: mettete una fabbrica lì nella zona della Tiburtina. Fino ad allora i dischi venivano prodotti e distribuiti dalla Voce del Padrone. Lui impose questa destinazione contro il volere di tutti gli uomini della del Rca, che dicevano che solo Milano è la città della musica. Ci furono molte difficoltà da parte degli americani che non vedevano bene questa cosa. Nel '54 io ero il segretario laico più vicino al Papa. Andai a visitare la fabbrica in rappresentanza di questo signore che lavorava in Vaticano, il conte ingegnere Enrico Pietro Galeazzi. Giudicai la cosa attraente, potenzialmente forte, e questo signore mi disse: ci provi lei, guardi se si può fare qualcosa. Chiusi quasi tutti gli uffici e portai tutto nella fabbrica per ridurre le spese. Diventai ufficialmente segretario della società il 1° aprile del '56. Abbiamo avuto anche fortuna, ci hanno aiutato i successi di Belafonte e Presley".

Gli americani facevano pressioni.
Erano i padrini. Ma la cosa è iniziata a camminare quando io invece ho intrapreso l'operazione del catalogo italiano con i primi Quattro Moschettieri: Fidenco, Meccia, Fontana, Vianello. Iniziarono ad arrivare soldi, e poi arrivarono Morandi, Paolone (Paoli), la scuola romana e tutti i cantautori italiani che sono passati di qua.

Il suo rapporto personale con i musicisti?
Perfetto. Ho sempre voluto bene agli artisti e ai musicisti e credo che anche loro mi abbiano voluto bene perché li ho aiutati sempre.

Ricorda un artista in particolare che non ha avuto il successo che meritava?
Renzo Zenobi, uno dei miei favoriti. Ha fatto 10 lp. Uno con Morricone glielo l'ho fatto fare, addirittura.

Ebbe mai pressioni politiche dall'alto per fare registrare qualche artista?
Mai. No, un momento: le raccomandazioni arrivarono, ma non servivano a vendere i dischi. Erano inutili.

Che rapporto ha avuto con la censura?
La censura era in Rai. Per mandare Lucio Dalla a Sanremo con "4 marzo 1943" ho dovuto passare ore al telefono col direttore della rete che era Salvi, il quale era a contatto col direttore generale della Rai Bernabei: lì c'era il problema della Madonna, di Gesù Cristo…

Quali le differenze sostanziali tra la Rca degli anni 60, dei 70 e degli 80?
Non ne vedo. Fino a quando ci sono stato io è stata una cosa abbastanza omogenea che ha camminato con il progresso dei tempi, con la esigenza di far fronte a un mercato che cambiava.

Cosa pensa delle multinazionali di oggi?
Sono diventate ancora più dure di quello che erano allora. Chiedono risultati a breve termine, quindi non favorisce gli investimenti a lungo termine su un artista. Io dico sempre che Dalla prima che prendesse veramente dei soldi gli ci sono voluti venti anni, Renato Zero quindici, gli altri dieci, otto, sei... e io questa cosa la facevo contro il parere degli uffici amministrativi americani che avevano delle regole, però grazie sempre a quella mia posizione fortunata che è alla base di tutto il successo del Rca: me ne fregavo e andavo avanti. Naturalmente mi permettevo tutto, non solo per le raccomandazioni, diciamo, in alto loco ma perché producevo tanti soldi, io, in prima persona, con il lavoro creativo.

C'è chi dice che dopo lei, Rignano e Sugar, è finita l'epoca dei dirigenti illuminati
Anche le epoche sono cambiate. Il male in tutto questo discorso è che, ormai, in Italia è rimasta Caterina Caselli ad essere autonoma, per il resto siamo in mano a burocrati stranieri che vogliono comandare loro, perché sono loro che investono e che rispondono dei risultati. Alessio Colosi ed Ernesto de Pascale - Trascrizione di Laura Mauric

 

 

 

De Gregori non è nobel, è rimmel - di Giaime Pintor (1975)

S'impone un'autocritica e delle scuse: terminando il mio articolo sullo scorso numero (di Muzak N.d.R.) ho paragonato De Gregori, cantautore romano, con Eugenio Montale, poeta-senatore. Ora è vero che Montale ha vinto il Nobel e che tale premio è paragonabile, per le soddisfazioni morali e materiali, alla vendita di mezzo milione di copie di un disco, ma questo non basta a un paragone che regga. Autocritica dunque per la facile battuta. E scuse al poeta-senatore-nobel e non al cantante-romano-rimmel. Rimmel è l'ultimo disco di De Gregori, e certamente il più venduto e più apprezzato dal pubblico. Di questo disco mi occuperò, disco che mi sembra può essere considerato il manifesto della poetica anni '60 impreziosita da alcuni arrangiamenti barocchi e barocchetti con un occhio al rock morbido della quarta generazione inglese (Elton John e fratelli) e qualcosa d'altro (folklorismo da banane in testa, Dylan e Cohen guardati con occhio miope quasi cieco, De Andrè incoerente, Gian Pieretti, Gianni Meccia e persino Nico fidenco…), e su questo tessuto povero-povero egli appoggia pesantemente testi in cui la metafora ermetica campeggia vittoriosa nei suoi vestiti più kitsch.Non dirò altro sulla musica, anche perché sono snob e le canzonette non mi sono mai piaciute. Più interessante è invece un'analisi un po' più attenta dei testi e dell'orizzonte "culturale" nel quale il canto degregoriano si muove. In Rimmel la metafora è presa a sé, non collocata all'interno di un discorso "logico", così come teorizza l'ermetismo pre-bellico, da Ungaretti a Quasimodo: vorrei dire, anzi, che i nessi logici sono evitati in toto, fino ad arrivare alla contraddizione fra alcune metafore più leggibili di altre. Così in Rimmel, la prima canzone del disco, sembra di leggere le storia tipica delle canzonette di un amore finito. E mentre lui cancella "il tuo nome dalla mia facciata", lei è espressamente autorizzata a "spedire le sue labbra a nuovo indirizzo" (cioè, si evince, ad andare con un altro uomo, a soffrire i suoi baci, "le labbra", ad altri) e, subito dopo, a "sovrapporre la faccia a quella di chissà chi altro" (cioè a baciare quell'altro continuando a pensare a "lui"). Se il nesso logico, fra la " spedizione delle labbra" e la "sovrapposizione della faccia" è questo che abbiamo interpretato, allora salta tutta la interpretazione della canzonetta come "amore finito". E invece no, perché tra metafore incomprensibili, c'è una storia di una fotografia zeppa di particolari (sorridevi e non guardavi, il vento che ti passava nel collo di volpe ecc.)che lei dice essere l'unica cosa che lui possiede di lei stessa, dunque amore finito, almeno sembra. La metafora dunque è puro gioco delle parole, dunque non più metafora né, tantomeno, allegoria, ma in qualche modo evocazione, intuizione lirica, , suono che in qualche modo rimanda: e quasi sempre rimanda ad amori sofferti, ma non sempre. E' indubbio infatti che c'è un tentativo di introdurre concetti politici o comunque spaccati di vita non esaurita nelle stanche storie d'amore. E qui (in questo senso fa testo la canzone Pablo) c'è un'evidente contraddizione (doppia, fra l'altro) fra ermetismo e pratica, fra teoria dell'evocazione senza storia (propria della corrente ermetica) e riferimenti storico-concreti. Noi non siamo per il realismo, ma non è un caso da sottovalutare (senza cadere nel peggior crocianerismo) che la fortuna dell'ermetismo dati anni '30-'40, e cioè si collochi programmaticamente come isolamento dal fascismo, isolamento nell'attività pubblica e nella poesia come risposta "privatistica" alla retorica mussoliniana. Ma doppia contraddizione perché una poetica ermetica, dell'intuizione lirica, è una poetica tendenzialmente idealista, dunque di destra, arretrata negli anni '70, dunque incapace di rispecchiare tensioni, di farsi portatrici di valori positivi e rivoluzionari. [….]Pablo, abbiamo detto: è una canzone che narrala storia di un emigrante spagnolo in Svizzera che muore sul lavoro (sembra di capire) "caduto per caso" (ma dovrebbe esserci ironia, spero) con il ritornello finale "hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo". Un elemento è soprattutto irritante in questa che dovrebbe essere la canzone più lontana dall'ottimismo decadentista del resto del disco: ed è l'esotismo e il tono pastorellesco e laudatore del buon tempo andato del testo. Infatti questo Pablo vive in una Spagna tutta sua, in cui la moglie ingrassata che lui tradisce in Svizzera (e vorrei anche vedere che si mantenesse casto) e un gallo da combattimento in latteria. Una Spagna tutta inventata o quasi, di maniera: da chi ha nei suoi dubbi riferimenti e orecchiamenti culturali Garcia Lorca, ci si potrebbe aspettare di meglio. E' evidente, peraltro, che l'evocazione (e la presunzione di far poesia) faccia scivolare il canto degregoriano kitsch in cui non tanto Gozzano è presente, quanto i baci Perugina. Chi osasse citare il decadentismo italiano, peggio quello francese, l'ermetismo o Lorca o persino Dylan nel caso di Buonanotte fiorellino o di Piccola mela, commetterebbe un flagrante reato di lesa cultura. E nemmeno Prèvert, sebbene sia il più vicino a queste melensaggini, può essere un riferimento citato senza ridere. Né, per altro, frasi del tipo "buonanotte fra il telefono e il cielo" possono indurre a pensare di essere al di là della peggiore canzonetta all'italiana. Per di più in questa canzone il modo stesso di cantare si trasforma in uno zuccheroso bisbiglio da cantante confidenzial-lezioso francamente insopportabile, che sbanca chiunque parli di sottile ironia. Anche qui, a parte il senso totale che è quello di una canzonetta d'amore, non mancano le metafore evocative senza nessi logici, e così c'è pure un raggio di sole, che stride e con la notte di cui alla buonanotte, sia con il tono tutto sommato dimesso di tutta la canzone: una metafora volontariamente priva di contestualizzazione e per di più messa tanto per fare, quasi per calcolo statico. Così come non è tollerabile una frase come "i tuoi fianchi di neve" di pavesiana memoria (le colline come i seni delle donne) ma di più stretta matrice Liala. Se tanto spazio ho dedicato a De Gregori (e ancora un po' me ne prendo) non è solo per essere lui il caposcuola indiscusso di tutta la corrente di cantautori ermetici (e il migliore, fra l'altro, se escludiamo Guccini, che fa scuola a sé), ma perché il suo successo di pubblico impone qualche riflessione importante. E' indubbio, prima di tutto, che la canzonetta, proprio per il suo carattere melodico-fischiettabile , abbia un valore grosso nella cultura di massa: e per la sua riconoscibilità (da non sottovalutare in periodi di crisi d'identità culturale) e per il suo valore di socializzazione (e risposta, nei modelli culturali di facile acquisizione, alla disgregazione). Ma questo non spiega ancora il successo che De Gregori ha preso un pubblico tutto sommato intelligente, giovane e di sinistra. Non lo spiega se non con un riferimento doppio: il liceo e Dylan. La pseudo-cultura liceale ha un peso specifico e assoluto enorme nelle canzoni di De Gregori, vorrei dire che egli la riassume sprofondandola dei suoi contenuti per offrirla come pura metodologia dell'approssimazione e della cialtronaggine. Il professore di italiano che fa scrivere agli alunni su un quaderno le "frasi più belle di Dante" (esiste, esiste anche questo), la professoressa di filosofia che fa imparare a memoria la definizione di sostanza di Spinoza ("per substantìa intellego id quod est ecc") sono i sacerdoti di una cultura inesistente che vive solo grazie a un'erudizione appiccicaticcia e all'ideologia della cialtronaggine: come imparare (dalla filosofia, per esempio) a non dire nulla chiacchierando, non capire e fregarsene, non allargare al di là e al di fuori di libri e bignamini l'orizzonte della propria cultura. Questo è nelle canzoni di De Gregori (che poi potrebbe essere la persona più colta del mondo, ma questa è l'operazione delle sue canzoni), questo egli trasmette, questo sono abituati da anni a considerare poesia gli studenti: poche evocazioni senza né capo né coda, qualche ammiccamento qua e là a un riferimento universale. (uno dei più squallidi epigoni di De Gregori, tal Venditti, arriva persino a questo osceno concetto in una sua canzone "la Divina Commedia che diventa sempre più commedia"!) Su questo orizzonte di sottocultura spicciola e programmatica, si inserisce Dylan e la poesia psichedelica. Il primo, con le sue ben più robuste volgarizzazioni di Eliot e Dylan Thomas, la seconda con la teoria mai troppa esecrata delle "libere associazioni", versione ammodernata, di massa, impoetica e incolta dei "mauditis" francesi (ogni paragone continua ad essere lesa cultura). In questo calderone ha buon gioco, se ben spinto dalla sua Casa discografica, Francesco De Gregori a diventare un idolo di massa, nonostante qualcuno abbia già cominciato a maltrattando cercando per lui lo slogan, non metaforico, ma indubbiamente evocativo, "Francesco De Gregori, mo' te tirano li pomodori!".

 

 

 

 

Winterlude, Winterlude, oh darlin'………,
le note della vecchia canzone di Bob Dylan si spargono gentili nell'aria dello studio nell'abitazione di Francesco De Gregori. A cantarla,
accarezzando una vecchia Gibson J50, è proprio lui, il cantautore romano.
"vedi?" dice come un insegnante davanti ai suoi alunni. "in questo punto Dylan mette un accordo di settima, mentre buonanotte fiorellino passa da minore a maggiore ... ma certo non è l'unica differenza, tutta la melodia è diversa. Però è vero, una volta ho detto che Buonanotte fiorellino l'avevo copiata da Winterlude, ma era un po' una provocazione, era un pezzo minore del repertorio di Dylan che mi piaceva molto e sicuramente per l'attacco gli devo qualcosa, ma del resto io non ho mai teorizzato l'originalità a tutti i costi.
Ero perfettamente consapevole che Buonanotte fiorellino era una canzone un po' zuccherosa, se non altro in superficie. L'ho scritta apposta così.
Certo, sembrò strano a molti, e per alcuni fu imperdonabile, che nello stesso disco ci fossero due pezzi così diversi fra loro come Pablo e Buonanotte fiorellino. Probabilmente perché questo non rientrava nel loro schema del cantautore impegnato. Come dire ... sì, puoi anche scrivere canzoni d'amore, però che siano almeno come Rimmel. .. non queste sdolcinatezze, non 'buonanotte, buonanotte amore mio ... '. erano i tempi in cui si diceva "il privato è politico" e forse questa canzone era troppo intima, non era abbastanza politicamente corretta. Invece mi era piaciuto proprio riportare il linguaggio dell'amore a quello che a volte può essere: filastrocca, parole leggere, tenerezza, infanzia di ritorno".

 

Ma siamo sicuri che buonanotte fiorellino sia proprio tutta questa saccarina? A leggerne il testo senza pregiudizi, potrebbe suggerire anche un altro scenario, molto meno tranquillo: "Nonostante certe parole e il ritmo un po' da ninna nanna, Fiorellino è pur sempre la canzone di un amore finito, come Rimmel del resto. E tutti gli addii sono una perdita, una sconfitta, anelli che rimangono sulla spiaggia, stagioni che finiscono. E anche in questa storia niente sembra risolto, niente viene perdonato. Mi piaceva proprio questo contrasto fra la forma e il contenuto. Oggi ogni tanto trovo qualcuno che mi dice "lo sai che la usavo per addormentare mio figlio?" e penso che magari è la stessa persona che aveva storto il naso dopo averla ascoltata la prima volta perché la trovava troppo leggera. E in tutti e due i casi non aveva capito niente".
Peraltro, Buonanotte fiorellino ebbe una anteprima di non poco conto: "la scrissi in Sardegna mentre lavoravo con Fabrizio De André per il suo disco Volume VIII. Gliela feci ascoltare e a lui piacque molto. disse, chissà perché, che sarebbe piaciuta a Paolo Villaggio.
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

 

 

 

Francesco De Gregori,

questa non è un'intervista:

"Perché ho 'dylaniato'

'Buonanotte fiorellino'"

di Luca Valtorta - La Repubblica 5 febbraio 2017

 

Tutti conoscono De Gregori per le parole delle sue canzoni ma lui, che ha appena pubblicato un nuovo album live, 'Sotto il vulcano', spiega perché invece una canzone non deve mai essere uguale a se stessa."Ho fatto 'Buonanotte fiorellino' in mille modi: con il violino, senza e adesso la faccio dichiaratamente in versione Dylan"

 Tra le pagine chiare e le pagine scure prendono forma immagini, frammenti di vita, pezzi di sogno, pezzi di stella, pezzi di costellazione, pezzi di sorriso, pezzi di canzone. Le parole diventano musica, la musica è parola. "Musica fanciulla esangue/ segnato di linea di sangue/ nel cerchio delle labbra sinuose/ regina de la melodia". Chiamatela poesia se vi pare, come fosse Campana, ma no perché, appunto, "c'è la melodia!", chiamatela come volete. Certo se Francesco De Gregori, per brevità chiamato artista, invece di scrivere “ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo" avesse scritto "mi sono lasciato con la mia ragazza" non staremmo parlando di lui a più di quarant'anni anni di distanza da Rimmel, non avremmo immaginato di volare via con La donna cannone, con quelle parole che vanno dritte al cuore ("e non avrò paura/ se non sarò bella come dici tu") e non avremmo in mente, scolpite, visioni dei gatti che "muoiono nel sole" e la desolazione di Cesare (Pavese) perduto nella pioggia che aspetta il suo amore, ballerina.

 "No, poeta no", dunque. Artista sì, però ("uso questo termine senza alcun sussiego né presunzione ma solo per indicare il lavoro che faccio"). Comunque icona ("per carità no!") con cui siamo cresciuti, che ogni italiano ha nel suo dna: chi non ha un ricordo legato a una canzone di De Gregori? Canzoni d'amore (certo Buonanotte fiorellino, tante volte 'dylaniata', ma anche psichedeliche come Dolce amor del Bahia, non a caso rifatta da Vasco Brondi, il più 'degregoriano' dei nuovi artisti, ma passando per i CCCP e il punk rock), canzoni politiche senza politica (Pablo che era il mio modo per sintonizzarmi su Radio Popolare di Milano trent'anni fa, perché la trasmettevano in continuazione e poi, naturalmente, Viva l'Italia, che tutti hanno cercato di fare propria senza riuscirci o il cuoco di Salò che tanta discussione aveva suscitato), canzoni 'esistenziali' (da Il signor Hood a La leva calcistica della classe '68). E poi quanti capolavori: Rimmel, l'album perfetto, ma anche il disco omonimo del 1978 con Generale e Natale, forse il successo commerciale più grande; e che dire di Titanic che gli esegeti considerano il 'vero' capolavoro, contrapponendolo a Rimmel? E Calypsos, che non si smetterebbe mai di ascoltare? E Sulla strada? E il disco dal vivo italiano più bello di sempre, Banana Republic con Lucio Dalla?

 Francesco De Gregori, nella sua casa romana piena di luce, un pianoforte in mezzo alla stanza, dalla parte opposta una libreria, quadri, dischi, un pacchetto di Gitanes senza filtro appoggiate su un tavolino basso che fumerà con discrezione e un certo gusto insieme a un caffè in tazza grande. Anche l'sms che mi era arrivato il sabato precedente l'intervista era elegante ed essenziale: poche parole, concise, il luogo dell'incontro. A capo. 'f' minuscola. Punto.

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Tutti conosciamo Francesco De Gregori ma lei, in un pezzo intitolato Guarda che non sono io, dice "guarda che non sono io/ quello che stai cercando/ quello che conosce il tempo/ e che ti spiega il mondo". Insomma un conto è la fotografia, l’icona, un altro la persona reale, un po' come il Magritte di Questa non è una pipa.

"L’arte è sempre qualcosa che allude. Non dà mai risposte, nemmeno in termini di identità. Gli oggetti si trasformano: l’Orinatoio di Duchamp può diventare tutt’altro. Il divertimento sta proprio nello spostare i termini della questione. Questo vale anche per il mio mestiere".

 A parte il punk, che si poneva l’idea di distruggere l’idea stessa di rockstar, non sono molte le 'icone' che cercano di non essere considerate tali, che dicono 'preferirei di no'.

"No, ecco, appunto icona, no! Ma non è che io ci abbia fatto un ragionamento sopra. Io faccio uno dei mestieri più liberi del mondo: perché non devo approfittarne?".

 Lei suona con gli stessi musicisti da molto tempo e ama molto suonare dal vivo, cambiando spesso le canzoni. È alla ricerca del suono perfetto?

"Sono alla ricerca del mio suono. E avendo una frequentazione ormai lunghissima con gli stessi musicisti ci capiamo al volo. Non sono degli esecutori, partecipano tutti al processo produttivo ma, banalmente, visto che ci conosciamo così bene, non si perde tempo. Soprattutto conoscono le mie idiosincrasie…".

 Quali sono le sue idiosincrasie?

"Certe scorciatoie che ammiccano al pop, certe soluzioni più banali. Io tra loro sono il meno musicista, nel senso che la mia formazione è avvenuta sul campo a poco poco, ma proprio per questo mi capita di avere delle idee non ortodosse che poi cerco di tradurre in musica: non è facile sintonizzarsi con la mia anarchia ma col tempo ci siamo riusciti. Io ho iniziato a fare le prime cose con un gruppo solo dopo aver fatto Rimmel nel '76/'77. Per me è stato drammatico l’incontro con altri perché partivo dal testo e cercavo di spiegargli quello che dovevano fare a partire da quello, dal senso del brano. A quei tempi, ai musicisti del testo invece non gliene fregava niente, non volevano nemmeno ascoltarlo. Io poi avevo preso dei giovani che venivano dal jazz, che era proprio un altro mondo, molto elitario, del tipo 'noi facciamo jazz poi andiamo a suonare con De Gregori perché ci paga'. E io gli dicevo: 'Dovete suonare Atlantide, che sono tre accordi tutti uguali'. Loro lo facevano e a me faceva schifo come veniva. Glielo facevo notare e loro: 'Vabbè sono tre accordi!'. Certo, sono tre accordi. Che vanno suonati in un certo modo. Io per suonarli come volevo davvero ci ho messo vent’anni. E adesso ci riesco perché sono diventato più bravo io e perché si è molto alzato anche il livello culturale di chi suona: non c’è più nessuno che ti dice: 'Ah, ma no io faccio rock, jazz etc.!'. C’è molta più consapevolezza di cosa vuol dire suonare".

Le scorciatoie sono odiose anche nel nostro mestiere, che è quello di divulgare dando al pubblico degli strumenti per capire, non perché i lettori sono stupidi, ma perché non hanno il tempo di informarsi su tutto. Ma naturalmente evitando anche qui, come nella musica cui faceva accenno prima, gli stereotipi. Tipo 'l’elfo islandese' quando si parla di Björk, 'la sacerdotessa del rock' per Patti Smith e, la madre di tutti i luoghi comuni, 'il menestrello di Duluth' per Bob Dylan…

"Uh, uh, uh! (suoni di sincera disapprovazione, ndr). Quello dovrebbe essere proprio vietato per legge! Sono le cose per cui quando leggi un articolo e trovi una di queste definizioni volti pagina. Vale per tutti i settori di un giornale. L’uso di certi termini nei titoli: la rabbia per esempio è abusata. La rabbia dei postelegrafonici! O dei ristoratori o… intercambiabile per tutte le categorie (ride)".

 A proposito di sfidare gli stereotipi, lei a un certo punto ha fatto una cover di Vita spericolata di Vasco Rossi.

"Perché è un pezzo che mi è sempre piaciuto. Sembra strano?".

Abbastanza.

"È una delle più belle canzoni italiane. La cosa incredibile è che Vasco la fece a Sanremo e notoriamente io non sono un ammiratore del mondo sanremese, ma devo dire che ogni tanto da lì uscivano pezzi straordinari. Ma perché sembra strano che io faccia Vita spericolata? (ride)".

Beh, ho avuto l’impressione che anche il suo pubblico…

"Il mio pubblico rimase esterrefatto (ride)".

Insomma... lei è il Principe.

"Che vuol dire? Il pubblico va per stereotipi: il Principe, il maledetto, il professore… A me è sempre piaciuto cantare le canzoni degli altri. Certo, lo ammetto, mi rendevo conto che poteva sembrare una provocazione ma per me non lo era per niente".

 Non essere mai dove gli altri pensano che tu possa essere, anzi che tu debba essere: tutto ciò è molto punk. Anzi è l'essenza stessa del punk: strano per De Gregori.

"Per me conta il fatto di non porsi nemmeno questa domanda. Non voglio mai neppure lontanamente pensare a come devo essere. Non voglio essere dove qualcuno vorrebbe che io sia. Le dirò di più: anche se l'intero mio pubblico pensasse che io debba stare in un certo luogo, non ci starei. La mia necessità è solo quella di essere sempre me stesso. In un mondo dove ormai le playlist le fa Spotify mi sembra essenziale fare sempre e solo tutto quello che mi viene in mente e pazienza se non è quello che ci si aspetta da me. Con un solo limite".

 Quale?

"Del cercare di non fare cose brutte. Per questo cerco di lavorare molto su tutto ciò che faccio: è questa la forma di rispetto che devo al pubblico, non il fatto di dargli quello che vorrebbe io facessi. Per esempio, se mi va di fare una cosa con Fausto Leali, come il duetto di Sempre per sempre, non ci penso due volte. La spinta deve essere di totale innocenza e indipendenza".

 Del resto, quando Vasco fa Generale, è un tripudio assoluto, si diverte tantissimo.

"Certo. Per fortuna è solo ai puristi che non va che De Gregori faccia Vasco Rossi e viceversa: ben venga Vita spericolata quindi! Vasco poi ha uno stadio intero che lo ascolta: è un'emozione…".

Lei però è stato il primo a riempire gli stadi.

"Sì, io e Dalla. Siamo stati i primi proprio a farli gli stadi, in realtà. Si parla del 1978 e in effetti nemmeno gli artisti stranieri si esibivano lì, allora. Dopo di noi forse la prima fu Patti Smith, nel 1979, a Firenze".

Come nacque l’incontro con Dalla?

"Io stavo alla IT, una piccolissima etichetta discografica che faceva capo a Vincenzo Micocci che Lucio, che aveva preso da poco casa a Roma, frequentava perché c’era anche Ron. C’era un pianoforte, lui a volte si metteva lì e suonava. Era già famoso, aveva fatto 4 marzo 1943. A poco a poco ci siamo incuriositi l'uno dell'altro e così capitava che suonassimo insieme e poi magari partecipavamo ai rispettivi concerti. Era un’atmosfera un po’ da gita scolastica, tipo: 'Lucio, stasera io suono a Viterbo' 'Ok, vengo anch’io' e magari saliva sul palco con me e faceva una cosa col clarinetto; oppure ricordo, per esempio, che c'era Anidride solforosa, un pezzo che a me piaceva moltissimo. Lucio mi aveva detto: 'Dai, suonaci sopra l’armonica! E così facevamo'. Pablo infatti è firmata anche da Lucio, perché mentre io la stavo scrivendo lui mi accompagnò a Bari e nel pomeriggio, mentre l'ascoltava, mi disse: 'Qui nell’inciso non si muove abbastanza'. Lui non sapeva suonare la chitarra ma io l’ascoltai perché avevo capito che aveva ragione. Ecco, questo era il clima. E quindi Banana Republic non fu altro che il coronamento di questa amicizia. Anzi, direi che poi con Banana Republic si esaurì inevitabilmente. Non ci vedemmo per diversi anni e ci rincontrammo nel 2010. La tournée che abbiamo fatto allora dal punto di vista musicale secondo me era molto più bella della precedente, però certo, non aveva più quel fascino della novità, dell’unione di questi due strani personaggi in un periodo in cui i grandi concerti non esistevano".

Musica dal vivo: lei non fatto dischi live per un lungo periodo, poi improvvisamente ne ha fatti tantissimi. Come mai?

"Io credo dipenda dal fatto che all'inizio non sapevamo suonare molto bene e quindi i dischi live ho iniziato a farli uscire quando mi sembrava che ne valesse la pena. Sono stato anche molto criticato per questo. In effetti, se vado a contare i dischi in studio e quelli live, sono quasi una discografia parallela. Perché li ho fatti allora? Un artista ha necessità di documentare quello che fa, nel mio caso i concerti, proprio come un pittore fa tutti i quadri che vuole. C’è del narcisismo? Sicuramente. Ma chi non ha piacere a mostrare una propria opera… A parte la compulsività a pubblicare se stessi, il live è anche rendicontare la possibilità di una canzone di trasformarsi, da sera a sera o dall'anno prima o da vent'anni prima. Io non la forzo: io vado appresso questa trasformazione. Cambia la mia voce da sera a sera, non può non cambiare la canzone. E questi cambiamenti per me è inevitabile raccontarli: è per questo che pubblico tanti dischi dal vivo. Molti mi hanno criticato ma per me non c'è una legge da seguire, la mia libertà sta nel fare quello che sento, la libertà del pubblico è nel comprare o meno i dischi che faccio: non divento ricco a fare tanti dischi live, ma perché mai non li devo fare?".

Tra l’altro, in questo nuovo album, Sotto il vulcano, che è appunto un live e, oltretutto, doppio, lei ha rifatto un pezzo che cantavate con Dalla in Banana Republic.

"Mi è venuta l'idea passando da Milo, in Sicilia, dove abitava Lucio. A un certo punto mi sono scoperto a canticchiare questa canzone e il giorno dopo, a Taormina, avevo la penultima tappa del tour. Ho deciso lì per lì. Tra l'altro, per motivi tecnici, non avevo la possibilità di provarla con la band per cui gli ho detto: 'Ascoltatela su YouTube, lì c'è la versione originale'. A quel punto mi è venuta la voglia contraria rispetto a quello che ho teorizzato fino a ora: ritornare a fare esattamente la canzone com'era, perché nel frattempo sono state fatte talmente tante versioni a molte delle quali ho partecipato anch'io. Non la rifacevamo mai uguale. Invece questa volta volevo proprio il violino e la chitarra con quel riff popolaresco. L'ho fatta solo quella sera: quella dopo avevamo un concerto in Sardegna ma non l'abbiamo suonata".

 Come mai ha scelto la versione censurata, quella in cui il verso “ancora adesso che bestemmio e bevo vino/ per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino” è stato cambiato?

"Mi sono innamorato di quella versione quando l'ho sentita a Sanremo: non so se l'originale era l'altro o se Lucio nel corso del tempo l'abbia attualizzata. Trovo molto più delicato dire 'ancora adesso che gioco a carte e bevo vino/ per la gente del porto sono Gesù Bambino' perché mi sembra più adatto a una canzone dedicata a un tema importante come la maternità. Non desiderata ma comunque vissuta con dolcezza, un tema nobile: questa giovane donna, lui che nasce e gli viene dato quello strano nome, tutto riconduce a un'atmosfera quasi sacra. Per cui immettere un tema che sicuramente è più realistico, come un riferimento alla bestemmia e alle puttane, non mi affascinava, anche se l'ho cantata tante volte insieme a Lucio anche con questo testo".

 Lucio non teneva a una versione in particolare?

"No, credo che la cantasse di volta in volta come gli veniva. Questa canzone ha qualcosa di arcaico, non perché 'vecchia': lo era già quando è stata scritta. Fa rifermento a degli archetipi: la maternità, la guerra, la solitudine. È una delle canzoni più belle che abbia mai cantato Lucio. Poi non so se qualcuno ha detto a Lucio: 'Non usare parole come bestemmia o puttane a Sanremo'. È una canzone commovente per la sua bellezza".

Restando sul tema delle canzoni commoventi, ha visto la performance di Patti Smith alla cerimonia del Nobel?

"In un contesto così diverso da quello normale, così paludato non credo ci si senta a proprio agio e poi certo l'emozione: è facile dimenticare le parole in simili circostanze...".

 A lei è mai capitato?

"Come no? Su YouTube ci sono cose impressionanti...".

 Lei ha un repertorio di più di duecento canzoni. Come fa a ricordarle?

"Questa è una bella domanda. Me le ricordo al 99,9%. Quello che non ricordo lo invento al momento, oppure succede il disastro. Però mi piace ricordarmele: non ho mai usato e non uso il gobbo elettronico. Quando leggi non è la stessa cosa, credo che il canto ne risenta. Quando abbiamo fatto il tour nel 2010 leggevamo perché Dalla preferiva così. Ma devi stare attento: le sue parti erano segnate in rosso, le mie in bianco. Per me era un freno. A proposito di Dylan, però, devo dire che mi è piaciuto molto il discorso che ha mandato in occasione del Nobel".

 Cosa in particolare?

"Beh, per esempio quando dice: 'Vi ringrazio per avermi chiarito le idee sul fatto che sono uno scrittore. Io in realtà nella vita ho sempre avuto problemi pratici, tipo trovare lo studio giusto, il bassista adatto'. Fa tutto un ragionamento low profile e poi, ecco la cosa che ti fulmina: 'Del resto credo che anche Shakespeare abbia avuto lo stesso problema: doveva rispondere ai committenti, allestire una sua tragedia, per cui si chiedeva: 'Ci saranno abbastanza posti in platea?', 'abbiamo lo sponsor', 'dove lo trovo un teschio umano per domani sera?'. Per cui vi ringrazio di avermi detto che faccio letteratura perché non me ne ero mai accorto'. Capito? Prima dice di non essere uno scrittore e poi conclude ‘proprio come Shakespeare!’".

 Anche lei ama molto questa praticità del mestiere?

"Certo: senza quella non saremmo qua né io né Dylan. Lo dico spesso: facciamo un mestiere che per buona parte è fisico, manuale, dove dobbiamo anche saper cambiare la valvola dell’amplificatore. Altrimenti hai voglia a scrivere di 'Pavese perduto nella pioggia': non arriva proprio materialmente. Viaggiamo quindi sulla falegnameria, sulla praticità, sulle previsioni del tempo, sull’elettricità".

 Parlando di Dylan, lei ha letteralmente 'dylaniato' uno dei suoi pezzi più famosi, Buonanotte fiorellino, un tempo considerato da alcuni un cedimento alla decadenza borghese, troppo smielato e al tempo stesso follemente amato dal suo pubblico. Forse persino troppo amato.

"Certo l'ho 'dylaniata' mille volte e non solo con Dylan: una volta c'è il violino, un'altra no, una volta è in tre quarti, in quattro quarti non l'ho ancora fatta ma prima o poi ci arriverò. Sì, certo, da un po' la faccio dichiaratamente in versione Rainy Day Women (un brano molto giocoso e “stonato” di Dylan che apre il suo capolavoro, Blonde On Blonde, ndr) è un po' la stessa operazione che fa Duchamp quando mette i baffi alla Gioconda. Prende, ruba, cita: fa tutte queste cose insieme. Diciamo che, fondamentalmente, si diverte. E forse mette anche il suo pubblico nelle condizioni di divertirsi, nel senso nobile: gli offre punti di riflessione, di arricchimento, di scoperta. La famosa 'sfasatura' che sta dentro i processi artistici".

 C'è una parte del pubblico che vorrebbe cullarsi con il ricordo della 'sua' Buonanotte fiorellino...

"C'è una parte del pubblico che è conservatore. Mi rendo conto di cosa vuol dire perché quando io sono pubblico, anch'io sono conservatore. Se andassi a sentire un concerto di Dylan e lui per una volta mi facesse Like a Rolling Stone o Just Like A Woman o Blowin' In the Wind così come le ha fatte sui dischi esclamerei: 'Ooooh!'. Subito dopo però mi porrei il problema: è sincero mentre sta facendo questo o sta facendo un monumento a se stesso? E penso che la risposta sarebbe: 'Non è sincero fino in fondo'. Io a un artista sul palcoscenico quello che chiedo è la sincerità, cioè che in quel momento lui mi restituisca quello che sta succedendo nella sua testa. La sua testa non può essere quella di quarant'anni prima. L'evoluzione di una canzone è peggiore? Pazienza, mi becco la peggiore".

 Manuel Agnelli degli Afterhours a un certo punto chiedeva al suo pubblico di non cantare. Ma poi si è dovuto rassegnare.

"Ha ragione, si può creare una discrasia che ti può far sbagliare, soprattutto se tu cambi il pezzo. Come anche battere le mani: succede spesso che il pubblico non vada a tempo e così diventa una cosa strana. Comunque va bene, il concerto è anche un momento di festa, non è un saggio accademico".

 Quali sono i suoi dischi dal vivo preferiti?

"Direi 4 Way Street di Crosby, Stills, Nash & Young e sono indeciso tra Hard Rain e Before the Flood di Dylan, escludendo la Bootleg Series dal momento che sono dischi che lui non aveva intenzione di pubblicare in origine. Ha accettato di farlo solo molto tempo dopo".

 Come saprà è appena uscito un box di 36 cd, Bob Dylan: The 1966 Live Recordings, che documenta tutto il tour del 1966 di Bob Dylan, quello del passaggio dal folk al suono elettrico in cui ogni sera c’è una battaglia con il pubblico che gli urla 'traditore'.

"Ecco, questo è proprio l'esempio giusto: un giorno ti ascolti un disco, un giorno l'altro e senti la stessa canzone come cambia nel giro di poco tempo. È un documento storico importantissimo e da musicista impari molte cose. Ma è importante anche per un non musicista, credo. È un po' come entrare nell'atelier di Picasso e vedere cosa c'è dietro un suo quadro: gli studi, i tentativi, gli errori anche. Diciamo che l'ascolto dei dischi live contraddice quelli che pensano che la musica debba essere per forza patinata, inappellabile dal punto di vista tecnico. Nei dischi live invece devi evitare l'eccesso di perfezione, anche perché altrimenti non ti fermi mai: puoi restare anni in studio su una canzone e non capire mai quando è davvero finita. Al tempo stesso devi contenere l'irruenza. Vivere con questa dualità nella testa è interessante. Io ho fatto un album intitolato Left & Right che non è nemmeno mixato: sono solo i canali del banco presi e masterizzati senza dire 'alzo i livelli del basso' o cose simili, ed è uno dei miei preferiti".

 Poi c'è Bootleg che si rifà all'idea della naturalezza, credo.

"Sì, quello però è mixato. Ma è vero: andai a Dublino a mixarlo proprio perché volevo un fonico che non capisse il testo. Trovai uno che non solo non capiva il testo ma gli stavo anche antipatico: per me era perfetto! (ride)".

 Lei ha conosciuto molti musicisti nella tua vita. Chi ricorda più volentieri?

"Uno di quelli che più ho amato è Leonard Cohen. Una volta l’ho incontrato proprio a Roma, per caso, mentre camminavo: era insieme a una mia amica che me l’ha presentato, a Santa Maria in Trastevere. Aveva una chitarra in mano e io pure: 'Ah, anche tu suoni?', mi chiede e ci scambiammo un po’ di pareri tecnici. La seconda volta fu nei camerini dopo un suo concerto al Teatro Olimpico a Roma e lì feci un po' il fan, andai in camerino dove stava mangiando da un cartone un pezzo di pizza al taglio, coccolato dalle due coriste, e mi misi a parlare un po'".

 Le disse che vi eravate già incontrati?

"Non gli dissi nulla e per pudore non mi feci neppure autografare il disco. Dopo di me arrivò uno che si portò dietro l’intera discografia che Cohen firmò interamente, con grande pazienza".

 Immagino che capiti spesso anche a lei il contrario.

"Sì. Cerco di fare fino in fondo il mio dovere, ma a volte vorresti che quelli che ti chiedono autografi non esistessero. Memore di questo, tollero a mia volta e cerco di essere discreto ma capisco il fan, lo sono anch’io e quindi capisco: però non ci devono essere invasioni improprie…".

 Qualche altro esempio del suo essere fan?

"Stavo mangiando con mia moglie e i bambini a Venezia e al tavolo accanto al nostro c’era Elton John. Per me fu stranissimo perché non sapevo che stesse a Venezia, che ne fosse innamorato. I suoi primi dischi sono stati formativi per me e soprattutto per Antonello Venditti, anzi ricordo che in realtà fu proprio lui a farmelo conoscere: Tumbleweed Connection, un disco straordinario, lui e Bernie Taupin, il paroliere: che coppia! Poi col tempo per me ha perso interesse, pur mantenendo sempre una certa qualità di scrittura, ma cose come Your Song sono eccezionali".

 Ci parlò in quell’occasione?

"No, 'schiscio', come dite voi a Milano. Un altro aneddoto divertente forse è quello che riguarda Lou Reed. Quando stavo alla Rca, nel 1978-'79, venne a Roma per un concerto e volle fare il soundcheck proprio lì negli studi dove pascolavamo tutti noi cantautori dell’epoca. A un certo punto si sparse la voce e ovviamente eravamo curiosi. Lui non voleva vedere né essere visto da nessuno. Quando si mise a suonare però, a poco a poco, alla chetichella, entrammo nella regia e… rimanemmo a bocca aperta! Sentimmo una botta di suono impressionante: noi li conoscevamo bene quegli studi ma era come se qualcuno improvvisamente avesse cambiato tutto lì dentro. Anche i fonici erano lì, con gli occhi di fuori, e dicevano: 'Ma questo da dove viene?”'. E anche al di là del vetro aveva un’aria arcigna: non ti saresti mai avvicinato…".

 Negli ultimi anni si era addolcito: Laurie Anderson mi raccontava che dietro l’aspetto burbero era una persona tenera, che non smetteva mai di incoraggiare i giovani artisti. Una violinista che aveva suonato con lui durante l’intervallo di un concerto gli chiese com’era andata. Lui rispose: 'Tutto lì quello che sai fare?'. Così la violinista nella seconda prova fece rimanere tutti a bocca aperta.

"Naturalmente sarà stata bravissima, ma certo, da uomo di musica ha fatto quello che andava fatto: l’ha spinta a dare il meglio di sé. Comunque è incredibile: anche in un pezzo come Perfect Day, apparentemente dolce, c’è una narrazione a doppio taglio: c’è ghiaccio, c’è distanza. La musica in realtà è quasi una presa in giro della dolcezza, c’è il diavolo dentro! La dolcezza è solo un abito di quella canzone".

 Lucio Battisti, un altro artista dal carattere difficile, l’ha conosciuto?

"Ci ho parlato solo una volta al bar della Rca, un paio d’ore. Era molto timido ma al tempo stesso emanava un carisma assoluto per cui non ti veniva voglia di andare lì, dargli una manata sulla spalla e dirgli: “Ciao Lucio, come va?".

 Cosa vi siete detti?https://www.iltitanic.com/2022/10.jpg

"Avevo appena pubblicato Alice e mi fece dei complimenti: 'Ahò, è forte quel pezzo!'. Poi mi disse una cosa che mi parve davvero strana: 'Tu canti benissimo”. In quel periodo mi sentivo tutto meno che un cantante! E poi: 'Sei bravo perché tu riesci a far capire bene il testo, quello che dici'. A me! Uno a cui tutti dicevano che non si capiva niente di quello che scrivevo! Tornai a casa volando".

 Tra i nuovi artisti chi le piace?

“Non ho molto tempo per ascoltare musica, è brutto da dire ma è così. Però posso dirti che ho suonato una volta con Cristina Donà, che è bravissima, mi piace tantissimo e con Vasco Brondi. Anzi, con Vasco io ho suonato la chitarra mentre lui cantava Viva l’Italia”.

 C’è uno di questi nuovi autori, si chiama Calcutta e in suo brano, Limonata, fa un quadro impietoso della sua ragazza e dei suoi genitori e ti cita, non so se le è capitato di sentirlo. Dice: “Tu spremi limonata e non ce la fai più/ salutami tua mamma che è tornata a Medjugorje/ e non mi importa niente di tuo padre/ ascolta De Gregori/ a me quel tipo di gente no non va proprio giù”…

“Beh intanto uno che riesce a fare una rima Medjugorje/ De Gregori è notevole. Lo trovo molto carino dai… (ride). No, non lo conosco ma credo nel karma: credo che prima o poi una cosa se ti deve arrivare ti arriva”.

 Restando sulle cose politicamente scorrette, è vero che lei ha conosciuto De André suonando una presa in giro de La guerra di Piero intitolata “La cacca di Piero”?

“Sì, è vero. Avrò avuto diciott’anni: era una di quelle cose goliardiche che si facevano ai tempi del Folkstudio”.

 Ma lei sapeva che lui era lì?

“(ride) Sì… Andò così. Io credo di non averla nemmeno mai fatta in pubblico: tra l’altro La guerra di Piero era stata una canzone fondativa per me. Poi succede che mio fratello conosce De André in un bar di Roma, fanno amicizia, bevono insieme e qualche giorno dopo mio fratello lo porta al Folkstudio dove io suonavo insieme a Venditti e altri, tutti assolutamente sconosciuti. E questo disgraziato di mio fratello dice a De André che io avevo fatto questa ignobile cosa! E De André, che era luciferino, insisttete perché la facessi: io non avrei mai osato fare una cosa del genere. Sarebbe stata veramente una cosa da idioti. E invece lui: ‘Dai belin fai sentire questa canzone!’. Lui si divertì molto e da lì nacque il nostro rapporto, diventammo amici tanto che tempo dopo mi invitò persino da lui in Sardegna a lavorare insieme".

 Da quel vostro incontro nacquero anche dei brani di Rimmel…

“Non abbiamo mai cantato insieme se non una strofa per uno in una canzone di Fossati Quei posti davanti al mare. In Sardegna ho scritto Buonanotte fiorellino: lavoravo a Rimmel e, insieme, al suo disco”.

 Anche se lui aveva il giorno invertito con la notte.

“Sì è vero. Cominciava a ingranare molto tardi così capitava che stessi molto tempo durante il giorno con Cristiano che a quei tempi era proprio un ragazzino ma suonava già uno strumento: la batteria ed era molto bravo”.

 Lei non ama la politica e nemmeno i salotti.

“Per niente. Soprattutto detesto i politici che in un ingiustificato atto di supponenza ti passano davanti con le loro scorte a sirene spiegate costringendoti a fermarti. Ma non è rabbia anticasta: è proprio un dato di fatto intollerabile. Un abuso di potere che altrove non potrebbe accadere. In Inghilterra per esempio il Primo Ministro non ha la scorta con le sirene spiegate e si ferma normalmente ai semafori”.

 Questa idiosincrasie le racconta in vari brani. Ma c’è un testo che mi ha colpito in maniera particolare, si intitola Povero me e dice cose come “i simpatici mi stanno antipatici/ i comici mi rendono triste/ mi fa paura il silenzio/ ma non sopporto il rumore”.

“Beh, è una buona descrizione di me stesso, autocaricaturale: io non sono così cattivo e malmostoso come in quella canzone. Dopo un po’ di tempo dall’uscita di questa canzone, incontro un’amica che non vedevo da un bel po’ e nel frattempo era diventata psichiatra, e mi dice: ‘Senti ho sentito quella tua canzone: è la canzone di un depresso! (ride). No guarda, descrive tutti i sintomi della depressione: ce li hai tutti!’ Io le dico: ‘Guarda non mi sento un depresso’. E lei continua: ‘Eppure è la canzone di un depresso’. Che dire? Forse aveva ragione lei. Ma vuol dire che evidentemente sono bravo a identificarmi. Ci ho messo tutto: ‘nessuno mi vuole bene’, ‘sono tutti migliori di me’ (ride). E appunto quello che dicevo prima: ‘ci sono i pretoriani con la sirena’. E’ una canzone che amo molto”.

 Questo dunque non è Francesco De Gregori, almeno non tutto. Forse una piccola parte sì, ma appena vi voltate l'immagine è già cambiata. Non è più quella della fotografia. Del resto, non è forse così per tutti? Non siamo mai noi stessi, almeno non del tutto. Non sempre. Non siamo il profilo Facebook, non siamo neppure il nostro libro o la nostra canzone se abbiamo la fortuna di scrivere, non siamo il nostro lavoro, non siamo sempre coraggiosi o sempre vili, sempre tristi o sempre felici, non siamo quello che pensano gli altri di noi e neanche quello che pensiamo noi di noi stessi. Camminiamo tutti sui pezzi di vetro. E questa non è un'intervista.

 http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2017/02/05/news/francesco_de_gregori_questa_non_e_un_intervista_perche_ho_dylaniato_buonanotte_fiorellino_-157615972/

Le foto antiche di Francesco sono di Renzo Chiesa, scattate nel 1975 De Gregori durante la partecipazioni di De Gregori a una dieci giorni musicale di cantautori RCA al Teatro dell'Arte di Milano insieme a Ron, Renzo Zenobi e Lucio Dalla.

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BUONANOTTE FIORELLINO. FINIAMOLA QUI, UNA VOLTA PER TUTTE, CON LA PRESUNTA VEDOVANZA!

A parte quel che mi ricorda, Buonanotte fiorellino è una di quelle canzoni che non smetterà mai di stancarmi. Una delle poche che mi costringe a premere il tasto repeat quando la incrocio all’ascolto, mentre guido sulla strada.
Prima di tutto vorrei sfatare quella leggenda che la vuole dedicata a un'ipotetica prima moglie di De Gregori, deceduta a causa di un disastro aereo. Qualcuno, in passato, avrà percepito male (allora c’erano le musicassette e non doveva essere facile percepire quello che oggi si ascolta a 320 Kbs) ed avrà evidentemente confuso la frase “buonanotte monetina” con “buonanotte mogliettina”; subito dopo (ormai fra le nuvole, poveretta, in folle discesa verso terra) l’ha immaginata come un volatile in picchiata nell’ennesimo malinteso: “gli uccellini, nel vento, non si fanno mai male” con la fantomatica versione “gli uccellini, cadendo, non si fanno mai male”. Che fine orrenda!
Qualcun altro ha fantasticato altre supposizioni: che nel maggio del 1975 la donna, proveniente dalla Sardegna, si schiantò sulle montagne di fronte a Palermo mentre De Gregori, col biglietto ormai scaduto, l'aspettava nell'aeroporto siciliano ricordando le ultime parole pronunciate .... fra il telefono e cielo ..... "pieno di rottami cadenti". Manco ad Airport70 giravano certe scene!
Pura fantasia e immaginazione della gente!
I disastri a Punta Raisi avvennero solo nel 1972 e nel 1978. Francesco la scrisse nel 1974 (quindi prima del 1975), quand'era in Sardegna col Faber; un anno dopo, quando uscì Rimmel, aveva solo 24 anni, era un timido giovanotto coi capelli rossi che si esibiva ancora al Folkstudio mentre litigava con l’asta del microfono fra le lunghe gambe che tremavano sotto la sua Eko. Ventiquattro anni sono troppo pochi per essere già vedovo, anche per uno studente in Storia moderna che aveva da poco deciso di vivere da solo, lasciando i palazzi in costruzione a Monteverde per trasferirsi in una vecchia casa trasteverina.
Tanto per essere chiari: in vita sua, Francesco si è felicemente sposato una sola volta, nel 1977, con Alessandra detta Chicca. Quindi, lungi dal fantasticare storie sul testo di una bellissima musica che, come ormai vuole la critica musicale, sia ispirata a Winterlude di Bob Dylan (New Morning, 1970), questa è solo una storiella inventata da chi, in una canzone che rimane pur sempre un'opera d'arte, cerca ad ogni costo di trarre inutile gossip. Non contento, qualcuno è andato a cercare frasi di sue canzoni legate in qualche modo alla vicenda: chiusi in una scatola nera, stella, disastro aereo sul canale di Sicilia, ecc.; addirittura altri che, appena saputo della bufala, ci sono pure rimasti male!

Per fortuna, tanti altri non hanno usato gli occhi per leggere ma l'orecchio per ascoltare. Non qualche giornalista che, senza mai avere ascoltato Winterlude, scambiò il termine “ispirazione” per “clonazione” e da lì ebbe iniziò, oltre alla precoce e presunta vedovanza di De Gregori, anche il precoce e presunto sospetto di un plagio che non aveva nè testa nè coda.

 

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De Gregori ha sempre amato Dylan, fin dagli anni Sessanta, dal giorno in cui suo fratello Luigi portò a casa il 45 giri di Peter Paul & Mary con la cover di Blowin in the wind.
Negli anni Settanta c'era l'uso delle traduzioni di brani famosi al fine di riadattarli in lingua italiana, conservandone però la musica. Quando cominciò l'era del Cantautorato, molti nostri artisti ne fecero largo uso. Traduzioni non intese nel senso più letterale del termine; sarebbe bastato un interprete e finiva lì, con le rime pure tutte sballate. Significava, invece, traspositare il testo originale in lingua italiana mantenendo il vero significato e trasformando così la canzone con il proprio stile. Grandi maestri ed esempi sono stati Giovanna D'Arco e Avventura a Durango di De Andrè o Non dirle che non è così, sempre di De Gregori. Anche Fossati è stato un grande maestro.
Poi ci sono le cover, interpretazioni originali .... dichiarate. Invece i plagi sono altra cosa, i plagi sono la maggior parte dei nostri successi degli Anni Sessanta che qualche furbetto ha spacciato per molto tempo come genialità compositiva tutta italiana.
In merito alla storiella di Buonanotte fiorellino, basta cercare qualsiasi traduzione in rete per capire molte assonanze con Winterlude: certe parole tradotte dall'originale come ... margheritina, al filo del telefono, dove i fiocchi di neve coprono la sabbia.. non ricordano niente? Un altro piccolo esempio: la neve è così fredda mia piccola mela, nel campo di grano. (trasposiz.: il granturco nei campi è maturo, la coperta è gelata, l'estate è finita). La stessa cosa, ma riportata in maniera diversa. L'importante è rispettare il senso della storia, basata in questo caso sul tentativo di riappacificarsi con l'amata perduta dedicandole la Buonanotte con un delizioso gioiellino a tempo di valzer.
Già, il tempo di valzer. Forse l'unica cosa copiata da Winterlude. Perchè ad ascoltarle sono completamente differenti l'una dall'altra. Anzi, secondo me, la parte musicale di Buonanotte fiorellino è molto più bella e affascinante e la melodia completamente diversa, come pure gli accordi. Dopo vi furono parecchie versioni degregoriane della canzone: in blues, country, rock, l'ultima addirittura in stile dylaniano con un attacco spudoratamente simile a Rainy Day Women #12 & 35.
Lasciando perdere una volta per tutte le parole, sentiamola: l'inizio arriva subito con un forte "tum pa-pa tum pa-pa", col tipico suono di pianoforte semi-scordato degli studi RCA, interpretato a tempo di valzer da Visentin e mantenuto fino alla fine. E' predominante, potente, deciso come l'olio Bertolli, il suo rimbombo scuote quasi lo sterno dell'ascoltatore. Quando sulle strofe cantate da Francesco entra il discreto contrabbasso di Roger Smith si è già rapiti, vien voglia di invitare qualsiasi donna a portata di mano a ballare, che sia delle pulizie, la portinaia o la nonna. E nel frattempo si danza, si danza come un valzer musette del secolo scorso, e il rullante di Di Stefano rafforza ancora di più il tempo ma con discrezione, quasi a chiedere scusa di esserci. Entrano nel salone da ballo anche le nacchere, ancora dolci melodie e la chitarra di George Sims, frivola, capricciosa, fluida e gentile (sempre Bertolli, no?).
Alla terza strofa, dal tono di Do a quello di Re per la festa finale, ormai tutti sudati e giù per terra con la testa che gira gira gira. I cori finali incontrano l'ormai famosa monetina e un anello simbolo di un amore finito, lasciato (bè, a questo punto giochiamoci sopra) sulla spiaggia di Mondello.
Alla fine, il pezzo ci saluta sfumando il suo "tum pa-pa tum pa-pa" e chiudendo con gentilezza la porta. Quando tutto finisce e il salone da ballo è vuoto, vale la pena riascoltarla... o no?
Una canzone addirittura terapeutica. Da quarant'anni produce migliaia di benefiche dediche volte all'incremento demografico e, nonostante il Principe continui a dire di non essere colui che ha asciugato il pianto di chi l'ha amata, continua a fare bene alla salute. Di grandi e piccini.
(del Titanic, il nostromo)  www.iltitanic.com

 

 

Francesco De Gregori - Rimmel
di Lucio Mazzi (www.pagine70.it)

 

Al terzo album (e mezzo, se si considera anche "Theorius campus" in tandem con Venditti) De Gregori fece centro. E gli costò parecchio.
Prima di questo "Rimmel" del '75, il cantautore si era fatto notare con "Alice" (debitamente ultima al Discoestate) e relativo album, e aveva ribadito la sua posizione con il disco cosiddetto "della pecora" (nessun titolo, ma un agnello in copertina). E la sua posizione era quella di un giovanotto innamorato di Dylan, che pensava che per una canzone fosse essenziale a) un testo almeno "obliquo", se non proprio ermetico b) una linea melodica semiinesistente c)una chitarra a costituire tutto l'arrangiamento. In questo lui non inventava nulla: tutta una generazione di cantautori americani e inglesi (Dylan, Cohen, Guthrie, Prine…) avevano percorso più o meno quella strada. "Però ad un certo punto" mi confidò il collega e sodale di quei tempi Edoardo De Angelis" lui si stancò di vendere quattro copie e decise di cambiare". Il risultato fu "Rimmel. Un botto da 500.000 copie vendute. Era successo che De Gregori si era fato un po' meno intransigente, aveva "accettato" che oltre a Dylan e a Cohen facessero cose egregie anche James Taylor, Cat Stevens o addiritura Elton John (il primo Elton John) e aveva lavorato in questo senso. E infatti l'album è brillantissimo innanzi tutto a livello musicale. Le composizioni si fanno più articolate (ad esempio "Pezzi di vetro" è da sempre la bestia nera dei chitarristi alle prime armi, con le sue decine di accordi), gli arrangiamenti più ricchi e decisamente più accattivanti. E se i testi non acquistano molto in intelligibilità, sicuramente possiedono un magnetismo, prima assente, che li fanno amare al di là del loro significato che il più delle volte resta oscuro. Tutto ciò portò, come detto, ad un clamoroso successo commerciale. Cosa che in quei tempi non poteva assolutamente essere accettato dalla critica e dal pubblico "militanti" per cui non era concepibile che un lavoro di qualità potesse anche essere commerciale. E per cui era "ovvio" che qualsiasi cosa avesse successo fosse immediatamente scadente. Su Linus Giaime Pintor scriveva: "Banalità musicali da canzonetta anni '60 impreziosita da alcuni arrangiamenti barocchi con un occhio al rock morbido della quarta generazione inglese, Elton John e i suoi fratelli… Su questo tessuto povero egli appoggia pesantemente testi in cui la metafora ermetica campeggia vittoriosa nei suoi vestiti più kitsch", e più o meno sullo stesso tono pontificava Sofri su Lotta continua. Merita ricordare che la critica "militante" non aveva trovato proprio niente da dire sui testi ben più ermetici di "Niente da capire", "Bene" o "Cercando un altro Egitto", ma tant'è: quelle canzoni non avevano venduto niente quindi tutto ok! E dietro la critica "militante" ecco il gregge belante del pubblico parimenti "militante", quello che arrivò ad interrompere un concerto milanese di De Gregori per inscenare un farsesco processo al cantautore accusato di commercialità. Insomma, "Rimmel", ancora oggi un grande disco, costò parecchio a De Gregori: prima di tutto fare i conti con certa ottusità di pubblico e critica con cui lui e altri avrebbero dovuto fare i conti anche negli anni a venire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 De André rimase un po' male quando vide che l'avevo incisa anch'io per un mio disco. In effetti la canzone l'avevo scritta già da un anno, sarebbe dovuta uscire nel disco precedente però era rimasta fuori. A Lilli Greco non piaceva, per via del testo che a un certo punto citava Mussolini. Lui era uno di sinistra, però non amava le canzoni troppo politiche, e magari proprio non gli piaceva la canzone in sé.
Comunque a me Le storie di ieri piaceva molto e decisi che dentro Rimmel ci sarebbe stata benissimo, soprattutto adesso che nessuno poteva impedirmelo. Quando la sentì mio padre (…mio padre è un ragazzo tranquillo, la mattina legge molti giornali, è convinto di avere delle idee') mi disse: ma io che c'entro? e io: 'papà non ti preoccupare che non c'entri ... '. per dirti come in una canzone l'autobiografia sia importante fino a un certo punto. Non sempre quando uno dice 'mio padre' si riferisce al proprio padre anagrafico. Al mio comunque dispiacque un po', anche perché il disco ebbe successo, la canzone la sentirono in tanti, c'era gente che andava da lui e gli diceva: 'Giorgio, non sapevo che tu fossi così di destra' ... alla fine dispiacque anche a me di averlo citato, o aver creato questo fraintendimento. "
Quando il disco fu terminato feci sentire la canzone a Lilli Greco che non apprezzò molto l'idea di far suonare la parte finale a un jazzista come Mario Schiano, bravissimo sassofonista free jazz della scena romana. Il suo assolo rimane invece, per me una delle cose più belle di tutto il disco".

Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

ROMANO - Avevi accennato prima a "Racconto", parliamo un po' della tua attività al di là dei dischi e del Folkstudio; "Racconto" è stato un tentativo di teatro, di spettacolo, di discorso impegnato e di compromesso, tutto insieme; ed è stata anche la tua prima esperienza di palcoscenico organizzata al di fuori del Folkstudio, in cui tu e Venditti siete stati messi insieme a Cocciante, che non c'entrava un gran che con voi due. Un esperimento ambiguo, perchè siete andati a fare lo spettacolo nelle discoteche, d'estate, a contatto con un pubblico che, magari pensava a ballare e a divertirsi...

DE GREGORI - lo decisi di farlo perchè era una cosa nuova, andare in giro a suonare mi andava; non l'ho fatto per i soldi perchè non me ne davano molti, l'ho fatto perchè non sapevo che fare. Rimasi un po' traumatizzato dagli impresari, da questa gente che vedevo nei locali da ballo d'estate, io non ero mai stato a ballare. E la prima volta che sono entrato in un locale ci sono entrato come “un’attrazione" un mondo completamente nuovo, un mondo brutto senz'altro, poi ci ho fatto il callo.

ROMANO - Mi ricordo chi, alle prove che facevate al Piper c'era questa orrenda scenografia, che già faceva capire come era impostata la cosa, con i lampioni di compensato, una panchina e un finto pianoforte laccato di bianco.

DE GREGORI - Era una cosa trucida in effetti, però ho visto anche delle cose peggiori; se vogliamo parlare delle esperienze che ho avuto quelle due o tre volte che sono andato in televisione, "Racconto" poteva sembrare uno spettacolo di Luchino Visconti al confronto.

Le scenografie riuscimmo a buttarle via quasi subito. Poi sul palco io facevo uno spettacolo veramente senza schemi, e anche Venditti, cioè eravamo come al Folkstudio, ingenui, probabilmente divertenti, certamente non professionisti; era il mondo che ci gravitava intorno che era spaventoso, i contratti, i soldi...

ROMANO - Le tue esperienze di concerti in pubblico, si riflettono anche sul tuo modo di cantare; c'è una certa differenza tra il disco della "Pecora" e "Rimmel", in cui usi la voce in modo molto più libero, più disinibito; e questo probabilmente dipende anche dal tuo incontro con Lucio Dalla.

DE GREGORI - Sì, durante l'estate avevo conosciuto Dalla, che per me è stata una persona molto ìmportante, dall'incontro con lui è derivato un salto musicale complessivo, sia nel mio modo di cantare che di scrivere la musica, “Pablo" l'abbiamo scritta insieme; e c'è un rapporto diverso anche con la gente che viene ai miei concerti, la voglia di improvvisare, di inventare.

ROMANO - La canzone "Rimmel” non si discosta molto da “Bene” o da altri tuoi pezzi del disco precedente, di cui abbiamo già parlato: è sempre una canzone dedicata ad una donna...

DE GREGORI - Sì, è sempre una canzone sui fatti miei, più o meno, però credo che ci sia una chiarezza maggiore.

ROMANO - Poi c'è "Pezzi dì vetro".

DE GREGORI - E' una canzone d'amore.

ROMANO - E lo zingaro che "è un trucco, un futuro invadente", è un episodio reale?

DE GREGORI - Sì, un giorno mi hanno fatto le carte, mi hanno detto cose molto belle, mi hanno detto che sarei stato molto felice, mi hanno detto: "Sarai un vincente". Però tutto sommato non è bello che uno ti dica quello che diventerai, credere allo zingaro forse è mancanza di fantasia, mancanza di giovinezza, del coraggio di dire "vaffanculo, adesso io esco e chissà cosa succede! "

ROMANO - Per questo dici "Fossi stato un po' più giovane l'avrei distrutto con la fantasia"; questo significa che già cominci a sentirti dall'altra parte, che non ti senti più tanto giovane?

DE GREGORI - Dalla "Pecora" a "Rimmel" io ho avuto un sacco di traumi di vario genere, in un anno sono invecchiato molto. Uno non si vede mai come è veramente, però credo che dai 23 ai 24 anni c'è proprio un salto, mi sento molto cambiato.

ROMANO - Se il disco della "Pecora" è abbastanza ermetico, fatto per te stesso, senza preoccuparti minimamente di come sarebbe stato interpretato da chi ti ascoltava, in "Rimmel" c'è invece lo sforzo di essere più comprensibile.

DE GREGORI - Questo è vero.

ROMANO - Tranne questo pezzo: "Il signor Hood", con questa dedica in copertina "A M. con autonomia" questo codice, questo linguaggio cifrato, la dedica, mi sembrano cose completamente estranee al tuo tentativo di chiarezza.

DE GREGORI - Sì, però "Il signor Hood" ha una chiave musicale, se non altro, se è poco chiara dal punto di vista dei testo, musicalmente è una cosa facile ed è già una canzone più umile - di "Bene", "Il signor Hood" è una canzone che la gente si gode di più, credo.

ROMANO - Il discorso è più complicato; c'è questa paura di essere ingannati, per esempio moltissime delle lettere che arrivano su di te a "Popoff" in sostanza chiedono: "Mi devo fidare o no? ".https://www.iltitanic.com/2023/048.jpg

DE GREGORI - Le orecchie ce le hanno, mica gli ho promesso una candeggina migliore di un'altra; e poi uno che scrive a te chiedendo "mi devo fidare di De Gregori?", è una persona che qualsiasi risposta gli dai, dirà: "mi devo fidare di Michelangelo?". E continuerà a chiedere conferma in giro finchè non userà le sue orecchie e dirà: "No, non devo fidarmi". Uno che mi accusa di essere di sinistra perchè così guadagno due milioni, non merita nessun tipo di risposta, non gliela voglio dare, mi pesa dargliela...

ROMANO - Parliamo di "Pablo"; qui un discorso sull'emigrazione, ma spesso è stato frainteso, c'è chi ha pensato che ti riferissi a Neruda, chi a Picasso, nessuno ha pensato a un operaio spagnolo.

GIACCIO - Anche perchè era morto in quei giorni Neruda, e c'era una frase che poteva far pensare... soprattutto se in copertina non c'è scritto: "guarda, è un emigrante spagnolo".

DE GREGORI - "Pablo" è stata usata come motivo da discoteca per ballarci sopra, ma anche come slogan politico, quando hanno ammazzato Pietro Bruno, perchè su palazzo Venezia c'era scritto: “Hanno ammazzato Pietro, Pietro è vivo". Quando uno prende una mia canzone e la usa sia per ballare che per parlare di uno che è stato ammazzato il giorno prima, il massimo dell'ambiguità è stato raggiunto, ed io so benissimo che l'utilizzazione delle mie canzoni non è un fatto controllabile da me; quindi quando vedo certe cose ti posso dire che al limite sono giuste tutte e due, sia che si balli in discoteca sia che sia scritta sui muri in quel modo. Forse l'una è la conseguenza dell'altra, cioè se non fosse stata ballata in discoteca per tutta una estate probabilmente non avrebbe avuto la sua funzionalità come slogan.

GIACCIO - Perchè. proprio un emigarante spagnolo?

DE GREGORI - Ma perchè in tutte le canzoni che ho sentito sull'emigrazione c'era sempre un'immagine abbastanza stereotipa dell'emigrante italiano, che è giusta fra l'altro, però volendo fare un'altra canzone sull'emigrazione, ho pensato di allargare il discorso e di parlare anche degli altri compagni emigranti, parlare anche della Spagna che era... che è tutt'ora, forse allora più di adesso, in una situazione abbastanza critica dal punto di vista della democrazia, e questo tra l'altro mi forniva lo spunto per fare il discorso vero della canzone, che è il rapporto fra due emigranti diversi per lingua, per tradizioni, idee, e parlare di questa loro incapacità a comunicare realmente, a intendersi e anche a difendersi; sono due emigranti di quelli che non tornano mai a votare, di quelli non politicizzati, di quelli che alla fine si fanno pagare e si fanno ammazzare.

 

 

GIACCIO - Poi c'è "Buonanotte fiorellinó" forse la canzone più nota di tutto l'LP, che è arrivata anche ad un pubblico diverso dal tuo; c'è gente a cui piace "Buonanotte fiorellino" e il resto del disco non lo ascolta.

DE GREGORI - Mah, non lo so, io "Buonanotte fiorellino" l'ho scritta perchè volevo fare una canzone apparentemente dolce, poi tutto sommato tragica, non so se poi la gente se ne accorge. Comunque volevo anche scandalizzare quelli che si aspettavano da me sempre le cose impegnate, le cose pallose; volevo rivendicare il diritto di fare un “valzer musette”; c'è solo da dire molto onestamente che forse è il momento musicale in cui io ho rasentato il plagio più da vicino, perchè c'è una canzone di Dylan alla quale mi sono proprio ispirato a tavolino per la musica, che si chiama "Winterlude", da"New Morning"; ho preso da Iì l'idea di fare il valzer.

GIACCIO - "Le storie di ieri" è uno dei più interessanti manifesti dell'antifascismo che la musica ha prodotto in questo periodo...

DE GREGORI - C'è da dire di questa canzone che arriva con un anno di ritardo rispetto a quando doveva essere pubblicata. Questa canzone era pronta sul disco della "Pecora" e la RCA non me la fece per ragioni, dissero loro, di inopportunità politica; dopo un anno, evidentemente, l'antifascismo era diventato più accettabile anche per i mass-media, e quindi la canzone venne inserita. Credo che sarebbe stato più bello e più utile se la canzone fosse uscita con la Pecora; nel 1973 era molto meno scontato dire in una canzone che i capi hanno la cravatta e la faccia pulita.

GIACCIO - A proposito di "Le storie di ieri" mi ricordo che quando ci vedemmo a quei tempi, prima che uscisse "Rimmel" Michelangelo ed io volevamo fare questa trasmissione alla televisione, che poi è venuta abbastanza squallida, volevamo farla con te, Alan Sorrenti e Venditti, ci vedemmo, tu mi desti questo testo, io lo portai alla televisione, la televisione bocciò il testo, tornai da te e discutemmo a lungo, tu decidesti "No, o canto questa canzone o non vengo". Dopo di che sei andato ad una rassegna di cantautori e non, ripresa dalla televisione, in cui hai cantato "Piccola mela" e "Le storie di ieri"; poi al momento di trasmetterla andò solo "Piccola mela” e tagliarono "Le storie di ieri", cosa che io già sospettavo, conoscendo quelli della televisione, che erano gli stessi con cui avevo parlato io...

DE GREGORI - Ti spiego, nel caso del programma con Alan e Venditti, mi dissero in partenza che la canzone non sarebbe passata, invece nel caso della rassegna, sia Ravera che l'organizzava, sia l'Ufficio Stampa della RCA, mi dissero, mi assicurarono che la canzone sarebbe andata in onda, quindi fu un mio peccato di ingenuità credere a loro, un peccato che non commetterò più. Ed io ci andai pensando che almeno facevo ascoltare il sabato sera questa canzone, accanto a Cocciante, a Mia Martini e Baglioni, quindi in un programma di grande ascolto. Poi invece loro la tagliarono, e ancora oggi se tu vai all'Ufficio Stampa della RCA, vedrai che ti risponderanno. che è stata tolta per errore, cioè un tecnico ha pensato che fosse uno spezzone di nastro da buttare via e l'ha buttato nel secchio; questa è la tesi che mi hanno riferito quando sono andato a protestare. La conseguenza è che adesso non faccio più spettacoli in televisione, quella è stata la mia ultima esperienza televisiva, e adesso se faccio spettacoli in televisione, li faccio solo in diretta, quindi non ne faccio.

GIACCIO - "Piccola mela" come è nata?

DE GREGORI - Il testo è tratto da una canzone popolare sarda, la musica è mia, ricalca certe cose popolari, però non sarde, perchè le musiche sarde sono praticamente atonali, e invece ricalca un po' la musica toscana; mi viene da ridere quando poi vado a fare gli spettacoli per i Circoli Ottobre e mi dicono "De Gregori non fa le canzoni legate alle masse, tanto è vero che Piccola mela" non la capisce nessuno". Ed è una canzone popolare: è una specie di "rispetto amoroso"; c'è uno che si rivolge a una donna e le dice: "se non mi ami vorrei che ti portassero in piazza, ti legassero, eccetera". Il "Mi metto in tasca una piccola mela, mi metto in tasca un piccolo fiore" è un riff letterario, tipo gli stornelli romani che dicono: "fior de rosmarino, fior de pane"... non è niente di misterioso insomma.

GIACCIO - Poi c'è ”Piano bar” in cui ti riferisci a Venditti.

DE GREGORI - Invece è un errore completo.

GIACCIO - Ma allora come sono venute fuori queste interpretazioni?

DE GREGORI - Non lo so, qualcuno che odia Venditti avrà pensato che lui fosse un pianista di piano bar; io l'ho scritta pensando a un certo tipo di musicista, di quelli che suonano perchè sono pagati, solo che qui c'è il risvolto rock...

GIACCIO - Pensando a qualcuno in particolare?

DE GREGORI - Mi ricordo che stavo all'Hilton, perchè un pazzo mi aveva dato un appuntamento all'Hilton per parlarmi, alle cinque del pomeriggio, e in questa enorme hall vuota c'era uno che suonava delle musichette terribili sul pianoforte: lui cantava e suonava, malissimo, e non gliene fregava niente a nessuno: allora pensai di fare questa canzone sul piano bar, poi forse scherzando avrà detto che sembrava Venditti. E poi non credo che sia importante sapere esattamente a chi è dedicata una canzone, è come quando i Beatles fanno 'Lucy in the sky with diamonds" e ci sono schiere di diciottenni che dicono "vedi, è L.S.D."; può essere, non essere, che ti frega, 'Lucy in the sky" è lì, è bella o brutta indipendentemente dai suoi significati puntuali, precisi, mi fa paura insomma vedere le cose così.

ROMANO - Concludendo, come giudichi "Rimmel", che è stato il disco del passaggio da un numero ristretto di ascoltatori ad un successo iperbolico di circa 200.000 dischi venduti? Non credo che puoi ignorare il fatto che "Rimmel" è stato ai primi posti delle classifiche per più di un anno; ti giustifichi in qualche modo questo enorme successo di vendite che ha avuto?

DE GREGORI – E’ un problema di chi lo compra anche questo, non so, penso che sia un disco più gradevole all’ascolto di quelli che ho fatto prima. I contenuti di questo disco mi piacciono, canzone per canzone le amo tutte. Credo che sarebbe piaciuto anche se non avesse venduto tanto, perché molta gente dice che è brutto solo perché è stato in classifica.

 

 

da FRANCESCO DE GREGORI, UN MITO di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi - Edizioni Lato Side – 1980

 

LE STORIE DI IERI (La Storia, passata e recente, nella storia del testo di una canzone)

 

Tutti gli appassionati di De Gregori e di De André conoscono la vicenda della canzone Le storie di Ieri. Lo stesso De Gregori  ne ha fatto recentemente cenno nelle web-note-di-copertina di Amore nel Pomeriggio, in riferimento al suo soggiorno in Gallura a casa di Fabrizio De André, tra il ’73 e il ’74,  e alla stesura dell’album Volume VIII (l’album di De André scritto anche assieme a De Gregori); scrive De Gregori che nell’album, per volontà di De André, fu inserita Le Storie di ieri , canzone scritta da De Gregori, che la RCA (sua casa discografica dell’epoca) si era rifiutata di fargli incidere sull’album Francesco De Gregori  del 1974, quello che, per via della copertina, è comunemente soprannominato “La Pecora”. Soltanto successivamente, una volta che la canzone era stata…‘sdoganata’ da De André, De Gregori poté  inciderla sull’album Rimmel, del 1975.  Dunque, Le Storie di ieri è una canzone già scritta tra il ’73 e il ’74, non viene incisa nel ’74 sulla “Pecora” perché non considerata sufficientemente “politically correct” e conosce nel 1975 ben due uscite discografiche, la prima in Volume VIII, l’altra in Rimmel.

Chiunque ascolti le due versioni potrà accorgersi che i rispettivi testi presentano delle differenze non trascurabili, tali da denotare atteggiamenti psicologici e politici abbastanza diversi: se la versione di Rimmel è nettamente più ‘militante ’ e lascia intendere una condanna più marcata del fascismo e dei suoi rigurgiti nel presente, quella di Volume VIII sembra più ‘comprensiva’ e, pur nella  condanna, mantiene una sorta di ‘umana pietà ’ nei confronti dei vinti, che sicuramente hanno sbagliato, ma forse lo hanno fatto in quanto sognavano un futuro diverso. La versione di Volume VIII sembra in qualche modo anticipare l’atteggiamento della canzone Il Cuoco di Salò ( dell’album Amore nel Pomeriggio del 2001), dove De Gregori, pur inflessibile nell’indicare qual è “la parte sbagliata”, focalizza l’attenzione sul fatto che pure da quella parte “si muore” e pure morendo dalla parte sbagliata “si fa l’Italia”. In particolar modo, le differenti atra le due versioni si colgono nei versi iniziali: in Rimmel il padre dell’io narrante “ha una storia comune condivisa dalla sua generazione” e si sa che la storia è una cosa pesante, che implica un’assunzione di responsabilità, la “storia dà torto o dà ragione” come reciterà il testo di un’altra nota canzone di Francesco De Gregori; la versione di Volume VIII si limita ad asserire che “aveva un sogno comune”, portando il discorso nel campo soggettivo delle passioni, delle ragioni, delle aspirazioni, dei sogni appunto, dei singoli, che pur implicando delle responsabilità storiche oggettive, non possono esservi ridotti del tutto. Poco più avanti, con chiaro riferimento a Mussolini, la versione di Rimmel recita che “troppi morti lo hanno smentito”, quella di Volume VIII che “troppi morti lo hanno tradito”.  Il significato di fondo è lo stesso, ma in Rimmel è espresso in maniera più marcata: se qualcuno viene smentito vuol dire che si afferma il contrario di ciò che dice, si dimostra che ha torto, addirittura si dimostra che ha mentito; il verbo “tradire” non mantiene la stessa connotazione, anzi generalmente chi viene tradito sta subendo un torto; chiaramente la versione di Volume VIII è ironica e afferma le stesse cose in modo probabilmente più tagliente, più sottile, ma, letta in maniera superficiale, potrebbe dare adito a fraintendimenti; ebbene, magari a scapito dell’ironia e della poesia, questi fraintendimenti in Rimmel vengono spazzati via, attraverso l’uso di un termine (“smentito”) che non lascia spazio a nessun possibile dubbio. Nella terza strofa, poi, sempre in riferimento a Mussolini e al fatto che “ha scritto anche poesie”, la versione di Rimmel commenta “i poeti che brutte creature ogni volta che parlano è una truffa”, in Volume VIII  al posto della parola  “brutte” troviamo “strane”: la seconda parte della frase fa sì che il contenuto del verso sia inequivocabile, ma in Rimmel l’espressione “brutte creature” è assai più esplicita. Anche qui i due testi dicono sostanzialmente la stessa cosa, ma in Rimmel l’affermazione presenta un giudizio di valore, che in Volume VIII è rimandato alla parte finale del verso, mentre in questa prima parte con “strane” ci si deve accontentare dell’affermazione che Mussolini (così come tutti i poeti) non lo si capisce fino in fondo.

 

 

 

LICOLA (settembre 1975)


Il ricordo è questo: io dormo tranquillo nel mio letto, è mattina presto, sento un rumore sulle persiane, come qualcosa che urta con un colpo secco. Il sogno svanisce lentamente mentre i rumori della realtà entrano nella coscienza. Prendono forma la fisionomia degli oggetti che si trovano attorno a me. Finalmente realizzo le circostanze spazio-temporali. Sono dei sassi contro la finestra, e qualcuno chiama ridendo. Mi affaccio e vedo sulla strada Francesco che grida: «Sveglia, pigrone!  Si va a Licola!».

Vi capita mai di vivere qualcosa che vi sembra di avere gia vissuto? lo talvolta provo questa curiosa e inquietante sensazione.

Comunque per me era come se mi avessero invitato a pescare, perché avulso com'ero dalla realtà circostante, non sapevo assolutamente cosa fosse Licola: immagini di tonni sventrati, di fichi d'India sotto il sole rovente. Licola, una spiaggia certamente, forse teatro di sbarco di truppe alleate, confine tra la terra e il mare.

Invece Licola era un palcoscenico immenso, era una delle date da ricordare, un avvenimento decisivo. Francesco e io viaggiavamo tranquilli da Roma a Napoli sulla nuova Renault 4 blu metallizzata acquistata in sostituzione di quella verde pisello che aveva praticamente esalato l'ultimo respiro sulle impervie colline dell'isola d'Elba.  Avevo assistito a quell'acquisto: ci eravamo recati insieme alla principale concessionaria Renault di Roma, ed eravamo stati ricevuti da uno dei venditori e da un tecnico francese che parlava un italiano un po' stentato ma assolutamente chiaro.  Francesco aveva deciso l'acquisto, ma fingeva di non essere perfettamente convinto, ed esaminava la vettura con atteggiamento ipercritico. Apriva gli sportelli e quindi li chiudeva brontolando ad alta voce sulla approssimazione meccanica dei meccanismi.  Ripeteva continuamente che tutto era ben diverso da quanto realizzato dagli efficientissimi tecnici tedeschi della Volkswagen. Apriva e chiudeva gli sportelli e si rivolgeva a me dicendo: «Guarda! bisogna dare un colpo secco, quando con le vetture tedesche è sufficiente lasciare andare lo sportello per vederlo chiudersi da solo con uno scatto, spinto dal suo stesso peso». Potete bene immaginare quanto queste osservazioni fossero gradite per il tecnico francese. Digrignava i denti e faceva sforzi veramente ammirevoli per trattenere l'esplosione dei suoi sentimenti. Alla fine di questa tortura Francesco dichiarò con un sorriso che comunque la vettura gli sembrava accettabile, e che aveva deciso di acquistarla, provocando una catarsi quasi tangibile. Diede istruzioni circa il tipo di impianto stereo che desiderava che vi fosse installato, e lasciò sereno il terreno di battaglia. Non ho la più pallida idea in merito a chi fu la vittima oggetto dello sfogo della rabbia repressa del meccanico francese, ma immagino che il poveretto abbia passato un bruttissimo quarto d'ora.https://www.iltitanic.com/2023/lic.jpg

Fu proprio su quel veicolo che ci dirigemmo alla volta di Licola, ascoltando nastri di Dylan sul magnifico impianto stereo montato con rabbia e rancore. Giungemmo in prossimità di Licola quando il sole stava già tramontando, e rimasi stupito dalla incredibile quantità di persone che fluivano lungo la strada a piedi verso la spiaggia.  Erano talmente numerosi che noi eravamo costretti a procedere a passo d'uomo per non correre il rischio di urtare qualcuno e fargli del male. Altro motivo di grande stupore per me consisteva nel fatto che molti dei ragazzi accanto ai quali passavamo in macchina riconoscevano Francesco, si avvicinavano con un sorriso e gli facevano domande sulle sue canzoni. In particolare ricordo che chiedevano soprattutto chi fosse veramente il Cesare della canzone Alice, e formulavano ipotesi incredibili, comunque sempre ben lontane dalla verità, che Francesco confermava spudoratamente con aria convinta. Altri desideravano informarsi sul motivo che aveva indotto Francesco a dedicare una canzone a Pablo Neruda, e questi ultimi ricevevano risposte più ironiche.

Procedemmo per molti minuti fagocitati dal fiume di persone, e finalmente giungemmo in prossimità del palco, dove fummo accolti con premura dagli organizzatori.  Qualcuno stava suonando, e il suono giungeva distorto dietro il palco. Mentre Francesco discuteva appoggiato alla custodia della sua chitarra, io salii i gradini del palco, per sbirciare, e rimasi esterrefatto nel constatare la quantità di persone che affollavano la spiaggia. Ragazzi e ragazze tutti vestiti di jeans, tutti attenti e presenti, tutti con la ghiandola dell'atteggiamento critico ben gonfia. Qualcuno accorse e disse a Francesco che era giunto il suo turno. Lui sali sul palco accolto da un applauso e cantò tre canzoni velocemente, senza lasciare ad alcuno la possibilità di respirare e riflettere.  Alla fine della terza canzone dichiarò che sfortunatamente la sabbia della spiaggia gli era entrata sotto le unghie rendendo molto difficile accompagnarsi con la chitarra.  Disse che comunque non c'era ragione di preoccuparsi, perché al suo posto avrebbe suonato un carissimo amico. Quindi si voltò dietro verso di me e mi fece cenno di raggiungerlo sul palco. Attraversai i cinque metri di assi di legno che mi separavano dal nero abisso come se stessi attraversando il Mar Rosso, in un silenzio irreale.  Raggiunsi il microfono e cantai di un fiato un paio di canzoni sul Cile. Quindi salutai con un inchino e lasciai il palco. Fuggimmo insieme da Licola con la stessa allegria di due rapinatori che sono appena riusciti a portare a termine un furto con destrezza particolarmente gratificante.

In un secondo tempo appresi il motivo della sensazione di pericolo che mi aveva tenuto vigile e desto: fu il primo raduno nel quale il pubblico contestò energicamente coloro ai quali riteneva di dover rimproverare qualche cosa. Ne fecero le spese soprattutto il povero Alan Sorrenti, che già aveva dato un sensibile colpo di timone alla propria forma di espressione artistica realizzando Dicitencello vuje, e già meditava ben di peggio, dopo avere realizzato un paio di long-playing decisamente interessanti in quanto a ispirazione e ricerca.  Mi dissero che fu oggetto di un nutrito lancio di lattine di Coca Cola e di un'ovazione di disapprovazione. Il secondo malcapitato fu l'amico Corrado Sannucci, il quale ebbe il coraggio o forse l'imprudenza di cantare, tra le altre tostissime canzoni di contenuto profondamente sociale - pur vestito con la sana ironia che lo contraddistingueva - un brano dedicato a una sua ex fìdanzata, nel quale egli sottolineava con un sorriso taluni atteggiamenti estremizzanti allora comuni a un certo tipo di militanza femminista. La canzone si chiamava La caffettiera, e il momento più pregnante era quello nel quale lui e lei, dopo un chiarimento molto esplicito circa la sfrontatezza di certi riprovevoli atteggiamenti maschilisti, si recano entrambi in corteo in cucina per preparare insieme il caffè che egli aveva sperato gli fosse portato a letto poiché febbricitante. Ho chiesto più volte a Corrado cosa accadde veramente quella sera a Licola, quando le numerosissime femministe allora presenti ascoltarono questo brano, ma Corrado, ne ignoro il motivo, ha sempre cambiato prontamente argomento.

Tutto ciò era evidentemente nell'aria, e sicuramente Francesco e io ce ne eravamo inconsciamente resi conto: ecco perché sfrecciavamo con la Renault 4 alla volta di Napoli, felici di avere affrontato la belva senza avere ricevuto alcuna zampata.

tratto da DE GREGORI di Giorgio Lo Cascio - Muzzio Editore (1990)

 

 

ANALISI SU QUANTO HA INFLUITO VOLUME VIII DEL 1974 CON RIMMEL

 

Ci si potrebbe chiedere quale sia il rapporto tra i due testi e cosa stia alla base di varianti per nulla trascurabili, ma presenti in due versioni le cui uscite discografiche non sono poi così lontane nel tempo.  Si può ipotizzare che la versione presente in Volume VIII corrisponda effettivamente alla canzone così come concepita originariamente da De Gregori e che Rimmel rifletta un ripensamento successivo. Oppure, che in Volume VIII il tono della canzone sia stato attenuato per motivi di opportunità politica, in maniera da rendere possibile l’uscita del brano senza censure; o per adattare la canzone al temperamento di De André, più portato alla comprensione che alla condanna dei vinti, meno allineato politicamente e meno assimilabile ad un ovile ben definito, magari proprio per questo portato a guardare oltre le righe.

Quest’ultima ipotesi tenderei ad escluderla, a partire dalle notizie di una versione dal vivo di De André di Via della Povertà (traduzione a quattro mani con De Gregori, di Desolation Row di Bob Dylan), risalente alla fine del 1974, in cui, riprendendo  una pratica dylaniana,  i nomi dei personaggi della canzone venivano sostituiti con quelli di personaggi dell’attualità. Ebbene, nella seconda strofa,  che presenta un riferimento esplicito ad Almirante, De André è molto meno indulgente nei confronti dei  cosiddetti ‘vinti’ di quanto non lo sia ciascuna delle due versioni di Le Storie di ieri (per una lettura del testo della canzone, che tra l’altro contiene riferimenti a personaggi come Covelli, leader monarchico, all’epoca confluito nell’M.S.I.-D.N.,  Paolo VI, Berlinguer, Agnelli, Montanelli, l’allora Presidente della Repubblica  Leone, rimando all’ottimo sito, http://www.viadelcampo.com/html/canzoni1.html).Un eventuale abbassamento dei toni della canzone Le Storie di ieri rispetto all’originale degregoriano non deve essere dunque attribuito alla volontà o al temperamento di De André .  

Devo dire che ascoltando le due versioni sono sempre, istintivamente, stato dell’idea che quella di Volume VIII corrispondesse, almeno a grandi linee, al testo originario di De Gregori e che la canzone, così come incisa in Rimmel, rappresentasse uno stadio successivo, un’evoluzione dettata dal mutamento delle condizioni politiche e dall’acuirsi della lotta tra destra e sinistra. Questa, che poteva risultare soltanto un’impressione, un’ipotesi, una congettura è diventata qualcosa di più, quasi una certezza, nel momento in cui sono entrato in possesso di una terza versione di Le storie di ieri, eseguita da De Gregori e risalente con tutta probabilità ad un periodo precedente le altre due. Questa fortunata circostanza è dovuta al fatto che, grazie anche alla potenza della rete, sono venuto in possesso di copia di due CD di inediti e rarità di incisI da De Gregori negli anni ’70. La traccia 6 del primo CD è appunto una versione di  Le Storie di ieri, eseguita da Francesco alla chitarra e alla voce. Non è possibile entrare nel merito del contenuto dei due CD e della provenienza dei brani, ma tutto lascerebbe pensare che questa traccia risalga ad un periodo precedente l’album “Pecora” e preparatorio a questo. A partire da una serie di caratteristiche “oggettive” (qualità del suono, timbro di voce di De Gregori, esecuzione live o in studio, esecuzione solo chitarra e voce o con complesso strumentale, presenza o meno di Lucio Dalla alla voce o al sax,  brani in italiano o in traduzione inglese) è possibile suddividere tutto il materiale dei due CD in almeno quattro cinque gruppi e forse in ulteriori sottogruppi. Tra questi, uno dei più interessanti è caratterizzato da 11 brani, editi e inediti, eseguiti in studio da un De Gregori dal timbro di voce giovanile con soli chitarra e voce e qualità del suono piuttosto buona. I pezzi da includere in questo gruppo sono: Mercato dei Fiori (1,1), pezzo inciso peraltro da Patti Pravo nel 1975 sulla B side della hit Incontro (per la copertina del  45 giri, cfr. il sito http://www.coltempo.it/discografia/45incontro.htm),  Signora Aquilone (1,3), Le Storie di ieri (1, 6), Souvenir (1,7), Dolce Amore del Bahia (1, 20), A Lupo (1, 21), Cercando un altro Egitto (1, 22), Niente da capire (2,1),  altri tre brani, mai incisi da De Gregori, di cui non saprei dire il titolo (1,2; 1,4; 1,5), l’ultimo dei quali presenta come accompagnamento di chitarra il tema che più tardi sarà utilizzato per la colonna sonora di Flirt (da notizie spulciate in libreria in un libro su De Gregori, scritto da Marco Bonanno, il testo sarebbe di Giorgio Lo Cascio) . Le versioni dei brani editi risultano diverse da quelle incise successivamente e spesso presentano delle varianti testuali. La voce assai giovanile, il tipo di accompagnamento, i titoli dei brani editi, così come lo stile dei testi e della musica dei brani inediti, inducono ad attribuire  con assoluta certezza i brani ad una o più sessioni databili nella prima metà degli anni ’70.

La presenza di ben cinque brani poi incisi sulla “Pecora”, in versioni leggermente diverse da quelle della “Pecora” (e con arrangiamenti, sembrerebbe impossibile, più scarni) mi fa pensare che almeno una parte del materiale in questione costituisca una serie di ‘provini’ effettuati nel periodo precedente la realizzazione del disco, da cui poi sarebbero stati selezionati i brani effettivamente incisi, databili quindi in un lasso di tempo tra il ’73 e il ‘74.  La notizia confermata da De Gregori che Le Storie di Ieri non fece parte della “Pecora” in quanto scartato dalla RCA sembra un indizio piuttosto forte del fatto che la traccia con il brano debba essere inserita in questo gruppo e che dunque si tratti della versione originale, o quantomeno di una versione anteriore a quelle edite. Naturalmente, siamo finora nel campo delle congetture e, anche se si tratta di congetture piuttosto plausibili, esse si scontrano con il fatto che finora non sappiamo nulla di certo sulla provenienza dei brani e soprattutto sul numero di sessioni che furono necessarie a registrarli. 

Un modo di giungere ad una conferma, per lo meno parziale, di queste congetture è dato dall’analisi puntuale dei testi e dal confronto delle varianti delle tre versioni (la traccia inedita e le due versioni edite di Le storie di ieri). Darò per scontata la conoscenza del testo della canzone (che in ogni caso riporto alla fine dell’articolo nella versione di Rimmel) e indicherò i versi in cui sono rinvenibili elementi di discordanza tra almeno due delle tre versioni, indicando la traccia inedita con TI, la versione cantata da De André con DA, la versione di Rimmel con R. (In altre parole, gli unici versi che non citerò sono quelli in cui tutte e tre le versioni sono concordi).

Un metodo utile per giungere a una datazione dei tre testi è il computo statistico delle concordanze e delle discordanze. Prima di mostrare i risultati indicherò alcuni criteri che ho seguito: ho contato quelle dei vv. 1 e 2 come un’unica variante, dal momento che l’uso di “condiviso” piuttosto che “condivisa” costituisce una conseguenza necessaria dell’uso di “sogno” piuttosto che di “storia”. Analogamente, ho considerato un’unica variante quella dei vv. 24-25, visto che l’uso di “cravatta intonata” piuttosto che “cravatte intonate” al verso 25 dipende dall’alternativa tra “faccia serena” o “facce serene” del verso 24. Lo stesso ho fatto per i vv. 9-10, in cui l’inizio del verso è lo stesso ripetuto (e variato nelle diverse versioni). Per quel che riguarda il v. 13, ho computato separatamente la concordanza di TI e DA nell’utilizzo della parola “strane”, piuttosto che “brutte” e la concordanza di DA e R  nell’omettere l’espressione “ah” all’inizio del verso. I risultati cui sono pervenuto sono i seguenti:

Come si vede, il minor grado di concordanza è quello della traccia inedita (TI) con la versione di Rimmel (RI): vi è un solo caso (più precisamente ai versi 9-10) in cui le due versioni siano in accordo tra loro e in disaccordo con quella di Volume VIII. Le versione cantata da De André (DA) si ritrova in una sorta di posizione intermedia, dal momento che in quattro casi si trova in accordo con la traccia inedita (e in disaccordo con Rimmel) e in quattro casi si trova in accordo con Rimmel (e in disaccordo con la traccia inedita).  Vi è poi un caso piuttosto interessante, e su cui varrà la pena di tornare in seguito, in cui ogni versione risulta autonoma dalle altre due (vv. 24-25).

Se il computo eseguito è corretto, ne risulterà che la versione di Volume VIII (DA), risultando intermedia a livello di testo, sarà con tutta probabilità intermedia anche da un punto di vista cronologico e, dal momento che sappiamo che la versione di Rimmel è più recente rispetto a quella di Volume VIII, ne risulterà che la traccia inedita è la versione più antica delle tre.  Tutto questo non fa altro che confermare le precedenti congetture sul fatto che la traccia inedita sia un provino risalente al periodo preparatorio della “Pecora”, scartato dalla RCA per motivi di opportunità politica.

Se dunque siamo in grado di attribuire un ordine cronologico più che plausibile ai tre pezzi, diviene possibile seguire nei dettagli l’evoluzione del testo e individuare il tipo di varianti che segnano l’evoluzione dalla traccia inedita alla versione di Rimmel, passando per Volume VIII.  

 

 

Dei sei casi in cui DA si differenzia da TI, ben 4 costituiscono dei cambiamenti puramente stilistici: ai vv 9-10 ( “chiude gli occhi e comincia a sognare, chiude gli occhi e comincia a volare”) “comincia” viene sostituito con “si mette”; dei quattro mutamenti puramente stilistici è l’unico che non venga ripreso nella versione di Rimmel e non escluderei che la variazione possa attribuirsi ad una scelta di De André al momento di incidere la propria versione. Al verso 13 (in TI “ah i poeti che strane creature”) l’esclamazione iniziale (“ah”) viene omessa in DA (e poi in R).  Altro cambiamento stilistico si riscontra al v. 26, dove “il bambino nel cortile si è stancato” di TI, diventa “si è fermato” in DA (e in R); questo cambiamento è di certo un miglioramento, dal momento che permette di evitare la ripetizione dell’espressione “si è stancato”, presente all’inizio del verso successivo. Ultimo dei 4 cambiamenti puramente stilistici è il fatto che, diversamente da quanto succeda in DA e poi in R, il verso finale in TI è ripetuto 2 e non 3 volte.  Al verso 21, si ritrova invece un cambiamento non solo stilistico, che però non stravolge il contenuto della canzone: all’espressione di TI  “E anche adesso è rimasta una scritta”  DA (seguito da R) aggiunge l’aggettivo “nera” (suggestione, quella del colore nero, del resto già presente al verso 12 in tutte e tre le versioni: “ a giocare col nero perdi sempre”).. La variante dei vv. 24-25 è forse una delle più interessanti dell’intera canzone: la versione di TI recita “Almirante ha la faccia serena, la cravatta intonata alla camicia”; in DA al posto di “Almirante” troviamo “il gran capo”: è abbastanza facile intuire il motivo di questo cambiamento: se anche il già affermato De André poteva permettersi di incidere una canzone come Le storie di ieri (o magari la RICORDI, per cui venne inciso Volume VIII, era meno restia della RCA) non per questo era possibile (o consigliabile ) citare esplicitamente il nome di un politico (per giunta, Almirante), per cui come per diverse altre canzoni di De Gregori censurate all’epoca (gli esempi più celebri sono quelli di Alice e Niente da capire, ma proprio da questi CD di inediti risulta che ad un’analoga censura furono sottoposte Signora Aquilone, Sono tuo, Souvenir), si pensò ad una soluzione alternativa: in questo caso, l’espressione “il gran capo” poteva sembrare perfetta, perché oltre a fornire quella che nel contesto della canzone può considerarsi una descrizione definita di Almirante, ha la stessa struttura metrica della parola “Almirante”.

Se le sei varianti di DA rispetto a TI derivano quasi esclusivamente da preoccupazioni stilistiche o di censura e in ogni caso sono tali da non cambiare di una virgola il significato e il clima psicologico e ideologico della canzone, per quel che concerne il passaggio alla versione di Rimmel le cose sono, come si è visto, abbastanza diverse. Vi sono in effetti anche qui un paio di mutamenti puramente stilistici: ai vv. 9-10, come si è detto, viene ripresa la versione di TI  “comincia a sognare”; al v. 27, poi, “si è stancato di seguire gli aquiloni” diventa “si è stancato di seguire aquiloni”. Le altre quattro varianti, però, modificano in maniera sostanziale se non il contenuto l’approccio della canzone. Delle prime tre si è già avuto modo di parlare all’inizio: al v. 1 “un sogno comune” diventa “una storia  comune”, al v. 4 “tradito” diventa “smentito”, al v. 13 “strane creature” diventa “brutte creature”. Ai vv. 24-25 si riscontra una curiosa variazione: se nella primissima versione della canzone si faceva esplicito riferimento ad Almirante e in quella successiva vi si alludeva chiamandolo “il gran capo”, qui troviamo “i nuovi capi” e sembra che l’oggetto polemico sia cambiato, si sia esteso, o forse sia rimasto semplicemente sul vago. Forse l’espressione “il gran capo” andava bene per De André e per  un disco inciso dalla RICORDI, ma era ancora troppo esplicita per i discografici della RCA? Questo tenderei ad escluderlo, se non altro per il fatto che la versione recitante il “gran capo” era ormai nota e dunque era palese ed esplicito a chi si riferisse la canzone. E allora?  Devo dire che la prima volta che ho ascoltato la canzone (sarà stato intorno al ’95 o giù di lì, anzi era proprio il ’95) ebbi un’impressione strana: sapevo che il pezzo risaliva a 20 anni prima, ma mi pareva che l’espressione “i nuovi capi” potesse riferirsi tranquillamente all’attualità e alla nascita del Polo delle Libertà.  Cosa pensare, allora, che De Gregori prevedesse il futuro? L’ipotesi non sarebbe del tutto peregrina, visto che in Miramare 19/4/1989 nel brano Bambini Venite Parvuols cantò “legalizzare la mafia sarà la regola del 2000” e adesso, da qualche mese, è passata la Legge Cirami, ma, insomma, pure la nascita del Polo delle Libertà? O dobbiamo per forza ricordare i versi iniziali della canzone datata 1976 Disastro Aereo sul canale di Sicilia  (“Risulta peraltro evidente, anche nel clima della distensione, che un eventuale attacco ai paesi arabi vede l’Italia in prima posizione”)? O forse, anziché pensare ad un De Gregori preveggente, dovremmo andare a cercare nella realtà politica del 1975 e del periodo immediatamente precedente, qualcosa che per certi aspetti possa assomigliare a quella che sarà poi la fondazione del Polo,  insomma una sorta di allargamento del fronte della destra di derivazione fascista, tale da giustificare l’allusione all’esistenza di “nuovi capi”.

Per capire a cosa potrebbe alludere De Gregori e in generale per cercare di comprendere alcuni dei motivi che potrebbero stare sotto la canzone e la sua evoluzione, sarà opportuno richiamare alla mente alcune delle vicende politiche che coinvolsero più o meno direttamente l’M.S.I., all’inizio degli anni ’70 (Almirante era divenuto segretario dell’M.S.I nel 1969 e direi con assoluta certezza che questo è il termine post-quem della prima versione della canzone). Senza entrare nel dettaglio dei fatti ormai storici dell’epoca, individuerei alcuni elementi che possano in qualche modo aiutarci: in primo luogo, il periodo che va dal 1969-70 al 1975 e oltre è segnato dal progressivo acuirsi dello scontro politico, non sempre soltanto verbale, tra destra e sinistra: è il periodo degli scontri di piazza, ma anche  della ‘strategia della tensione ’ (iniziata ufficialmente nel 1969, con gli attentati dell’agosto e poi la strage di P.za Fontana il 12 dicembre) e del terrorismo di destra, come di sinistra. In questo contesto, e in seguito anche alle pesanti responsabilità di parte dell’M.S:I: nell’episodio dei moti autonomisti di Reggio Calabria (a partire dal luglio 1970), diversi esponenti della destra vengono indagati con l’ipotesi di reato di “Ricostituzione del partito fascista”:  il 3 marzo 1972 la procura di Treviso ordina l’arresto di Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, anche con l’accusa di coinvolgimento negli attentati del 1969. Il 28 giugno del 1972 la procura di Milano chiede alle camere l’autorizzazione a procedere contro Almirante, sempre per il reato di “Ricostituzione del partito fascista”; il 24 maggio del 1973 le camere concedono l’autorizzazione a procedere; le indagini successive non porteranno a risultati concreti e i processi non si svolgeranno mai. In questi anni, la politica dell’ M.S.I. segna inoltre un significativo mutamento: si va profilando sempre di più l’ipotesi del Compromesso Storico, dell’alleanza tra DC e PCI e l’ M.S.I. cerca di appropriarsi del ruolo di baluardo anticomunista, cercando di costituire un fronte comune che, sotto la bandiera dell’opposizione al comunismo, inglobi settori della destra più ampi di quella tradizionalmente missina. È così che alle elezioni del maggio ’72  l’M.S:I: si allea con il partito monarchico (il PDIUM) sotto la sigla di Destra Nazionale , ottenendo l’8.7% dei voti. Questo tentativo di allargamento della destra andrà avanti fino al 1975-76. L’ultima fase di questo processo ha luogo alla fine del 1975, con la fondazione promossa da Almirante di una organizzazione più ampia del suo partito, esterna al partito e denominata “Costituente di destra per la libertà”.

Credo che gli eventi qui riportati brevemente possano aiutarci a ricostruire il contesto in cui fu concepita e si sviluppò la canzone Le Storie di ieri. In effetti il pezzo sembra muoversi su un doppio binario: per un verso, c’è la patina di rispettabilità dei nuovi fascisti (l’unica strofa che rimane identica in tutte e tre le versioni è la quarta, quella che inizia con “Ma mio padre è un ragazzo tranquillo”, vv. 16-20), per un altro il continuo ricordare e richiamare le loro radici storiche. Tutto questo trova una rispondenza negli avvenimenti del ’72-’73:  l’M.S:I che tenta di recuperare una base di consenso più ampia (e in parte ci riesce); le sue radici che, anche in seguito alle indagini della magistratura, non possono essere negate. Si potrebbe addirittura ipotizzare che lo stimolo a scrivere la canzone sia venuto a De Gregori proprio in seguito all’episodio di Almirante indagato e quindi si potrebbe collocare la prima stesura tra il ’72 e il ’73. La registrazione della versione inedita potrebbe essere collocata tra il ’73 e il ‘74. Per quel che riguarda la versione di De André, anche se il disco Volume VIII esce nel 1975, questa riflette nella sostanza l’orientamento della versione inedita (forse a causa della gestazione non brevissima dell’album). Il nuovo clima del 1975 si coglie invece nella versione di Rimmel: si è detto che l’acuirsi del clima politico può aver determinato una sorta di irrigidimento dei toni di certe espressioni e a questo punto si può ipotizzare che l’espressione “i nuovi capi” possa riferirsi alla fondazione (già avvenuta o comunque prospettata) della “Costituente di destra per la libertà”.

  

 

«Avevo appena finito questa canzone (“Pablo”), capivo fosse una storia interessante. E gliela feci sentire, eravamo a Bari. Lui mi disse:”Bella, bella. Però qui devi cambiare, perché l’inciso si pianta”. Lui cambiò semplicemente una nota, ma quella nota dava un senso in più».

 «Lucio era sovrastante, era molto diverso da me, era immediatamente simpatico. Io no, avevo un altro ruolo. Lui saliva sul palco e prendeva molti più applausi di me. Tre quarti dello stadio lo invocava e un po’ soffrivo. Dalla era abile a giocarsela sta cosa, un po’ ti voleva fregare. Io lo sapevo e la sua inclinazione non ha mai scalfito la nostra reciproca ammirazione: vera, profonda, sostanziale. La rivalità esisteva. La soffriva anche lui. Per quello che rappresentavo. Sotto quell’aspetto, era geloso di me. Mi chiamava il principe, mi addebitava una certa alterità».

 

 

Pablo, ad esempio, interpretata in modi diversi da ogni tipo di ascoltatore, eletta a inno. Si è detto di tutto a proposito di chi sia veramente il protagonista della canzone. Addirittura, quando il disco uscì, in concomitanza con la condanna a morte di alcuni oppositori del regime franchista in Spagna, si disse fosse stata scritta per loro.
"No, non esiste nessuna lettura dietrologica di questa canzone, che è semplicemente quello che è: la storia, inventata, di un emigrante spagnolo in svizzera che incontra un emigrante italiano, del loro modo di comunicare, della solidarietà istintiva che li lega al di là delle differenze culturali e della lingua diversa. Ma tutto questo è scritto chiaramente nel testo! Ma perché qualcuno deve sempre pensare di essere più furbo o più informato di quello che la canzone l'ha scritta?
Pablo è semplicemente una canzone sull'emigrazione, il canzoniere italiano, non solo quello tradizionale, ne è pieno. L'emigrazione è una parte importante della storia d'Italia, non occorre averla vissuta in prima persona per sentirsene coinvolti, è nel nostro codice genetico. La novità di Pablo, casomai, sta nel fatto che non è la comune appartenenza sociale a unire in qualche modo i due protagonisti: dove ti aspetteresti la parola 'compagno' trovi la parola 'collega'. Quello che sembra avvicinarli casomai è la comunità di ricordi legati al mondo contadino, e magari una tazza di latte bevuto insieme in una latteria di Zurigo.

 


Ecco; adesso l'ho spiegata. E' più bella adesso? Lasciami aggiungere che le parole dell'inciso (hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo) alimentarono non poco la mia fama di ermetico, ma evidentemente non erano così incomprensibili visto che le ritrovai scritte su un muro di Roma quando lo studente Pietro Bruno morì durante gli scontri con la polizia davanti all'ambasciata dello Zaire (a Roma, il 22 novembre 1975, nel corso di una manifestazione a favore della libertà dell'Angola). Leggere le parole hanno ammazzato Pietro e Pietro è vivo' fu come un pugno nello stomaco e mi fece capire, se mai ce ne fosse stato bisogno, che le canzoni non appartengono a chi le scrive ma sono da subito patrimonio di tutti.

Dicono che Woody Guthrie non si fosse scandalizzato più di tanto quando la sua 'This land is your land' venne utilizzata nella pubblicità di una marca di latte. Ma vedere quella scritta fu per me tutt'altra cosa: non era solo la realtà quotidiana che drammaticamente si sostituiva alla finzione, ma era una canzone di successo scritta da me che diventava, attraverso una mano sconosciuta, la celebrazione della morte di un mio coetaneo". E' proprio l'inciso di Pablo che porta la firma, come collaboratore, di Lucio Dalla: "lo avevo
scritto una linea melodica leggermente diversa. Dalla invece gli cambiò tono in quel punto e devo dire che questo ha reso la canzone molto più efficace".
Amicizia, quella con Lucio Dalla, che risale ai tempi della It, la prima etichetta di Francesco, quella degli esordi: "Dalla era una specie di folletto, lo incontravi ovunque ... lavorava con Sergio Bardotti però gli piaceva anche lavorare con altri parolieri giovani. Edoardo De Angelis, il produttore di Alice, scrisse un testo per una sua canzone, ad esempio. Era una persona di grande talento e sicura simpatia. Mi piaceva moltissimo il suo lavoro, dai tempi di 'paffbum' e 'quand'ero soldato', e a lui piaceva il mio. Il suo intervento su Pablo nacque a Bari dove ci trovavamo non ricordo per quale Festival. Gli feci sentire il pezzo appena scritto e lui mi suggerì questo piccolo ma sostanziale cambiamento".
Grande canzone, anche se oggi fanno un po' sorridere quegli applausi posticci appiccicati durante il secondo ritornello: "Si sente che sono applausi finti, non avevo nessuna intenzione di farla sembrare registrata dal vivo: volevo semplicemente quel suono lì, come avrei potuto metterci che so, delle campane o un organo da chiesa. L'idea era quella di un messaggero a cavallo che arriva e dà questa notizia, che Pablo è morto, ma è vivo; e a quel punto parte l'applauso della gente. Non chiedermi il perché. Però l'idea era questa. Sentivo la necessità di avere il suono degli applausi. Vennero fatti da tutti quelli che erano in studio in quel momento: musicisti, assistenti, gente che passava di là".
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

"Pablo" è stata usata come motivo da discoteca per ballarci sopra, ma anche come slogan politico, quando hanno ammazzato Pietro Bruno, perchè su palazzo Venezia c'era scritto: "Hanno ammazzato Pietro, Pietro è vivo".

Quando uno prende una mia canzone e la usa sia per ballare che per parlare di uno che è stato ammazzato il giorno prima, il massimo dell'ambiguità è stato raggiunto, ed io so benissimo che l'utilizzazione delle mie canzoni non è un fatto controllabile da me; quindi quando vedo certe cose ti posso dire che al limite sono giuste tutte e due, sia che si balli in discoteca sia che sia scritta sui muri in quel modo. Forse l'una è la conseguenza dell'altra, cioè se non fosse stata ballata in discoteca per tutta una estate probabilmente non avrebbe avuto la sua funzionalità come slogan.

In tutte le canzoni che ho sentito sull'emigrazione c'era sempre un'immagine abbastanza stereotipa dell'emigrante italiano, che è giusta fra l'altro, però volendo fare un'altra canzone sull'emigrazione, ho pensato di allargare il discorso e di parlare anche degli altri compagni emigranti, parlare anche della Spagna che era... che è tutt'ora, forse allora più di adesso, in una situazione abbastanza critica dal punto di vista della democrazia, e questo tra l'altro mi forniva lo spunto per fare il discorso vero della canzone, che è il rapporto fra due emigranti diversi per lingua, per tradizioni, idee, e parlare di questa loro incapacità a comunicare realmente, a intendersi e anche a difendersi; sono due emigranti di quelli che non tornano mai a votare, di quelli non politicizzati, di quelli che alla fine si fanno pagare e si fanno ammazzare.

 

"Canzoni, e un po’ di champagne" (1975)  di Enzo Caffarelli

 

Tracciamo un profilo del celebre cantautore romano facendoci illuminare dalla sua intervista: il successo delle sue canzoni e il suo posto nel quadro delle esperienze dei cantautori italiani; Un incontro a Rimini, all’Hotel Belle vue: protagonisti Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Enzo Caffarelli

Antonello riassume in sé le contraddizioni del cantautore italiano anni settantacinque. Adesso alterna ai festival dell’Unità e ai concerti gratuiti nelle piazze, le aristocratiche balere rivierasche. Nel rigore del suo marxismo spiega che è giusto così, che è logico e necessario portare i suoi problemi, la propria lettura ed interpretazione della realtà sociale che ci circonda ad un pubblico diverso dal solito, magari svogliato e disattento, abituato ad altri discorsi, smanioso di ballare

Opportunismo tattico o compromesso con il sistema?

Il fatto è che rischia di trovarsi tutti contro. Alcuni fans lo accusano di imborghesimento, lo rinnegano. Gli avversari non aspettano altro per tacciarlo di ipocrisia. Così nella prima estate “romagnola” , trascorsa presso i centri che per tradizione in questa stagione divengono la capitale della musica italiana, Antonello ha pernottato in alberghi superlusso, ha girato con la fiammante Citroen che ha rimpiazzato la sgangherata Volkswagen di un tempo, è apparso con la fidanzata su giornali semiscandalistici. Ma ha anche trovato il tempo di dirmi che non è possibile che un suo disco costi 5000 lire, che la battaglia contro le case sarà dura ma porterà a risultati positivi, che insomma qualcosa sta cambiando, che i cantautori sono tutti uniti in tal senso, che i giovani stiano tranquilli e continuino a sperare. Intanto per andarlo a vedere si paga 3000 lire “Ma qui vengono solo i figli della media borghesia” rassicura Venditti, “gli operai non hanno soldi, loro mi ascolteranno ai festival gratuiti o nei teatri di periferia”.

 

 

 

....Particolarmente interessante è il set di Francesco De Gregori, il più lungo tra quelli sopravvissuti, anche perché presenta un inedito (Roma Capitale) che testimonia una iniziale vena satirica del Principe, un brano citato dal biografo Enrico Deregibus, ma al momento, a quanto ne sappiamo, non presente in rete. Altro motivo di interesse è una Bufalo Bill ancora in divenire (uscirà sul disco l'anno seguente) con una strofa aggiunta nel finale rispetto alla versione canonica. Insomma, tutta roba che, crediamo, solleticherà l’appetito dei lettori stratosferici.

 

 

 

1) Ballata per Claudio Varalli  (Canzoniere Mantovano)

2) Bandiera rossa (prova a cantare) (Canzoniere Mantovano)

3)La strategia del qualunquismo (Canzoniere Mantovano)

4) Nina (Gualtiero Bertelli)

5) “La voce…” (Claudio Rocchi)

6) “ E’ da giorni che ci penso…” (Claudio Rocchi)

7) “Conosco uno che ricatta le mie amiche..” (Claudio Rocchi)

8) “E’ pura onestà di bilancia…” (Claudio Rocchi)

9) Pablo (Francesco De Gregori)

10) Cercando un altro Egitto (Francesco De Gregori)

11) Roma Capitale (Francesco De Gregori)

12) Bufalo Bill (Francesco De Gregori)

13) Ipercarmela (Francesco De Gregori)

14) Signor Hood (Francesco De Gregori)

15) Alice (Francesco De Gregori)

16)Domandine a proposito di Dio ("Preguntitas sobre Dios",

     Atahualpa Yupanqui) (Gianluigi Tartaull)

17) ¿Que dirà el Santo Padre? (Violeta Parra) (Gianluigi Tartaull)

 

 

per informazioni sui 4 concerti dedicati ad Alceste Campanile e come ascoltare i CD, clicca qui sotto:

http://verso-la-stratosfera.blogspot.it/

 

 Leggendo la scaletta del concerto di Reggio Emilia, tenuto a luglio 1975, si capisce come "Bufalo Bill" del 1976 fosse  già uscito da certi cassetti e canzoni quali Atlantide, Ipercarmela e la stessa Bufalo Bill, furono messe rispettosamente da parte, in attesa, per far posto ai capolavori di Rimmel.

E' interessante notare alcune variazioni testuali.  

variazioni in Cercando un altro Egitto: È tutto acciaccato dalla folla che grida, mi domando come mai non ci sono i bambini.

aggiunte varie strofe in Bufalo Bill:  Ora ti voglio dire: c’è ci ruba per avidità e c’è chi ruba perché capisce.

L’America è una bandiera fatta a stelle. Comincia più o meno dove il giorno finisce.

 Nel resto delle canzoni, in visione qui, ci sono variazioni leggere.

(Il nostromo)

 

 

 

Venditti doveva tenere un recital al Castello Sforzesco. Ma alle prime note cominciò a cadere una pioggia torrenziale. Il pianoforte fu allora caricato su un camion e portato al Piccolo Teatro, a qualche centinaio di metri. Il pubblico intanto si spostava verso la nuova sede del concerto. Ma, sorpresa, non si riusciva afr entrare il pianoforte a mezza coda sul palcoscenico(piccolo) del Piccolo Teatro. E così il pianoforte fu sistemato nel foyer, dove presente la deliziosa moglie Simonetta Izzo, Venditti tenne senza porsi troppi problemi un applauditissimo recital. Niente sedie, tutti in piedi. (Commento di Venditti: “Che bello, che gioia sentirsi il pubblico vicino, appoggiato al pianoforte. Che emozione, che risate, che casino” )

Secondo episodio: è la sera del 30 Novembre 1976. Poco tempo prima alcuni autonomi hanno contestato e processato Francesco de Gregori. Venditti ama Francesco come un fratello e decide, a modo suo, di vendicarlo. Contro il parewre di tutti decide di tenere un concerto nello stesso Palalido. Ha una paura ladra.

“Me la facevo sotto. Letteralmente. Ma avevo deciso che dovevo farlo. L’organizzazione fu affidata a Radio Canale 96. Ai circoli giovanili furono concessi biglietti a 700 lire . Ciò nonostante disturbarono il concerto. Io mi confrontai con loro, gridai più di loro. A un certo punto dovetti interrompermi.

Certo-continua Venditti- poi dormii per due giorni. Ma intanto avevo cantato, suonato, alla faccia dei casinari”

Ma in quell’occasione Venditti dette a tutti una lezione: ed era quella che l’artista, per essere tale, deve essere libero. Libero dalle pressioni dell’industria, ma anche dalle pressioni dei giovani demagoghi(e talora teppisti) della sassata o della spranga.

E nella libertà è nato, “Buona domenica”, un libero tuffo nella realtà d’una Italia giovanile dai mille volti, contraddittori ma reali. Venditti l’ha dipinta a note vivaci. L’affresco è disponibile in quattro colori diversi.

 

boy music, 1979, di M.Luzzatto Fegiz

 

 

Un ermetico chiaro per questo tempo oscuro

di Alessio Lega

 

Teatro Uomo, Milano 1975, concerto per A Rivista Anarchica, Paola Nicolazzi, Francesco De Gregori, Giorgio Gaber e Roberto Ruberti eseguono "Addio Lugano Bella".

 

È uscito da qualche mese un libro importante, una ricca biografia di Francesco De Gregori, molto ben documentata nella proposizione e nell’analisi delle fonti e innovativa nell’esposizione.

L’ha scritta uno dei migliori giornalisti musicali italiani, Enrico De Regibus, ed è un libro di inusitato valore critico nell’editoria di genere italiana, quasi totalmente dominata dalle agiografie pubblicitarie.

Il volume si pone l’ingrato compito di rintracciare, seguendo l’intero percorso artistico del cantautore romano, le contemporanea Storia italiana. Capitolo per capitolo si svolgono, come uno specchio nello specchio, le vicende del belpaese e quelle dell’ottimo Francesco, e, quasi sempre, è lasciata al solo lettore, con una grande sapienza di scrittura che non sconfina mai nella forzatura, la sintesi fra le due cose.

Ovviamente l’autore non tace le proprie opinioni, anzi battute taglienti e giudizi critici, anche molto severi, costellano ogni passaggio, ma, fatta salva la passione (lo dico nel senso più alto del termine) per il cantautore e l’amarezza per gli anni di passione (detta in tutt’altro senso) dell’Italia, il libro si presenta come un’opera di insolita onestà intellettuale. De Regibus è riuscito nell’alchimistico disegno di tenere in perfetto equilibrio, sul filo di quasi duecentocinquanta pagine, Storia D’Italia dal dopoguerra a oggi, vita artistica e opinioni del signor De Gregori Francesco e proprio personale giudizio critico sull’una e sull’altro. Non è affatto poco…anzi si può dire che, dopo questa pubblicazione, esista oggi in Italia uno strumento critico come non ne esistono altri per la quasi totalità dei cantautori italiani.

 

 

Teatro Uomo, Milano 1975, concerto per A Rivista Anarchica, Paola Nicolazzi, Francesco De Gregori, Giorgio Gaber e Roberto Ruberti eseguono "Addio Lugano Bella".  http://bfsopac.org/cgi-bin/koha/opac-detail.pl?biblionumber=27423&shelfbrowse_itemnumber=31313

Per quel che mi riguarda, la lettura di questo volume è servita da stimolo per ripensare tutte le mie opinioni in merito a questo grande artista. Nella mia infinita immodestia provo ad infliggervene alcune.

Ho avuto uno storia difficile con Francesco De Gregori.

Quando cominciai a interessarmi di cantautori, lui era senza dubbio, saldamente e da anni, un punto di riferimento, una stella polare. Lo era soprattutto dal punto di vista della costruzione di un linguaggio personalissimo e riconoscibile, il suo linguaggio, quello che, con un’enorme dose di sciatteria critica e malafede, era stato impropriamente definito, sin dalle origini, ermetico.

Apriamo una parentesi. Come tutti le lingue poetiche anche quella elaborata da De Gregori è uno strumento fatto di un connubio di significato e musicalità, di termini tratti dal dire comune e da parole di un proprio lessico familiare, perfettamente chiare all’apparenza, ma in realtà cabalistiche porte aperte verso il di dentro; un linguaggio poetico è sempre la mappa di un tesoro, con segnali disseminati e ricorrenti (pensate, appunto nel nostro caso, quante volte nelle canzoni di De Gregori ricorra la parola “fantasia”); il tesoro però non è mai la mappa in sé, il tesoro è per definizione altrove, l’arte può dare delle indicazioni, ma il tesoro non è né dell’artista né del pubblico: il tesoro è di tutti. Fine della parentesi.

Il linguaggio/strumento di De Gregori, come tutti gli strumenti, si prestò ad infinite strumentalizzazioni (lo dice appunto la parola!) da parte degli epigoni, che egli ha avuto in numero decisamente impressionante fra la fine degli anni 70 e tutti gli ’80 (oggi siamo, e da un bel po’, nell’epoca della derivazione incrociata da Conte/Waits… se non addirittura dei loro figli dei figli). Le colpe dei padri non ricadono sulla prole, può darsi, ma spesso avviene il contrario… sicché io quindicenne storcevo il naso davanti a tutti i degregoriani e, di converso, un po’ anche davanti a De Gregori stesso… la bellezza struggente di molti suoi pezzi (Santa Lucia, Titanic, Bufalo Bill, ecc…) ovviamente mi toccava nel profondo da sempre, ma non lo confessavo nemmeno a me stesso, e anzi mi andavo ripetendo che l’incomprensibilità di alcune metafore serviva solo da paravento alla vuotezza sostanziale…mi sarei reso conto che tutto questo erano vecchie storie, banalità e puttanate, ma lo pensavo e lo confesso!

Furono proprio le riserve espresse da molti amici sui dischi più recenti, diciamo dopo “Scacchi e tarocchi”, a convincere il mio spirito bastiancontrario al riesame di questo personalissimo caso. La scoperta fu luminosa: De Gregori parlava chiarissimo, tagliente come un bisturi nella carne della malafede sociale. Finita l’epoca dell’impegno iper-esteriorizzato, da cui lui si era ben guardato, ecco che, nella decadenza generale delle coscienze, il cantautore diceva fuori dai denti di “sangue su sangue” nelle scatole nere di Ustica, di vecchie uova di serpente appena dischiuse, del suo stare dalla parte di “chi ruba nei supermercati” piuttosto che da quella di “chi li ha costruiti…rubando”, di ragazze slave “venute allo sprofondo”, fino ai recenti impagabili versi che aprono il disco “Amore nel pomeriggio”: “La musica etnica/la contaminazione/l’ultimo rifugio dei vigliacchi la comunicazione”. Pochi hanno oggi il coraggio di prendersela così frontalmente, non solo con i responsabili dello sfascio presente, ma anche con le pessime idee guida di questo tempo miserabile.

La personale rielaborazione della protest-song che De Gregori propone nei suoi dischi più recenti sortisce in effetti uno dei pochi casi in cui una canzone concepita con espliciti intenti di critica sociale (se non di lotta) riesca ad essere sottilmente inquietante piuttosto che consolatoria, a seminare dubbi e indignazione piuttosto che ad accarezzare con certezze date per scontate un pubblico già acquisito ai propri ideali.

Per meglio servire questi testi aspri, De Gregori ha fatto subire nel frattempo alla sua musica un’evoluzione che tira decisamente al Rock, senza però rinunciare del tutto a quell’interessante e giocoso alternarsi di accordi che nei suoi primi dischi riusciva a costituire un mondo sonoro orecchiabile e inatteso al tempo; la strumentazione dei suoi arrangiamenti, come dei suoi concerti, si è fatta via, via più elettrica, forse ad evitare che l’abuso del proprio talento melodico, che dalla “donna cannone” alla bellissima “valigia dell’attore”, è indiscutibile, renda sdolcinato il suo repertorio.

Salutari frustate, insomma, quelle che è si propone di somministrare questo “cantautore che piace alle ragazzine”.

Due parole la merita anche la gestione del proprio personaggio pubblico che a me pare particolarmente degna di stima: De Gregori è quanto in Italia, fra i cantautori storici, più si avvicini al mito della Rock-star, con stuoli di fans che lo fanno oggetto di un culto personale; con grande coerenza però egli non si presta a nessuna piaggeria, né gioca il facile gioco dell’antidivo, e persegue la carriera di un grande professionista dei palchi, continuamente in concerto, ovviamente fra alti e bassi, e proprio per questo eternamente esposto alla critica come all’apprezzamento di chi lo va ad ascoltare, senza mai però dover leccare il culo a nessuno, e per nessuno intendo esplicitamente giornalisti, pubblico e potentati televisivi.

Badateci, oggi tutti i concerti vengono presentati come l’evento per antonomasia…lui, che fu uno dei protagonisti del primo evento musicale italiano (la tournèe, in coppia con Lucio Dalla, “Banana Republic”) oggi tira dritto e continua a proporsi come un onesto lavoratore dello spettacolo.

La voglia di documentare questo lungo correre su e giù per i palchi, con la pubblicazione di molti dischi dal vivo, ha però ancora una volta attirato aspre critiche al nostro: secondo i suoi detrattori il suo sarebbe un comodo modo di essere eternamente presente sul mercato, anche nei periodi di crisi d’ispirazione. Per quanto mi riguarda trovo invece interessante questo continuo ritornare sulle proprie opere, questa concentrica rielaborazione interpretativa, che denota la filiazione da Dylan, nel senso della profonda comprensione della radice popolare che sta alla base del miglior rock, e che vuole che la musica non esista come opera definita una volta per tutte, ma piuttosto come materia viva in continuo movimento; in questo senso anzi è De Gregori stesso a confessarci che tali operazioni sono come fotografie di un soggetto eternamente in fuga, documenti che possono tentare di riprodurre la vita, senza essere vita essi stessi e proprio perciò necessitano di una continua messa a fuoco.

Quello che emerge dal libro di Deregibus (“Quello che non so, lo so cantare”, ed. Giunti, € 12,50) è insomma questo stesso De Gregori di cui stiamo parlando: un artista complesso, con una traiettoria di non facile identificazione e che trovò sin da subito nobili detrattori, si pensi solo al famoso articolo di Giaime Pintor che stroncava senza appello proprio il disco dell’esplosione del fenomeno De Gregori “Rimmel”.

Un artista fra i più rivoluzionari sul piano linguistico, capace di influenzare, già nei primi anni di carriera, non solo gli epigoni ma finanche i suoi stessi “maestri”: come non ricordare che persino Fabrizio De André lo coinvolse nella scrittura a quattro mani di un intero disco, il volume VIII, che, pur non essendo uno dei suoi più belli, resta cruciale nell’evoluzione della scrittura deandreiana?

Un artista caparbiamente impegnato a rendere note le proprie idee senza usarle, ma anche senza farsi usare in loro nome.

Un artista infine degno di analisi attente come appunto quella che propone questo libro, che sarà gradito da tutti gli ammiratori del cantautore, ma che, proprio perché non lesina spunti critici – fin eccessivi – nei confronti della sua opera (ad esempio io non condivido la tiepidità di giudizio sullo stupendo disco “Terra di nessuno”, e in particolare sulla canzone “Pane e castagne” che a me pare un vero capolavoro), è assai godibile da chiunque ne sia anche solo interessato, e, perché no, anche da chi, pur ammirandone qualche canzone, provi una viva antipatia per lui e le sue idee…

Idee che, come abbiamo detto, De Gregori non nasconde, e che sono anche molto distanti da quelle della maggior parte dei lettori di questo giornale (nonché dalle mie), ma che non gli impedirono di dare nel 1975 al Teatro Uomo di Milano un famoso concerto di sostegno proprio alla “Rivista anarchica”, dividendo il palco con la nostra cara compagna Paola Nicolazzi.

E anche queste cose gli anarchici non le dimenticano.

http://www.arivista.org/riviste/Arivista/298/40.htm

 

 

 

 

 

 

Non credo sia giusto parlare di una canzone come "Pezzi di vetro" di Francesco De Gregori. Non è giusto perché tutto ciò che si può fare con "Pezzi di vetro" è ascoltarla.

Ascoltarla, ascoltarla e ascoltarla fino a restarne storditi, inebriati. La sua melodia è saltellante, come il ragazzo di cui parla, che salta e salta sotto l’angolo retto di una stella. E sentirne le parole equivale a vivere un innamoramento, o a rivivere tutti in una volta i migliori amori passati. C’è, in "Pezzi di vetro", tutto quello che c’è nell’innamoramento: i minuscoli, impercettibili momenti che, messi uno sopra l’altro, fanno nascere l’amore; i magici gesti, invisibili per tutti gli altri occhi, che la persona di cui ci siamo innamorati ha compiuto, senza saperlo, per farci innamorare; l’idea, giusta, che il mondo non possa offrire nulla di più e di meglio che il sorriso del nostro amore; la sensazione, anzi la certezza che il nostro amore è un amore diverso, speciale, migliore, invincibile, eterno, anche nei suoi dolori. In "Pezzi di vetro" c’è tutto quello che c’è nell’amore: dalla santità al sesso, da una capanna in cui vivere e sognare in due a dei vent’anni che resteranno sempre vent’anni anche quando saranno molti di più.

Ecco, innamorarsi non è altro che questo, in fondo: entrare in un mondo nuovo costruito da noi che, appena creato, ha un odore intenso e freschissimo che noi speriamo, già amaramente presentendo che non sarà così, possa durare in eterno. Di solito l’odore si affievolisce con il tempo, o forse siamo noi che non riusciamo più a coglierne la pungente dolcezza perché troppo abituati a conviverci; altre volte sparisce all’improvviso e non torna più; altre ancora si allontana per un po’, magari anche per anni, e poi ritorna a farsi sentire più forte di prima. Quelli fatti d’amore sono però mondi puri e fragili, mondi di vetro, e si rompono con grande facilità. Ma è proprio per questo che sono i più belli e i più preziosi. E i più taglienti, in grado di lasciare cicatrici che non si rimarginano mai del tutto. Ma si può spiegare, alla fin fine, che cosa sia davvero l’amore? No, non si può. Si può provare al massimo a descriverlo, come ho fatto io finora. De Gregori, però, ha scritto "Pezzi di vetro". E "Pezzi di vetro", l’ho già detto, equivale a un innamoramento. Ecco perché credo che non sia giusto parlarne e sia necessario ascoltarla. Meglio ascoltarla se si è innamorati. E anche se si ama senza essere corrisposti, meglio così che non amando affatto. Se poi innamorati non lo si è proprio, ascoltare "Pezzi di vetro" può essere una medicina meravigliosa, perché ascoltandola ci si innamora di lei, della canzone. O, al limite di Francesco De Gregori.

Di sicuro, "Pezzi di vetro" mette addosso una feroce voglia d’amore. Giuseppe Pollicelli

 

 

 

Da Rockol.it - Francesco De Gregori - RIMMEL - BMG Ricordi

 

Francesco de Gregori ha 24 anni quando la sua carriera prende una piega tutto sommato inaspettata, tanto che da allora l’epopea degregoriana suole essere divisa in a.R. e d.R., “avanti Rimmel” e “dopo Rimmel”: il brutto anatroccolo arrivato ultimo al “Disco per l’estate” 1973 con “Alice” si è trasformato nel cigno in grado di sfornare un ellepi col botto.

Nel ’75 De Gregori è al terzo album, quarto se consideriamo il disco d’esordio “Theorius Campus”, inciso insieme - una facciata a testa - ad Antonello Venditti, e ha già collaborato con Fabrizio De André per il “Vol. 8” del cantautore genovese (al quale ha portato in dote l’amore per Dylan, testimoniato dalla versione italiana di “Desolation row”, “Via della povertà”). È però ancora un artista di nicchia, una nicchia oltretutto di sinistra, che all’epoca non significa propriamente un lasciapassare per il successo di massa.

Ma “Rimmel”…“Rimmel” è speciale: speciale nel mettere tutti d’accordo, destri e sinistri, impegnati e non so, tanto che alla fine dell’anno l’album risulterà il secondo più venduto dopo (ahinoi) “Profondo rosso” dei Goblin; speciale nel suscitare prese di posizione anche sorprendenti. Così, se l’integerrimo giornalista Giaime Pintor scrive di “banalità musicale da canzonetta anni Sessanta impreziosita da alcuni arrangiamenti barocchi con un occhio al rock morbido della quarta generazione inglese” (prendere il fiato) e testi tanto ermetici “che le sue parole non si aprono a nessuna interpretazione”, la non ancora compagna di strada (e, inaspettatamente, di classifica) Giovanna Marini sarà di tutt’altro parere: “Ha dei testi molto difficili, non mi stupisce che all’epoca in cui è uscito nessuno ci capisse niente. Ma lui non faceva calcoli, lui diceva quello che doveva dire. Aveva bisogno di raccontarti la sua anima per salvarla. C’era moltissima libertà nei testi e anche nella musica".

Libertà in tutti i sensi, se è vero - com’è vero, e l’ha ammesso De Gregori in persona - che la tanto celebrata “Buonanotte fiorellino” è quasi una cover della dylaniana “Winterlude” da “New morning” (e pensare che Francesco si sarebbe incazzato come una iena molti anni dopo solo perché Gianni Morandi aveva osato inserire un frammento del walzerino in un medley). Ma i richiami all’immenso Bob non sono solo quelli ai limiti del plagio: certi impasti sonori di pianoforte e organo (fin dalla title track) ricordano per esempio il Dylan della “scandalosa” svolta elettrica. Niente di male, comunque: a ognuno i suoi maestri, e soprattutto l’importante è imparare la lezione e metterla a frutto. Cosa che Francesco fa alla perfezione, tanto che un brano come “Pablo”, le cui note pure sono state scritte dal futuro partner di oceaniche adunate Lucio Dalla (la sua voce fa capolino in “Quattro cani”), è una canzone degregoriana per eccellenza, musicalmente evoluta e puntuale nell’introdurre temi sociali (immigrazione, morti sul lavoro) in un album a discreto tasso sentimentale (ma certo “amore” e “cuore” non abitano qui).

Da questo punto di vista, però, il capolavoro è “Le storie di ieri”, bellissima inconsueta introduzione di contrabbasso e strepitoso assolo conclusivo del troppo presto dimenticato sassofonista Mario Schiano: per la levità (attenzione: non leggerezza) con cui parla del fascismo, meriterebbe a pieno titolo di essere inserita nelle antologie scolastiche. Un’autentica “canzone popolare”, di quelle - parafrasando Fossati - che bisogna alzarsi quando passano e che sarebbe potuta tranquillamente entrare nel “Fischio del vapore”, tra “Sacco e Vanzetti” e “Saluteremo il signor padrone”.

Il resto… il resto è ancora storia, e allora - non prima d’aver omaggiato la sublime “Pezzi di vetro” - proviamo a rendere un po’ meno ermetici certi testi: per più d’uno saranno sorprese. Il signor Hood “con due pistole caricate a salve ed un canestro di parole” non è certo Mimmo Locasciulli, come ha buttato lì qualcuno, bensì Marco Pannella, al quale il brano è dedicato fin dal titolo, sia pure prendendone rispettosamente le distanze (“a M. con autonomia”); i “Quattro cani” dovrebbero essere lo stesso de Gregori (il cane da guerra che “nella bocca ossi non ha e nemmeno violenza”), l’amico-nemico Antonello Venditti (il bastardo “che conosce la fame e la tranquillità”), la divina Patty Pravo (la cagna che “quasi sempre si nega, qualche volta si dà”) e il musicista, arrangiatore e produttore Italo “Lilli” Greco, il padrone che “non sa dove andare, comunque ci va, va dietro ai fratelli e si fida”.

Resterebbe il pianista di “Piano bar”: se davvero è Venditti, la cattiveria di Francesco non ha niente da invidiare a quella di John Lennon quando dà del dormiglione a Paul McCartney in "How do you sleep?". Un “uomo di poca malinconia” che “nella punta delle dita” ha “poco jazz” e “vende a tutti quel che fa”, “solo un pianista di piano bar” che suonerà e canterà “fin che lo vuoi sentire”. Licenze (o licenziosità?) poetiche comunque non in grado di intaccare il valore di un disco tra i più belli di Francesco. A proposito: a quando un album come “Rimmel”? (Ivano Rebustini) (26 Gen 2003)

 

 

ALICE NON ABITA PIU’ QUI

Rimini, Hotel Belle Vue. Categoria: lusso. Una stanza doppia, tutto escluso, lire 38000 a notte. Nel registro dell’hotel, accolto ai molti comm.(commendatore) ci sono i loro nomi, De Gregori comp. Francesco, Venditti comp. Antonello. Comp. Sta per compagno.

Nella grande hall bevono e giocano a carte, progettando di tornare insieme per una tournée.

Mi vengono in mente le centinaia di facce che hanno da poco terminato di applaudire i loro concerti, Qualcuno ha reclamato a Venditti “Bandiera rossa” e “L’internazionale”. Se potessero, lo dipingerebbero di rosso dai capelli alla punta delle scarpe, e gli metterebbero in testa una falce e un martello, come il bambino con la luna e le stelle della canzone di Cat Stevens. Chiedo ad Antonello cosa risponderebbe se quei ragazzi fossero ancora intorno a lui.

“Credi che non gliel’abbia mai spiegato? Ci ho provato anche se non riesco a convincerli. Io non sono di quelli che nascondono la macchina di lusso e tirano fuori il sacco a pelo quando è il caso. Mi piace lo champagne e me lo posso permettere. E poi dati gli orari degli artisti, abbiamo bisogno di un posto dove si possa cenare anche alle quattro di notte. Guarda che il marxismo è una cosa, il francescanesimo un’altra--continua Venditti – Berlinguer va forse in giro con le toppe al culo? E Bob Dylan? Allora tutto sarebbe una contraddizione. Meglio un compagno ricco che un fascista povero.”

Ma forse…

”Servo alla mia causa in altro modo” ribatte immediatamente Antonello- “chiedendo compensi a prezzo politico ai festival dell’Unità. E facendo propaganda alla fede con le canzoni. Non pretendo, anzi non voglio, che una generazione di giovani si identifichi in me. Io sono un artista e faccio il mio discorso. Non si cambia il mondo con qualche canzone. E poi, chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

E’ la confessione di un freakkettone cioè di un “cantautore impegnato”, secondo la definizione di De Gregori? Francesco condivide in linea di massima questo atteggiamento. La differenza è che De Gregori di pietre ne scaglia parecchie. E cerca di farsi nemica la stampa per passare da eroe. “E’ stata una mossa pubblicitaria” gli ribatte Antonello. E non ha assunto lo stesso atteggiamento, aggiungo io, nei confronti della radio, mezzo promozionale notoriamente più potente della stampa.

Abbiamo un breve scambio di idee con Francesco. “Fare il giornalista è una cosa seria. Significa possedere un’arma potentissima. Ricorda che c’è chi è morto con la penna in mano” pontifica De Gregori. Io resto stordito, senza controbattere. Penso che qualcuno, forse, è morto anche con una chitarra in mano. E lo guardo sbigottito mentre gioca a poker e beve champagne all’Hotel Belle Vue di Rimini, categoria lusso, una stanza tutto escluso lire 38000 a notte, mentre cala il sipario. Ma tutto questo Alice non lo sa.  - Enzo Caffarelli

 

  

 

 

 

 

Mi metto in tasca una piccola mela, 

mi metto in tasca una piccola mela.

Ti legassero in piazza con chiodi e catene  

se davvero non sei sincera.

La figlia del dottore è una maestrina,

 la figlia del dottore è una maestrina. 

E conosce a memoria tutti i libri di Omero,

 li ripassa tre volte la mattina.

Mi metto in tasca un piccolo fiore,  

mi metto in tasca un piccolo fiore.

Ti legassero stretta alla quercia più vecchia, 

se davvero non vuoi il mio cuore.

La figlia del dottore sa cantare,  

la figlia del dottore sa cantare.

E mi piace poi tanto quel suo modo di fare, 

 forse un giorno faremo l'amore.

  

 

 

 

 

 

HANNO AMMAZZATO FRANCESCO, FRANCESCO E' VIVO!


Nuovo Sound del 7.11.1975 - di Franco Schipani

Quella di Francesco De Gregori è una strana posizione. Per i settimanali della cronaca rosa è diventato un bello da copertina, ai Festival dell'Unità lo chiamano compagno, come sempre, altri ancora lo hanno definito assiduo bevitore di charnpagne e noto frequentatore dei tavoli da poker.
C'è un po' di tutto insomma, tutto meno la sua arte.
De Gregori è diventato a sua insaputa un personaggio", un argomento che aumenta le tirature dei giornali e le presenze ai concerti, nessuno ha interesse a chiarire questa storia perchè è una situazione che fa comodo a tutti.
Le quattordicenni dal fotoromanzo facile vedono in lui un nuovo prototipo di principe azzurro, l'eroe stanco che ha vinto con i suoi versi il duello della propria credibilità, un semidio diventato uomo pronto ad accettare quell'istinto materno che una generazione intera di sognanti teen agers gli offre a larghe mani.
I promotori della giusta e inevitabile lotta di classe vedono in lui il compagno realizzato, il fratello dell'idea, quello che è arrivato. Per i più distratti e quelli in malafede è un noto alcoolizzato da champagne che continua a lasciare ingenti capitali sui tavoli da poker, dondolandosi tranquillamente in qualche saletta appartata di alberghi categoria lusso.
A tutto ciò corrisponde una innata coerenza artistica e professionale dello stesso De Gregori, un comportamento che lo ha portato ad ottenere grossi successi di pubblico e di critica, una ventata di aria fresca e di originalità che ha fatto fare un deciso passo in avanti a tutto il nostro ambiente musicale.
Non ha mai concesso interviste ai giornaletti delle massaie rifiutandosi anche di farsi fotografare, limita le apparizioni in manifestazioni politiche perchè teme di essere strumentalizzato (altri invece continuano a non perdersene una e poi cadono in crisi!), è in rotta con parte della stampa specializzata per motivi di ricatto promozionale e si adopera in lunghi tour de force per andare a suonare dove il suo pubblico lo vuole.
I suoi sforzi sono stati premiati, la sua correttezza ha avuto un giusto riconoscimento.
Checchè ne dicano giornali e giornaletti, compagni e non, con Francesco Gregori siamo arrivati ad una scelta qualitativamente valida a una reale alternativa di mercato che ha deciso una svolta.
Quando questa estate vendeva il Baglioni di "Sabato pomeriggio" e il Modugno di "Piange il telefono", De Gregori con il suo "Rimmel" reggeva nella impari lotta con i volponi del motivetto souvenir, unico fra tutti i reduci della passata stagione discografica.
Il suo pubblico ha retto come la qualità della sua produzione.
In questa intervista esclusiva cerchiamo di fare con il cantautore romano il punto della situazione.
N.S. - Il tuo "RimmeL' sta andando veramente forte e da molte settimane resiste nei primi posti delle classifiche. Generalmente quello che decide il successo di un LP è un pubblico eterogeneo, vecchi e giovani, operai e borghesi, studenti e massaie per esempio; come spieghi che tutta questa gente, di varia estrazione sociale, età e background culturale, abbia potuto comprendere e valorizzare dei testi cosi ermetici, difficili e a volte astratti come quelli che tu canti?
F.D.G. - Non credo che i miei testi siano difficili come tu dici, penso invece che siano comprensibili e alla portata di tutti, massaie e bambini inclusi. Non credo nella incomprensibilità dei miei testì. Anche i testi dei Beatles erano incomprensibili eppure piacevano: un certo tipo di surrealismo non è difficile, anzl.. Una volta ho ascoltato una canzone degli "Alunni del sole", quella era una canzone incomprensibile!

 N.S. - Qualche anno fa era molto di moda leggere le poesie di J.Prevert come oggi quelle di P.Neruda. Non pensi di aver seguito la stessa sorte, di essere diventato "di moda", il poeta del sistema insomma?
F.D.G. - C'è questa tendenza, da parte del sistema, di assunzione di determinati poeti che sono tuttavia al di sopra di ogni sospetto, è innegabile. Questo fenomeno non è però nè voluto nè facilitato da parte dei protagonisti in questione: anche a me succede la stessa cosa.
E' una situazione che il potere avrà sempre in mano come ha in mano i mezzi di comunicazione come la Rai TV, anche io vengo inglobato e distribuito con il mio "prodotto".
N.S. - Credi che possa esistere un movimento artistico, autogestito da parte di chi produce "canzoni d'autore", alternativo come discorso anche di mercato rispetto a condizionamenti di questo tipo? Una delle proposte portate avanti nell'ultimo "Congresso della Canzone d'Autore" di Sanremo, insomma.

 

 

 

 


F.D.G. - Credo nelle buone intenzioni, nella buona fede di chi ha organizzato questo congresso di Sanremo, ma non credo che sia sostanzialmente una cosa positiva: queste discussioni, i convegni, le riunioni ecc. ecc. Non credo giusto fare queste cose adesso, momento in cui questo tipo di canzone è promossa proprio da questi mezzi di diffusione. Una cosa di questo genere doveva essere fatta un decennio fa, sarebbe stato più giusto. Oggi vuol dire intellettualizzare a tutti i costi, ci vogliono far diventare dei professori, è più importante scrivere delle canzoni che parlarci sopra.
 N.S. - Ma allora è vero che tendi a isolarti, a estraniarti da queste iniziative o il tuo discorso può avere matrici comuni con quello di Venditti, Lolli o Guccini che partecipano a questi dibattiti?
 F.D.G. - Quando incontro Venditti o Guccini mi trovo bene con loro perchè so di che parlare e ci trovíamo abbastanza d'accordo su molte cose. Scrivere una canzone è una cosa diversa, è un fatto abbastanza interiore. Non mi sembra di essere però eccessivamente isolato come tu dici, ho scritto delle canzoni con Dalla, De Andrè. Non mi piace chiudermi in una stanza e dire "io sono qui e gli altri sono fuori".
N.S. - "Rimmel", musicalmente parlando, non dice niente di nuovo rispetto al precedente album. Anche i testi sono identici per forma e ispirazione: come spieghi questo vasto consenso di pubblico, ora? Perchè non prima?
F.D.G. - Trovo che la gente sia più aperta, ora, più disponibile. Il pubblico si è portato ad un livello discolto un tantino più alto: se "Rimmel" fosse uscito l'altro anno e "Francesco De Gregori" oggi, avrebbe venduto quest'ultimo. In questo momento stanno vendendo tutti i miei dischi il che vuol dire che la gente accetta oggi quello che ieri non ha accettato. E' questo pubblico che oggi influenza gli organi di di diffusione perchè vuole ascoltare la mia musica, quella di Guccini e non vuole più Nazzaro. Se la radio vuole il suo alto indice di gradimento deve per forza trasmettere questo tipo di musica.
N.S. - Non pensi che potresti diventare tu il Nazzaro della situazione e restare indietro rispetto ad un certo tipo di discorso e di rapporto con il pubblico?
F.D.G. - Mi auguro che possa venir fuori un artista più underground di me, deve succedere altrimenti ci fermeremmo a De Gregori. Anche io fermerei su me stesso. Fortunatamente sento continuamente di evolvermi.
N.S. - Questa estate dove suonava De Gregori era tutto esaurito. E' il tuo pubblico che ti segue, hai bisogno di questo tipo di pubbIico già sensibilizzato per fare i concerti o potresti suonare anche per il pubblico di Marcella o Baglioni?
F.D.G. - lo credo di avere lo stesso pubblico di Baglioni, non è un pubblico che mi rifiuta in partenza. Mi trovo più a mio agio con il mio pubblico, è vero. ma riesco ugualmente a suonare per altri. Per i fascisti è impossibile ma per il pubblico di Baglioni è abbastanza accettabile, riesco lo stesso a farlo mio, a farmi capire. Il pubblico di Baglioni, che reputo un musicísta poco impegnato ma di buon livello, non è un pubblico di deficienti.
N.S. - E' molto di moda oggi essere un compagno, fenomeno che crea una certa confusione a livello politico... è di moda essere vestiti in un certo modo, adoperare certi vocaboli, ascoltare determinata musica. Non pensi di essere diventato un "personaggio"?
F.D.G. - C'è una tendenza a spostarsi a sinistra senza avere delle profonde convinzioni alle spalle, si diventa di sinistra perchè il compagno di banco è di sinistra. Credo che sia una cosa molto bella perchè a questo primo momento ne segue una profonda convinzione. Io sono comunista, non so dirti altro, lo sono da anni. Per quanto riguarda il discorso del personaggio non ho capito....
N.S. - La gente che viene ai tuoi concerti viene ad ascoltarti oppure a "vederti".
F.D.G. - Sì, c'è anche della gente che viene a vedermi. Il mito è una malattia difficile da guarire ma, mentre ieri andavano a "vedere" Morandi e ascoltavano "Fatti mandare dalla mamma", oggi vengono a vedere me e ascoltano "Pablo". Questo, tuttavia, è un fenomeno di scarse dimensioni per quanto mi riguarda. (Franco Schipani).

 

"E' un'esperienza reale e positiva ovunque, finchè mi si dà la possibilità di dire compiutamente le cose che sento". Cosa sente Francesco in questo momento e che c'è di diverso da quello conosciuto alcuni anni fa? Lui cerca sempre di non autodefinirsi, lascia che gli altri colgano le eventuali novità, comunque infine laconicamente dice: "Forse sono un po' nuovo, più moderno e meno decadente. C'è anche una diversità musicale rispetto alle prime esperienze, ma soprattutto una nuova impostazione nella stesura dei testi. Sto abbandonando un certo tipo di linguaggio intellettualistico ed… ermeticamente poetico, per cercare di essere più semplice e immediato". Francesco mi aveva invitato, precedentemente, in sala d'incisione, così mi son reso conto di come le sue canzoni prendano corpo. Gli arrangiamenti musicali sono i suoi, ma lascia spazio anche agli strumentisti; oltre agli accompagnatori di studio, sono intervenuti amici come Schiano (al sassofono) e Della Grotta (al basso). Due interventi jazzistici nel disco di De Gregori? "Principalmente si tratta dell'apporto di due amici che mi capiscono e poi l'originalità in questo tipo di musica è relativa ed i suggerimenti validi possono venire da molti lati differenti". Chiacchierando, cerco di stuzzicare Francesco con domande di vario genere, indagando sulle sue opinioni e valutazioni sui colleghi cantautori italiani e stranieri; lui cerca di non sbottonarsi, ritiene non si debbano far confronti e lascia al pubblico le decisioni e le scelte, comunque… "Cohen mi sembra un po' superato, mentre Dylan è ancora validissimo, nonostante tutto…! In Italia un grosso esempio da seguire è Lucio Dalla, che ha un'impostazione efficace ed attuale; c'è anche qualche giovane interessante, e poi alcune cose da risentire, buone ma passate". Avevamo iniziato con la scusa del suo nuovo disco che dovrebbe uscire a gennaio, e ne riparliamo adesso alla fine. "Non c'è niente da capire" è il titolo di una canzone di Francesco, ma è anche il modo con cui lui imposta se stesso: è tutto talmente semplice ed evidente, che solo chi non vuol capire ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Il titolo del nuovo LP sarà "RIMMEL". "Sì, come il trucco che usano le ragazze, quello per gli occhi…! Rimmel nel senso di trucco, di qualcosa di artefatto, ma questo disco è fatto per smascherarli, per metterli in evidenza. Almeno queste sono le intenzioni". Francesco De Gregori comunque va al di là e cerca di svelare i trucchi e le falsificazioni di qualsiasi tipo e livello: libero e aperto, si preoccupa principalmente di essere vero (anche se talvolta questo è scomodo) per fare in modo che le apparenze siano uguali alla realtà. Non è un censore, né un fustigatore di costumi, ma uno che sente quello che canta. Forse non è un personaggio sul quale costruire delle storie: è uno che, uscendo dal Folkstudio, ti prende sottobraccio e sorridendo insiste sul tasto dell' "intervista" … "Che cosa vuoi sapere della mia vita privata, t'interessa conoscere i miei amori…?". Logicamente parliamo di queste… ed altre cose, ma l'intervista ormai è terminata il "notes" in tasca non riesce a prendere certe confidenze e non è proprio il caso di creare "un personaggio" mentre ci dirigiamo a bere qualche bicchiere di vino; dopo la bevuta, certe cose si dimenticano..! Isio Saba (Nuovo Sound)

 

 

  

 

 

 

 

Il successo di Rimmel non sembrò comunque sconvolgere più di tanto il suo autore: "ogni settimana arrivava sul tavolo del direttore delle vendite il tabulato delle uscite e ogni settimana continuavano a salire ...
Finito l'album, ero molto soddisfatto del risultato ottenuto, ma a tutto pensavo meno di vendere tutti questi dischi. Ma non pensavo neanche di venderne pochi: della casa discografica, a parte, credo per merito di Ennio Melis, una distribuzione coraggiosamente massiccia. Non ricordo di aver visto nessuna pubblicità,
non ci pensavo e basta. Fu davvero sorprendente anche perché non ci fu un particolare sostegno da parte
dei giornali per promuovere Rimmel, allora nemmeno si usava. Mi chiesero di fare due, forse tre interviste, cosa che feci probabilmente molto volentieri. Forse andai un paio di volte in televisione. Grazie a Dio nessuno mi chiese di andare a Sanremo, a quei tempi non si usava, il Festival viveva un momento di profonda crisi. Mi resi conto del successo di Rimmel in un modo molto semplice: andavo in giro a fare serate, da solo, voce e chitarra. Avevo un impresario che si chiamava Libero Venturi, io prendevo il treno da Roma, scendevo a Bologna a mezzogiorno, lui mi veniva a prendere con una Fulvia coupè, mettevamo la chitarra dietro, c'entrava a malapena, e io e lui andavamo in giro. Partivo da Roma senza neanche sapere dove avrei suonato: da Bologna potevamo andare fino a Venezia o scendere giù ... non dico fino a Bari, ma sicuramente fino a Pescara. suonavo ai festival dell'Unità. Oppure d'estate nei locali della riviera adriatica.

Associo il successo di Rimmel ai locali della riviera adriatica, perché, dove l'anno prima o magari qualche mese prima venivano cento o duecento persone, che mi sembravano tantissime, l'estate di Rimmel improvvisamente arrivavano migliaia di persone.
Erano serate che funzionavano così: mettevano i dischi, la gente ballava, poi arrivava quella che veniva definita 'l'attrazione' - ci chiamavano così - che poteva essere Cocciante, De Gregori, Venditti, Renato Zero. L'attrazione suonava tre quarti d'ora, cinquanta minuti. allora quelli che erano venuti solo per ballare si ritiravano educatamente da una parte e non davano fastidio più di tanto, tolleravano questi tre quarti d'ora, mentre i fan, due o trecento persone, si mettevano seduti davanti alla pedana dove ci si esibiva. Quell'estate cambiò, nel senso che nei locali non c'era più quasi nessuno che veniva per ballare, ma per lo più la gente stava lì per ascoltare me".
La mia vita non cambiò più di tanto. Certo ero contento, ma era come se tutto quello che accadeva rientrasse nella normalità delle cose. Avevo avuto il successo senza averlo mai cercato, ero tranquillo con me stesso, non dovevo dimostrare niente a nessuno. Anche il fatto di guadagnare dei soldi mi faceva piacere, ma sentivo che non avrebbe cambiato il mio modo di guardare il mondo.
Credo che nemmeno allora decisi che fare dischi sarebbe stato il mio mestiere. Avevo appena compiuto 24 anni, perché mettere le briglie alla fantasia?".
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

Il signor Hood era un galantuomo, sempre ispirato dal sole,

con due pistole caricate a salve e un canestro di parole, 

con due pistole caricate a salve e un canestro pieno di parole.

E che fosse un bandito  negare non si può, però non era il solo,

e che fosse un bandito negare non si può.

E sulla strada di Pescara venne assalito dai parenti ingordi

 e scaricò le sue pistole in aria e regalò le sue parole ai sordi 

e scaricò le sue pistole in aria e regalò le sue  parole ai sordi.

E qualcuno ha pensato che forse è morto lì  però non era vero, ....  

   E qualcuno ha pensato che forse è morto lì

 

 

Mah, il Signor Hood come personaggio rompicoglioni, come personaggio "contro", è in realtà una parte di tutti noi. La versione degenerata del Signor Hood, la sua versione depravata, è probabilmente Sgarbi, ma ripeto, questa è la sua eccezione negativa. Sicuramente Pannella è un buon Signor Hood: in fondo, politicamente è un ingenuo che però è mosso da una grande onestà personale, che ama ancora incazzarsi e sbattere i pugni sul tavolo. Ma il Signor Hood è anche Paperino, è Busi, lo è stato Pasolini. È tutto ciò che non è Sgarbi: lui invece è il simbolo dell’uomo appiattito dal consenso, la sua incazzatura non è corrosiva, è il trionfo del protagonismo malinteso, esteriore, solo formale. E invece, mai come in questo momento, c’è bisogno di polemica vera, di uomini che si agitano. Ecco, il mio augurio è che il prossimo Signor Hood non sia uno, ma siamo tanti, che i cittadini si sostituiscano ai singoli e che si alzi un bel coro di voci discordanti. Che si calpestino nuove aiuole.

 

 

 

 

Commento RIMMEL - Jamonline    

 

Trastevere come il Greenwich Village. Il Folkstudio come il Gerde’s Folk City. Giancarlo Cesaroni, fondatore del Folkstudio, come Mike Porco, l’uomo che gestiva il club newyorkese e che diede più di una chance al giovane Bob Dylan. Francesco De Gregori come Bob Dylan, allora? Non proprio, naturalmente, ma è certo che il giovane cantautore romano muove i primi passi in un’atmosfera che ricorda quella in cui mosse i primi passi Dylan. E quanto De Gregori abbia assorbito, musicalmente e stilisticamente, dal cantautore americano è cosa nota ormai a tutti.Certo è che il Folkstudio, tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, era un luogo unico, in Italia (in cui, peraltro, come narrano le leggende, si sarebbe esibito, nel ‘62, un ancor sconosciuto Bob Dylan, di passaggio in Italia sulle tracce della fidanzata). Un piccolo e buio scantinato, dove si sarebbe allevata una generazione di cantautori destinata a cambiare le regole della canzone d’autore italiana nel corso degli anni Settanta, passati alla storia come «quelli della scuola romana».Fra i tanti, furono due i nomi che avrebbero lasciato il segno più profondo, quelli di Antonello Venditti e Francesco De Gregori. Che non a caso avevano esordito con un disco «in comproprietà», quel Theorius Campus uscito nel 1972. Dopo di questo disco le strade si erano divise: Venditti con la sua visione personale, maggiormente tendente al pop, De Gregori sempre più innamorato del songwriting di stampo nordamericano.Prima di Rimmel c’era stato l’acclamato Alice non lo sa (1973), che conteneva l’omonima title-track di grande successo commerciale, grazie anche a quel tema (allora) scabroso, quello di un matrimonio celebrato all’insegna della verginità perduta e di una non chiara paternità.Poi c’era stato il bellissimo disco che portava solo il suo nome e cognome, chiamato anche «il disco della pecora» per via del dipinto in copertina: un disco spartano, essenzialmente acustico. Un disco che conteneva una galleria di immagini desolate e allucinate, in perfetto stile dylaniano (ma non quello del menestrello di protesta, piuttosto quello del rocker anfetaminico e devastato di Blonde On Blonde) e anche alcune delle canzoni più belle mai composte dal musicista romano.Nello stesso periodo De Gregori è però invitato da un personaggio straordinario, Fabrizio De André, che gli chiede una mano per il suo nuovo disco. L’avventura con De Gregori non sembra funzionare in modo ottimale: il risultato è l’album Volume VIII, uno dei meno apprezzati del cantautore genovese, in cui è però evidente in molti brani l’impronta visionaria di De Gregori ma che soprattutto contiene una traduzione italiana di Desolation Row, dal songbook dylaniano, che diventa Via della povertà, un apprezzabilissimo lavoro di riadattamento interamente curato da De Gregori («È stata la prima canzone di Dylan che mi ha colpito, da ragazzino. Allora non c’erano ancora libri con le traduzioni dei suoi testi e passavo ore e ore a cercare di capirne il testo. In quel periodo avevo una necessità ’’biologica’’ di impratichirmi con certe regole tecniche per scrivere una canzone, quindi anche tradurre mi serviva»).De André sperava in un apporto maggiore per il suo disco, ma evidentemente De Gregori stava ancora maturando le splendide composizioni che di lì a poco sarebbero finite su Rimmel.Disco, Rimmel, che segna uno spartiacque deciso sulla scena cantautorale italiana del decennio, introducendo un nuovo linguaggio musicale e lirico che ne avrebbe segnato il cammino fino ai giorni nostri. Giustamente definito «il disco del perfetto cantautore» (per la produzione equilibrata e moderna; per  l’alto livello compositivo dei brani; per l’accompagnamento strumentale raffinato e squisito), Rimmel è veramente un manifesto della canzone d’autore italiana moderna. Quella, cioè, che ha saputo coniugare la nuova lezione giunta dai cantautori americani con la melodia classica di casa nostra, superando gli ormai stantii riferimenti alla canzone francese (come era invece accaduto per la generazione precedente) e allo stesso tempo la canzone dall’esclusivo contenuto politico come era maturata nella prima metà degli anni Settanta.Profondo conoscitore della canzone americana, non solo di quella dylaniana, De Gregori riesce a coniugare perfettamente i ritmi e le cadenze della musica d’oltreoceano con quelli mediterranei: James Taylor, Neil Young, John Prine (e Dylan, naturalmente; lo stesso De Gregori avrebbe dichiarato: «Ho il sospetto che tutto il mio album Rimmel sia stato influenzato dal suono dylaniano. Del resto come potrebbe un romanziere di oggi prescindere dalla lezione di Manzoni, Cervantes o Céline?»), ma anche Elton John che, ricordiamolo, fino alla prima metà degli anni Settanta era autore di una purissima canzone pop di matrice americana, convivono con la melodia italiana, e il risultato finale è, insieme a quanto sta facendo Venditti nello stesso periodo (vedi scheda di Lilly) la nascita di una figura cantautorale nuova e originale da cui si attingerà fino ai giorni nostri.A differenza dell’album precedente, in cui una cupa disperazione sembrava il tema fondamentale di gran parte delle canzoni, il De Gregori di Rimmel è più solare (o forse sarebbe meglio dire «innamorato»), anche se non rinuncia a un linguaggio obliquo, fatto di immagini metaforiche e visionarie che a molti critici lo faranno definire «ermetico» al limite della  comprensibilità. Giaime Pintor, in un numero di Linus del ‘75 scrive che De Gregori «è tanto ermetico che le sue parole non si aprono a nessuna interpretazione».La prerogativa di queste liriche è fondamentalmente lo spezzare l’unità narrativa del linguaggio (esattamente come faceva Dylan dieci anni prima) inserendo metafore di difficilissima interpretazione. Ancora oggi ci si chiede chi è il Signor Hood, o piuttosto chi sia Pablo.Un disco che, insieme al successivo Buffalo Bill, gli costerà la scomunica degli ambienti più integralisti della sinistra extra parlamentare del periodo, culminando nel famoso episodio del «processo» al Palalido di Milano, quando un gruppo di «compagni» salirà sul palco interrompendo l’esibizione del cantautore accusandolo di essersi venduto e di fare solo canzonette commerciali. Curioso, visto che Rimmel contiene forse la canzone più esplicitamente di indirizzo politico che De Gregori, almeno negli anni Settanta, abbia composto, e cioè Le storie di ieri, in cui i capi di governo dell’Italia del periodo vengono paragonati ai gerarchi di epoca mussoliniana. Tant’è: lo shock di quel «processo» sarebbe stato tale per De Gregori che si sarebbe ritirato dalle scene concertistiche per circa tre anni.«Non ho mai fatto la canzone ‘’con il dito puntato’’», avrebbe detto anni dopo a proposito della sua concezione di canzone politica, «anzi, è strano che l’abbia fatto Dylan che non è mai stato inquadrabile politicamente al contrario di me che invece quando mi chiedono per che partito voto non ho nessun problema a dirlo».Il disco comincia con il brano omonimo, dove sono evidenti i richiami a Bob Dylan, con quella scala ascendente di accordi che ricorda Like A Rolling Stone nonché l’uso di pianoforte e organo Hammond che svisano, proprio come nel celebre brano dylaniano.

 Canzone dalla melodia impeccabile, descrive i ricordi di una relazione sentimentale ormai terminata con immagini personalissime e delicatamente poetiche. Insieme a Pablo e a Buonanotte fiorellino è il brano che da sempre identifica il cantautore.Pezzi di vetro mostra la classe superiore del cantautore romano rispetto ai colleghi del periodo: il suono scintilante di una chitarra acustica in accordatura aperta e con un delizioso uso del fingerpicking, tutti accorgimenti mutuati dall’intelligente ascolto di tanti dischi di folk rock americano. «Sì», mi avrebbe detto De Gregori anni dopo, «è una canzone autobiografica che parla delle mie disavventure amorose giovanili». Ma certo non con il linguaggio della canzonetta sanremese…Il signor Hood, sottotitolata A M. con autonomia, per anni è stata identificata come una dedica a Marco Pannella (l’«M» del sottotitolo) e presenta un brillantissimo assolo di chitarra acustica al suo interno.Pablo, probabilmente il suo cavallo di battaglia concertistico che lui, molto dylanianamente, dal vivo si diverte sempre a stravolgere, vede Lucio Dalla accreditato come co-autore. In realtà il suo contributo è assai limitato, e cioè un consiglio sulla modulazione del ritornello, e in questo De Gregori mostra una riconoscenza sconosciuta nell’ambiente musicale. Lucio Dalla comunque appare alla voce nella complessa Quattro cani, l’unico brano che sembra un po’ fuori contesto da questo disco di puro crossover tra America e Italia. Pablo narra in modo sentito la storia di un emigrante spagnolo arrivato in Svizzera e che muore sul lavoro, un atto di accusa nei confronti delle cosiddette «morti bianche».«C’è una canzone, che tra l’altro mi è venuta benissimo, in cui ho coscientemente copiato la metrica e lo stile di un pezzo di Dylan, cioè Winterlude», dirà De Gregori nel 1984 in una intervista all’Unità. Si riferiva a Buonanotte fiorellino. Ma vale la pena sottolineare che se il brano di Dylan era penosamente «zuccheroso» e piuttosto anonimo e banale, il cantautore romano lo nobilita ripulendolo dagli orpelli che vi ha messo Dylan e confezionando un valzer di liricismo purissimo, dominato da una splendida performance vocale. Della voce di De Gregori si è sempre scritto poco, eppure è uno dei pochi cantautori italiani (insieme a Venditti) a saper «usare» la voce. Intanto perché ha una bella voce, ma, vedi le armonie vocali da lui stesso costruite ad esempio in Piccola mela, sempre con uno sguardo al di là del panorama della canzone italiana: la scuola è evidentemente quella californiana (leggasi CSN&Y o James Taylor).Le storie di ieri è un brano di grande poesia e nonostante qualche trovata umoristica, anche di grande significato sociale, in cui De Gregori riflette sulla generazione del padre, quella cresciuta ai tempi del fascismo (un tema a lui caro, basti vedere in tempi recenti Il cuoco di Salò) facendo paragoni sui rigurgiti di fascismo nella società a lui contemporanea.Piccola mela riprende la struttra semplicissima di Pezzi di vetro: chitarra acustica e voce, anzi voci strutturate con un raffinato uso corale come detto di scuola californiana.Il disco si chiude con l’ironico (e anche un po’ cinico) ritratto di un pianista di piano bar (alcune malelingue, ai tempi, sostenevano che questo brano era dedicato all’amico Venditti, accusato di essere già allora un po’ troppo commerciale, ma De Gregori ha sempre smentito), un brano che ricorda per la sua struttura certe cose di Elton John tipo Daniel.Nonostante ancora Pintor non fosse andato leggero recensendo Rimmel («Banalità musicale da canzonetta anni Sessanta impreziosita da alcuni arrangiamenti barocchi con un occhio al rock morbido della quarta generazione inglese, Elton John e i suoi fratelli (…) Su questo tessuto povero egli appoggia pensantemente testi in cui la metafora ermetica campeggia vittoriosa nei suoi vestiti più kitsch») il disco sarà baciato da un enorme successo commerciale (500mila copie vendute), successo che continua tutt’oggi.De Gregori aveva in un colpo solo spazzato via la scena musicale degli anni Settanta. Pur proveniendo da un ambiente politicamente impegnato, dimostrava di saper trascendere i confini ideologici del periodo per proporre al grande pubblico una serie di canzoni che, come sempre nel caso della musica migliore, non possono essere rinchiusi in alcun steccato.Lo squarcio di novità che De Gregori porta con Rimmel sulla scena musicale italiana è ben sintetizzato da Giovanna Marini (intervistata da Giorgio Lo Cascio in De Gregori, Franco Muzzio Editore): «Rimmel ha dei testi molto difficili, non mi stupisce che all’epoca in cui è uscito nessuno ci capisse niente. Ha avuto successo perché era il periodo in cui noi cantavamo ancora ‘’Cara moglie…’’. Ma lui non faceva calcoli, lui diceva quello che doveva dire. Aveva bisogno di raccontarti la sua anima per salvarla. C’era moltissima libertà nei testi e anche nella musica».Una libertà che, da allora, è rimasta sempre per la musica di De Gregori il bene e lo stimolo più prezioso. (PV)

 

 

DOLCE VENERE DI RIMMEL
Francesco De Gregori - Rimmel (Rca, 1975) - di Marco Novaro
A Roma c'è una cantina, il Folk Studio, luogo d'incontro verso la fine degli anni '60 di alcuni giovani autori con l'orecchio teso alla ballata americana (cioè a Dylan). Tra questi ci sono De Gregori, Venditti, Locasciulli, Gaetano, Lo Cascio, Zenobi, De Angelis. Nelle loro canzoni c'è una certa verve musicale, una tensione di ritmo che sono lontane dalla forma struggente dei genovesi, perché Genova preferisce guardare agli chansonnier francesi, all'esistenzialismo, ai mali dell'anima.
A Francesco De Gregori interessa soprattutto una cosa: cambiare il linguaggio della canzone. La sua visione è pittorica, da impressionista. Sa che la vita ha una casualità straordinaria e una molteplicità di fatti e visioni. Cézanne dipinse più volte il monte Sainte-Victoire perché sapeva benissimo di non trovarsi mai di fronte alla stessa montagna.
E De Gregori fa lo stesso; cerca di portare dentro i suoi versi le prospettive cangianti. Raccoglie la vita in linee essenziali, in movimenti che si percepiscono solo in controluce. Prende i piani diversi dell'esistenza e li accosta. O li mischia. E se la realtà è sfuggente, allora anche la parola che la descrive si fa oscura e inafferrabile. Ma intrigante.
Ogni canzone è una prosa imperturbabile in cui De Gregori bandisce i sentimentalismi e dà solo pochi tratti per spiegare il dolore. Non vi darà mai la sua stessa disperazione o l'immediatezza dell'addio, né il piagnisteo retorico su cui si reggeva la vecchia canzone all'italiana. E non spende parole che si usano comunemente per descrivere i fatti: De Gregori vuole uscire dallo stereotipo, non essere banale, incuriosire.
Prendete Pablo; in particolare l'ultimo verso, con quell'ossimoro potente e prodigioso: Hanno ammazzato Pablo, Pablo è vivo.
Può voler dire semplicemente che le idee sopravvivono agli uomini. Ma detto così vi costringe a compiere un'acrobazia oltre quella riga, a saltare un passaggio logico. Con la matematica non si potrebbe fare, ma con la letteratura sì. E in questo attimo sospeso a mezz'aria nasce il miracolo, la poesia.
Rimmel invece è una canzone di addio. Lei ha barato andandosene via. Non ha saputo stare alle regole del gioco e ha tradito l'amore: I tuoi quattro assi, bada bene di un colore solo, li puoi nascondere o giocare con chi vuoi, o farli rimanere buoni amici...come noi...
La chiusura poi è un capolavoro, con quell'ultimo inganno a cui De Gregori risponde con rassegnazione:
Tu mi domandavi se per caso avevo ancora quella foto, in cui tu sorridevi e non guardavi e il vento passava sul tuo collo di pelliccia e sulla tua persona, e quando io senza capire ho detto "si", hai detto "è tutto quel che hai di me", è tutto quel che ho di te...

 


Buonanotte fiorellino riequilibra le sorti sentimentali dell'album raccontando un minuto di felicità. De Gregori rivive il ricordo allegro di un ragazza - un'altra ragazza, è lecito supporre - e in questa sua euforia leggera coinvolge tutto quello che vede dentro e fuori alla stanza. Ogni cosa sembra partecipare a questa euforia leggera: il fiorellino, la monetina, il biglietto scaduto. Tutti oggetti che non appartengono alla tipologia classica della canzone d'amore, se tale vuole essere. E poi ci sono quei salti, imprevedibili come sempre e fuori da ogni norma semantica: il granturco nei campi è maturo ed ho tanto bisogno di te, buonanotte tra il telefono e il cielo…… tra le stelle e la stanza… tra i tuoi fiocchi di neve e le foglie di thé, buonanotte, questa notte è per te.
Per il dulcis in fundo ho pensato a Pezzi di vetro, una dolce allegoria lunga un racconto. Ancora due persone a scommettersi la vita, un uomo e una donna. Ma questa volta è lui a vincere perché sa saltare sui vetri e spezzare bottiglie senza farsi mai male. Vince sempre. L'unica cosa che può ferirlo è l'abbandono, la partenza della compagna appena incontrata.
Lui ti offre la sua ultima carta, il suo ultimo prezioso tentativo di stupire quando dice "è quattro giorni che ti amo, ti prego non andare via, non lasciarmi ferito". E non hai capito ancora come mai gli hai lasciato in un minuto tutto quel che hai, però stai bene dove stai.
Molte altre cose del mondo di De Gregori possono restare non risolte. Non c'è bisogno di svelare ogni mistero, ogni gioco, ogni metafora. Sapere se quel Pablo sia davvero il poeta a cui tutti pensano, o smascherare l'identità dei Quattro cani piuttosto che del Signor Hood sulla strada di Pescara, in fondo, non serve.

 

 

 

 

... poi ho perso il conto..

 

 

LE PRIME SERATE

 

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