La band, i tecnici, il Capo e come funziona tutta la carovana.

 

 

 

 

 

 

 

 

LA BAND

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GUIDO GUGLIELMINETTI

 

Inizia a suonare come bassista a fine anni sessanta nel Patrick Samson Set, il gruppo che accompagna il cantante di Soli si muore, in cui milita anche, in qualità di chitarrista, Umberto Tozzi, ed alla batteria Euro Cristiani.
A partire dal 1972 comincia la sua carriera di turnista per molti rinomati cantautori e interpreti della canzone italiana, tra i quali Lucio Battisti, Ivano Fossati, Umberto Tozzi, Mia Martini, Francesco De Gregori, Luigi Grechi, Giovanna Marini.
Nel 1974 entra a far parte del gruppo rock d'ispirazione americana Track (di cui fanno parte Dario Guidotti, Ricky Belloni e Paolo Siani) con cui incide un unico LP, Track rock, cantato in inglese.
Nel 1981 incide un 45 giri per la CGD.
Ha composto la musica per diverse canzoni come Un'emozione da poco (parole di Ivano Fossati) interpretata da Anna Oxa, La nave (Mina), Tivùcolor e Notte che verrà (Loredana Bertè), Anna e Un'altra donna per Carlos Cosmo (con i testi di entrambi i brani scritti da Valerio Liboni), Biancaluna" scritto con e per Gianmaria Testa.
Nel 1984 scrive brani italo-disco per Between the Sheets e Bagarre.
Nel 1991 si cimenta anche nella composizione di musica da film per La casa.
Tra le ultime produzioni ricordiamo gli LP di Francesco De Gregori da La valigia dell'attore a Calypsos e Buongiorno e buonasera e Passioni di Giovanna Marini.
Dal 1985 è il "capobanda" del gruppo che accompagna dal vivo Francesco De Gregori. Assieme ad alcuni di loro ha dato vita al progetto Block Alchimia autori dello spettacolo Luoghi d'affezione.

da Wikipedia

 

 

 

 

 

LUCIO BARDI -  E' figlio del pittore Mario Bardi e fratello dell'indimenticata cantante e attrice Donatella Bardi.
Inizia a suonare la chitarra come autodidatta ed agli inizi degli anni sessanta accompagna la sorella Donatella sia dal vivo che nel suo album da studio A puddara è un vulcano del 1975; in questo ambito conosce Alberto Camerini ed Eugenio Finardi, con i quali suona nel gruppo de Il Pacco.
Nel 1974 incontra Edoardo Bennato e inizia a collaborare nelle sue tournée e alle registrazioni dei suoi dischi dal 1975 al 1985. Inoltre collabora anche con altri artisti, come per la tournée di Roberto Vecchioni del 1976 e quella di Marcella Bella del 1988. Nel 1988 inizia la collaborazione con Francesco De Gregori, con il quale partecipa ai dischi e le tournée da quell’anno fino al 1993.
Dopo aver lavorato con molti altri artisti e gruppi musicali, nel 1989 fonda il proprio gruppo de I Gaucho e nel 1991 fonda, con la sorella Donatella Bardi e con Francesco Mazza, gli Ensemble.
Attualmente si dedica anche all'insegnamento della chitarra a Milano. da Wikipedia

 

qual è stata la tua formazione musicale e quali le esperienze formative che ti hanno portato a fare i musicisti professionisti? (domande di Andrea Carpi) - fonte: Bardi, Giovenchi & Valle – Le chitarre della De Gregori Band 

http://fingerpicking.net/bardi-giovenchi-valle-le-chitarre-della-de-gregori-band/

Lucio: Io ho avuto la fortuna che mia sorella, Donatella Bardi, iniziava a fare il mestiere di cantautrice. E appena ne ho avuto la possibilità, che ero abbastanza grandicello, mi ha coinvolto nelle sue attività, dai piccoli locali alle scuole occupate e ai grandi raduni giovanili come i festival di Re Nudo, nei primi anni ’70. La prima cosa importante che ho fatto con lei, con il gruppo de Il Pacco insieme ad Alberto Camerini ed Eugenio Finardi, è stata proprio nella sede di Re Nudo a Milano, dove ho conosciuto Luigi Grechi, che allora si presentava con il nome di Ludwig. Poi da lì, piano piano, sono stato chiamato a suonare nei primi dischi di Finardi e Camerini, e nel ’74 – durante un festival di Radio CTA a Catania – ho conosciuto Edoardo Bennato, che dopo poco tempo mi ha coinvolto prima in studio, poi in qualche concerto dal vivo in sostituzione di Roberto Ciotti, che stava cominciando a fare i suoi primi passi nella carriera solista; in quelle occasioni io quindi suonavo la chitarra slide. Con Bennato sono andato avanti a suonare fin verso l’85-86, e nel frattempo facevo anche altri lavori con musicisti del giro milanese e romano. Poi però lui ha continuato a chiamarmi periodicamente, per esempio nel ’90 per Edo rinnegato, un disco in quartetto acustico con Roberto Ciotti e Luciano Ninzatti, e nel ’92 per Il paese dei balocchi.

Comunque la mia formazione, all’inizio, è stata completamente da autodidatta. Ho cominciato a studiare musica da militare: ho fatto il militare nella fanfara dei bersaglieri e suonavo il basso tuba; così lì ho cominciato a leggere la musica, in chiave di basso. Poi, finito il militare, nell’81 mi sono iscritto a un corso privato del chitarrista classico Mauro Storti, con cui ho studiato per vari anni. In effetti mi è stato di grande utilità: tutta la tecnica, la mano sinistra, la serietà dello studio…

Come hai vissuto il passaggio dalla pratica da autodidatta alla disciplina dello studio?

È stato un po’ difficile. Io ero un po’ anarchico in tutto quello che facevo, quindi la disciplina non mi andava molto giù. Infatti non studiavo molto, avevo facilità e imparavo le cose al volo, a orecchio, ma il maestro se ne accorgeva! Comunque mi è stato utile…

E tu suonavi sia l’acustica che l’elettrica fin dall’inizio? Che musica ascoltavi?

All’inizio con mia sorella suonavamo una 12 corde Zerosette acustica, poi la mia prima chitarra personale è stata una Telecaster nel ’71. Ma il mio gusto, la mia passione, come per tutti quelli della nostra generazione, non sono stati formati tanto dalla musica acustica o dalla musica elettrica, dal folk o dal rock; perché tutto quello che arrivava era talmente ricco, talmente forte, da Dylan a Stephen Stills e Joni Mitchell, con quel modo di suonare l’acustica, oppure i Cream, Hendrix, Jeff Beck… c’era l’ira di Dio! Quindi tutti noi avevamo fame di tutto, volevamo imparare tutto, non è che ci fermavamo all’acustica o all’elettrica in particolare…

Io ti associavo di più all’acustica, e Donatella mi sembrava più legata al circuito folk…

Però anche lei aveva ricevuto in casa un’infarinatura musicale ad ampio raggio: mio padre [il pittore Mario Bardi] mentre dipingeva ascoltava jazz, musica classica, Mahalia Jackson oppure Edith Piaf, Brassens e tutti i francesi. E poi Donatella ascoltava di tutto, da Janis Joplin e Grace Slick dei Jefferson Airplane a Sandy Denny e al folk inglese, oppure alla musica popolare italiana.

Voi tutti quindi siete arrivati a suonare con Francesco De Gregori che eravate già dei professionisti ben formati. Come potete descrivere il modo in cui si svolge il lavoro con lui? È un lavoro da turnisti, o il lavoro di una band?

L.: Già nelle mie esperienze degli anni ’70, rispetto ai decenni successivi, il rapporto era di tipo più collaborativo, era più un discorso di band. Probabilmente era più diffuso questo modo di lavorare. Anche con Edoardo Bennato, soprattutto all’inizio, il rapporto era un po’ così; poi si trasformò, per esigenze di diverso tipo. Quando sono arrivato a conoscere Francesco De Gregori, era appena uscito Terra di nessuno e i rapporti nel suo gruppo erano un po’ difficili: c’era qualche attrito tra di loro, che poi venne superato. Quindi all’inizio rimasi un po’ perplesso. Però, devi sapere che io venivo da una tournée con Roberto Vecchioni, in cui lui faceva delle presentazioni delle canzoni che duravano quasi più delle stesse canzoni, per cui – in tre ore di concerto – noi musicisti eravamo spesso fermi… Invece, quando iniziai la tournée con Francesco, nell’88, mi accorsi che lui parlava pochissimo e questo era entusiasmante, mi piaceva tantissimo! Poi la musica che faceva era appassionante, i pezzi erano stupendi e i riferimenti stilistici erano molto più vicini al rock, al folk che avevo ascoltato. E Francesco amava le Martin e le Gibson, quelli strumenti lì, era uno che ci teneva tanto a quello che faceva, non delegava ad altri. Insomma mi sono appassionato a questo modo di vivere la band…

Come dicevi prima, il fatto di essere un collaboratore in senso lato più che un turnista faceva già parte della cultura degli anni ’70…

L.: Sì, però in Francesco molto di più, perché nessuno ci dice la parte che dobbiamo suonare, la parte da leggere: in qualche modo siamo noi che la scriviamo insieme, ci diamo dei consigli a vicenda.

P.: Nel tempo si è sviluppata sempre più una libertà di Francesco di intervenire sulla musica in modo totale. Ha avuto sempre meno il bisogno e il desiderio di affidarsi a qualcuno, ha avuto sempre più la possibilità di collaborare e interagire con i musicisti…

L.: Sì, possiamo dire che è assolutamente lui il produttore. Ci tiene talmente tanto, combatte per le sue idee. La figura del produttore viene a ridimensionarsi: c’è Guido Guglielminetti, il ‘capobanda’, che fa da coordinatore, aiuta Francesco magari nelle questioni tecniche, dà dei consigli; ma non è Fio Zanotti che arrangia il disco di Vecchioni…

Che spazio ha nel vostro lavoro rispetto alla chitarra elettrica? Come vi scambiate le parti tra l’una e l’altra?

L.: Anche se Paolo ama pure l’acustica e la suona da dio, anche se ha una grande cultura in materia, credo che sia naturalmente e caratterialmente più portato verso l’elettrica. E io invece il contrario…

Anche quando l’altro chitarrista era Vincenzo Mancuso era così…

L.: Sì, sì, forse un po’ per pigrizia, perché non sono mai ‘impazzito’ appresso ai pedali e ho sempre fatto una fatica incredibile a capire il processamento del suono; anche se ora sto cominciando a comprendere tante cose, grazie pure a Vincenzo e Paolo che mi hanno fatto da maestri: che fortuna ho avuto a lavorare sempre con grandi chitarristi elettrici! Ma, in ogni caso, c’è già una naturale divisione dei compiti. Poi credo che la chitarra acustica abbia nell’avventura di Francesco De Gregori un’importanza fondamentale. A parte alcune canzoni che nascono dal pianoforte, la stragrande maggioranza nascono con l’acustica… Poi in quasi tutti i pezzi c’è una particolare attenzione su quali corde usare, che chitarra, che modello, di quale anno; un’attenzione quasi maniacale… e meno male! Questo da parte dello stesso Francesco, seguito da Paolo che sa tutto, è un’enciclopedia vivente delle chitarre. E una simile attenzione mi appassiona da morire, perché imparo anche tante cose che non sapevo.

Inoltre non c’è questa vecchia orrenda tradizione della musica ‘leggera’ italiana, secondo cui sembra quasi che la chitarra acustica ci debba essere ma non si deve sentire…

L.: Muove tutto, ma non si deve sentire: questa è follia! Pensando a un appassionato di Grossman, di Stills, di Dylan stesso…

A questo punto, voi siete legati da anni al lavoro con De Gregori: come riuscite a far convivere questo impegno principale con eventuali altre esperienze parallele, se le portate avanti e se ne sentite l’esigenza?

L.: Tutti noi l’abbiamo comunque fatto, nonostante sia difficoltoso, perché quando l’artista con cui principalmente vogliamo lavorare decide che si parte, si parte e dobbiamo mollare tutto. Però, a dispetto di questo, un po’ per lavoro, un po’ per passione, un po’ perché è quasi l’unica cosa che sappiamo fare, quindi ci adoperiamo per altri progetti.

 E per quanto riguarda cose più personali?

L.: Sì, credo che ognuno di noi scriva delle cose. Come mi diceva Luigi Grechi una volta: «Anche a te capita di avere sempre musica nella testa? E da qualche parte la devi mettere questa musica, perché altrimenti ti riempe la testa!» Poi da tanti anni sto seguendo un progetto, molto lentamente: con Donatella suonavo con un gruppo, che poi è proseguito dopo la sua scomparsa e con il quale abbiamo registrato due dischi [Moti Shkon, 2005, e Arberìa, 2015] con Francesco Mazza, un cantante di madrelingua albanese. Il gruppo si chiama Ensemble, è un gruppo molto acustico, e questi dischi sono stati realizzati in lingua arbëreshe [la lingua parlata dalle minoranza etno-linguistiche albanesi d’Italia.] per conto della Regione Calabria, dove ci sono alcune comunità di origine albanese, in vista della salvaguardia della loro lingua.

 

 

 

 

 

PAOLO GIOVENCHI -  Chitarrista, che in più di 30 anni di attività, trascorsi in clubs, teatri, piazze, stadi nonché studi di registrazione, balere e qualche ristorante… (battutaccia!!!)…ha avuto il piacere di collaborare in studio e live con numerosi artisti italiani come: Gabriella Ferri, Goran Kuzminac, Claudio Lolli, Mimmo Locasciulli, Alessandro Haber, Andrea Bocelli, Michele Zarrillo, Luca Barbarossa, Luigi Grechi, Giovanna Marini e naturalmente Francesco De Gregori, con il quale partecipa inoltre a: "Intour", con Pino Daniele, Fiorella Mannoia, Ron.
I suoi esordi risalgono al gruppo degli "Helsapoppin", dove oltre ai suoi tantissimi virtuosismi alla chitarra, Paolo sfoggiava anche una capigliatura di tutto rispetto (vedi foto).
Con Paolo, la musica di Francesco ha accentuato le sue venature più rock, come dimenticare il suo lungo e straziante assolo su "Povero me"?

da Rimmelclub

 

qual è stata la tua formazione musicale e quali le esperienze formative che ti hanno portato a fare i musicisti professionisti? (domande di Andrea Carpi) - fonte: Bardi, Giovenchi & Valle – Le chitarre della De Gregori Band

http://fingerpicking.net/bardi-giovenchi-valle-le-chitarre-della-de-gregori-band/

 

 

 

Paolo: Io sono di diversi anni più giovane di Lucio e, tutto sommato, devo dire che un po’ mi dispiace, nel senso che Lucio è entrato molto presto nell’ambiente, mentre io ho cominciato più ‘dal basso’; sempre molto giovane anch’io, ma non avevo nessun aggancio in famiglia, nessuna conoscenza nel mondo musicale. Però tutta la parte che Lucio ha descritto, delle influenze musicali, delle passioni che ci hanno acceso, appartiene anche a me. Avevo comunque un cugino più grande che ascoltava molta musica, e che mi ha fatto ascoltare molta musica. In realtà, mi sarei voluto iscrivere al conservatorio, perché fin da bambino, da quando mi hanno regalato il primo giocattolo-chitarra, non ho più voluto sapere di nient’altro. La mia famiglia però era la tipica famiglia di una volta, per cui il conservatorio andava bene, ma solo se facevo il liceo musicale, dove c’era il numero chiuso e in pratica non si poteva entrare a chitarra; inizialmente c’era solo posto per l’oboe.

Così mi sono iscritto al Centro Romano della Chitarra, qui a Roma a via Arenula, dove si preparavano gli studi per il conservatorio. C’erano bravi insegnanti, come il mio maestro Lucio Dosso, un grande concertista. Ho frequentato per un po’ e anch’io, come Lucio, avevo facilità, ma non mi andava molto di studiare e imparavo le cose a memoria piuttosto che approfondire la lettura… Poi hanno cominciato a piacermi altre cose, la chitarra elettrica, Hendrix, e quella scuola mi è diventata stretta.

Non me la sentivo di sottopormi a tutta quella disciplina per arrivare magari a suonare Bach, che mi piaceva moltissimo ascoltare suonato da altri, ma poi – se andavo in cantina a suonare con gli amici – suonavo tutt’altro e quello era il momento che mi dava più soddisfazione. Quindi la musica per me ha preso un’altra direzione. D’altra parte, per una serie di circostanze, avevo cominciato già da piccolo a fare feste di piazza, concerti con cantanti come Gianni Nazzaro e la sorella Anna Maria; quello che mi capitava, insomma.

Poi, in seguito, con gli amici abbiamo formato un gruppo e messo su un progetto di canzoni originali, con un orientamento progressive, trovando il favore di un produttore; che però, contemporaneamente, faceva anche colonne sonore e collaborava con diverse trasmissioni Rai, finendo per prendere soprattutto questa strada. Così ha lasciato cadere le produzioni che aveva messo in piedi, alcune delle quali interessanti, con il risultato che noi siamo rimasti parcheggiati per quasi dieci anni. Però ci aveva messo a disposizione il suo studio, dove facevamo provini ma anche turni per le sue cose, sonorizzazioni, sigle, dischi di altri artisti. E capitavano anche cose molto belle, per esempio un disco con Gabriella Ferri. Quindi abbiamo avuto l’opportunità di farci le ossa, di imparare tante cose. È stata da una parte una perdita di tempo, ma dall’altra un periodo formativo importante. Quando poi, arrivati intorno ai vent’anni, abbiamo realizzato che il nostro progetto come gruppo non aveva sbocco e che quella strada non ci avrebbe portato da nessuna parte, si sono sciolte le righe e ognuno ha pensato di cercare lavoro in modo autonomo; sempre nel campo della musica, perché giunti a quel punto ci era più facile fare quello piuttosto che qualsiasi altra cosa. Così, piano piano, ho cominciato a lavorare con altri artisti come Michele Zarrillo, Luca Barbarossa, Mimmo Locasciulli, e da lì poi è nato l’aggancio con Francesco De Gregori. Nel frattempo facevo tanti turni, suonavo molto nei locali, come Lucio non mi tiravo mai indietro.

Per quanto riguarda la formazione, dopo il breve periodo al Centro Romano della Chitarra, un’altra cosa che è stata molto importante per me è stato l’incontro verso il ’79-80 con Maurizio Bonini, che all’epoca era molto appassionato di country blues: suonava in quello stile col basso continuo, che io non sapevo nemmeno cosa fosse e che mi fece letteralmente impazzire. Poi a casa sua mi faceva sentire dei dischi allora introvabili, come Bukka White e Robert Johnson. Lui mi ha trasmesso qualcosa che forse è ancora più importante dello studio musicale in sé: la ricerca delle fonti, che ti porta a capire da dove avevano attinto Clapton o Hendrix, dai quali magari sei stato influenzato, riuscendo a scomporre il loro stile per arrivare alla radice e poter ricostruire una tua elaborazione personale.

Oggi un ragazzo che fa blues spesso fa dieci frasi di Stevie Ray Vaughan, che spesso e volentieri sono a loro volta citazioni vere e proprie di dieci altrettanto grandi bluesman del passato. Allora, se mi limito a suonare la copia della copia, finisco semplicemente per suonare come Vaughan; se invece suono una sua frase sapendo che viene per esempio da Buddy Guy, mi si aprono tante possibilità. Ecco, questo è quello che io considero il mio percorso musicale più importante.

Importante poi è stato anche il lungo rapporto di collaborazione con Mimmo Locasciulli, che è molto esigente dal punto di vista musicale: poiché la musica non è la sua professione principale, visto che lui è un medico, ha sempre vissuto il lavoro del musicista in maniera molto autonoma e libera, un po’ anche per gioco e passione; e quindi, paradossalmente, finiva per essere molto più esigente di altri artisti, che lavoravano tutto sommato in modo più canonico, anche perché forse più vincolati a tabelle di marcia e volontà dettate dai produttori e dalle case discografiche. Ed io, che pure ero abituato a fare un po’ di tutto in studio, mi sono ritrovato con lui ad affrontare un approccio musicale del tutto nuovo. Inoltre lavorava spesso con Luciano Torani, fonico e musicista molto preparato, con l’orecchio assoluto, ma a sua volta pignolissimo. E tutti e due insieme erano veramente tosti, per un povero chitarrista ‘sprovveduto’ come me, che arrivava lì venendo da tutt’altro tipo di esperienze. Però alla fine anche quella è stata un’esperienza importante, nella quale ho avuto modo di imparare tanto. Perché Mimmo mi spingeva ad andare sempre oltre tutte le cose che pensavo di saper fare: «Questo è troppo blues, questo è troppo rock, questo è troppo pop, questo è troppo country», tutto era ‘troppo’. I suoi musicisti di riferimento erano musicisti che, sinceramente, in molti casi neanche conoscevo, come Marc Ribot per esempio, oppure vecchie registrazioni un po’ ‘anarchiche’ di Bob Dylan. E tutto questo è stato molto formativo per me. Tra l’altro, oltre che nei suoi dischi, ho anche lavorato in dischi che lui produceva, di Goran Kuzminac, Claudio Lolli, Alessandro Haber.

Tu, Paolo, in Vivavoce figuri anche come produttore in alcuni pezzi…

P.: Beh, mi sono trovato soltanto di passaggio in quel ruolo. Quei pezzi per i quali figuro come produttore venivano da una lavorazione diversa rispetto al contesto generale del disco: erano stati realizzati in un’altra sessione di registrazione, dove effettivamente m’ero rimboccato le maniche io per un’esigenza particolare di fare un lavoro abbastanza veloce, e c’erano parecchi contenuti miei che avevo inserito; addirittura ho suonato il basso in certi brani. Lì il mio ruolo è stato più vicino a quella che è la figura classica del produttore. Ma nelle altre situazioni lavoriamo assolutamente tutti quanti assieme, con Francesco che dà il maggior numero di indicazioni possibili e noi – attraverso la conoscenza di anni – le interpretiamo con lo strumento; perché chiaramente a lui manca il linguaggio per esprimersi più tecnicamente. E, alla fine, otteniamo un suono che ci fa sembrare una band, anche se non nasciamo come una band. Ma lo diventiamo perché lavoriamo con lo stesso approccio di una band, dove ognuno mette del suo e tutti comunque sono al servizio dell’artista, sempre però con le proprie personalità.

Adesso siamo in dieci, e trovare gli spazi per tutti non è facile. Però in qualche modo riusciamo a portare a casa il risultato. In questa direzione, un momento importante è stato l’album Pezzi [2005], che doveva rappresentare non dico un punto d’arrivo, ma di ‘fissazione’ del lavoro musicale portato avanti da quando ero entrato io in Amore nel pomeriggio [2001] e poi soprattutto dal vivo; un lavoro proprio ‘dylaniano’ se vogliamo chiamarlo così, un lavoro di destrutturazione e ristrutturazione dei brani, di svolta rock. Il discorso della band è nato qui. E all’inizio è stato un lavoro estremo, perché Francesco ha fatto delle cose che molti ‘degregoriani’ hanno fortemente disapprovato: ha ‘aggredito’ le sue cose, le ha stravolte volutamente. Voleva cambiare, voleva trovare una sua strada autonoma. Infatti da allora non ci sono stati più produttori esterni. Gli ultimi sono stati Fio Zanotti [con Mira Mare 19.4.89, 1989] e Corrado Rustici [con Prendere e lasciare, 1996].

Che spazio ha nel vostro lavoro rispetto alla chitarra elettrica? Come vi scambiate le parti tra l’una e l’altra?

P.: Tra l’altro è importante dire – e questo lo devi scrivere! – che Francesco è un gran chitarrista! Nel senso che – avendo sempre avuto un certo tipo di rapporto con la chitarra, a parte quello con Dylan – quando lui mi fa vedere con lo strumento un pezzo o qualcosa che ha in testa, io in qualche modo riesco a capire quasi tutto quello che ha in mente, dalla batteria all’assolo. Il suo modo di suonare, che è molto ‘rudimentale’ per così dire, però è autosufficiente, come nella tradizione dei folksinger del genere. Quando canta e si accompagna da solo, non senti il bisogno di nient’altro ed è tutto sottinteso nel suo modo di accompagnarsi; anche se non è un modo ‘raffinato’, però ci sono gli accenti, gli accenti della voce, c’è la dinamica…

Poi c’è il fatto del ‘movimento’, quello che noi chiamiamo ‘muovere il pezzo’. Infatti io spesso cerco di convincerlo a suonare e lui non vuole, si sminuisce da solo, dice: «Ah, voi siete i chitarristi, io non sono capace!» Ma poi in realtà, quando una cosa la fa lui, dà esattamente il senso di come deve essere.

E per quanto riguarda cose più personali?

P.: Negli ultimi anni a me ha appassionato molto curare la produzione per altri artisti: ho prodotto Reds! di Andrea Tarquini e c’è la collaborazione con Luigi Grechi, per il quale spero che ci sia presto nuovo materiale su cui lavorare; siamo già in fibrillazione. Per il resto, l’attività di turnista non è più come una volta, tutti gli artisti hanno le loro band. Al di là che probabilmente non ci poteva capitare di meglio che collaborare con un artista come Francesco, il nostro non è più un lavoro nel quale puoi fare tre tour diversi all’anno con artisti diversi. Una volta era così, adesso è molto cambiato. Per cui la nostra attività tende a spostarsi in altre situazioni, nello studio, nella composizione, nelle colonne sonore, cosa che non mi dispiacerebbe.

Oggi i giovani, anche grazie alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie, vivono subito la fantasia di incidere il loro proprio disco. Voi non ce l’avete questa fantasia?

P.: Mah, io ho fatto un percorso diverso: per quanto riguarda la musica originale, ho avuto la mia esperienza con il gruppo di cui parlavo prima, dove ero comunque un elemento di una band. Non ho mai avuto la velleità di essere un chitarrista solista e fare il mio disco solista. Anche perché, quasi sempre, ti rendi conto che più della metà di questi dischi sono inutili, e l’altra metà per la maggior parte non è che la copia di qualcos’altro. È pur vero che fare un tuo disco ti può portare un certo indotto lavorativo, così che un bravo strumentista si può creare un suo circuito, fare le sue serate, dare lezioni, scrivere sulle riviste. Ma personalmente, quando penso a un’attività di scrittura, penso soprattutto a una colonna sonora, a una canzone per qualche altro artista piuttosto che al disco del chitarrista; anche perché la musica che ascolto è difficilmente il disco del chitarrista solista, per quanto bravo possa essere…

 

 

 

 

ALESSANDRO ARIANTI

 

Nonostatnte la sua giovane età, è dal 2001 il pianista e tastierista di Francesco De Gregori. Quindi, un curriculum di tutto rispetto per un giovane musicista. E se è ancora lì, ogni sera, a suonare le note della Donna Cannone prima dell'inchino del suo Capo, ci sarà un motivo.

Ciao Ale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ALESSANDRO VALLE - Polistrumentista specializzato in chitarre slide, inizia la sua carriera professionale nel '90 come chitarrista, lavorando in studio e in tour con diversi artisti italiani per poi scoprire la passione per la Pedal Steel e le sonorità della country music.
Dopo un proficuo periodo trascorso negli States studiando al Jeffran College di Nashville (TN) con Jeff Newman ed a Washington DC con Mike Auldridge (legenda vivente del dobro) torna in Italia con un bagaglio tutto nuovo di sonorità e stile che gli permetterà poi di lavorare alla sua figura di side-man. Quindi non più solo chitarrista ma specialista di chitarre resofoniche ed uno dei pochissimi suonatori di Pedal Steel.
La collaborazione con la rivista AXE, l'incontro con Paul Franklin, l'aiuto di Bob Brozman, le collaborazioni in Germania sia con musicisti che con note aziende operanti in campo musicale completeranno la sua formazione.
Ultima passione musicale sarà il mandolino, grazie ad un vecchio Gibson A-2 trovato in un negozio ed un Flatiron di un nuovo amico.

Negli anni ha collaborato con: Francesco de Gregori, Enrico Ruggeri, Luigi Grechi, Alan Sorrenti, Vernice, Little Tony, Chris White (Dire Straits/Robbie Williams), Steve Philips (Nothing Hillbillies), Sons of the Desert (Germany), Richard Bennet (Mark Knopfler)

 dal suo sito ufficiale

 

qual è stata la tua formazione musicale e quali le esperienze formative che ti hanno portato a fare i musicisti professionisti? (domande di Andrea Carpi) - fonte: Bardi, Giovenchi & Valle – Le chitarre della De Gregori Band  http://fingerpicking.net/bardi-giovenchi-valle-le-chitarre-della-de-gregori-band/

Alessandro: Io ho iniziato suonando la chitarra e da ragazzino ho formato una band con i miei compagni di scuola. Poi ho continuato a suonare e studiare chitarra, anche elettrica, in una scuola popolare di Genzano con Lello Panico e Fabio Cerrone, fino all’età di vent’anni. Ho anche cominciato a fare qualche lavoro, in particolare sono stato in tour come chitarrista con Alan Sorrenti nei primi anni ’90. Poi sono partito per il servizio militare a Vercelli e lì è avvenuto un episodio chiave. Frequentavo un pub vicino alla caserma, che faceva anche musica dal vivo, e il gestore del pub un giorno mi disse: «Guarda che tra due giorni c’è un concerto fantastico, con un chitarrista bravissimo che suona una chitarra strana, sembra un tavolino».

All’epoca ero un chitarrista metallaro, e l’idea di andare a un concerto di chitarra hawaiana non mi attirava molto; però potevo usufruire del permesso ‘termine spettacolo teatrale’ e rientrare all’una di notte, così mi decisi ad andare. Al concerto vidi subito un paio di cose: una chitarra piena di string bender, che avevo già visto su un articolo di Chitarre scritto nientemeno che da Luigi Grechi; e poi quel tavolino pieno di corde con i pedali: era una pedal steel guitar, ma all’epoca non sapevo cosa fosse; quando leggevo sulle riviste americane «pedal steel», pensavo si trattasse di un pedale per chitarra, ma quella sera capii che i suoni che cercavo di emulare con il bending sulla chitarra, erano appunto i suoni di quello strano strumento. Insomma quello era il concerto del Branco Selvaggio di Ricky Mantoan, e così nacque il mio amore per la pedal steel guitar.

Da lì ho cominciato a rompere le scatole a Mantoan, che mi dava delle lezioni per telefono, finché un giorno ci siamo incontrati a casa mia, quando lui era in giro con Luigi Grechi per il tour di Girardengo e altre storie [1994]. Io ero contentissimo, ma avevo dimenticato che lui è mancino, per cui non poteva suonare la mia pedal steel!

Poi ogni estate andavo in tour con qualche band, come il gruppo pop dei Vernice e i Pane & Vino, finché nel ’97 ho deciso di andare per un periodo negli Stati Uniti a studiare seriamente, con tappe a Washington per delle lezioni private con Mike Auldridge, a Nashville per il Jeffran College of Pedal Steel di Jeff Newman, e a St. Louis per la Scotty’s International Steel Guitar Convention. A Nashville avevo lezione dalle otto di mattina alle sei del pomeriggio in una cabin in montagna, poi Newman mi segnava su una mappa tutti i club dove la sera potevo andare a sentire dei concerti: fantastico! Al mio ritorno ho iniziato a lavorare con Little Tony, visto che il fratello e chitarrista Enrico Ciacci cercava un suonatore di pedal steel. Poi, nel 2003, Luigi Grechi stava per registrare Pastore di nuvole, ma Ricky Mantoan era occupato e non poteva suonarci, così è iniziata la mia collaborazione con Luigi. E da lì è nato anche il contatto con Francesco, iniziato nel 2005 con l’album Pezzi.

Immagino che la tua specializzazione in uno strumento così particolare come la pedal steel ti abbia aiutato nella professione di musicista.

È vero, uno strumento meno suonato può dare più possibilità di lavoro. Ma d’altra parte, se è meno suonato, è anche vero che c’è meno richiesta. In ogni modo sì, aiuta sicuramente, perché in Italia ci sono un sacco di chitarristi bravi; anche se non è facile inserire uno strumento così caratterizzante in un repertorio pop italiano…

Al tempo stesso è uno strumento comodo, che può fare le veci degli archi, di quello che una volta era il Mellotron…

Sì, infatti la storia è partita dalla steel guitar, che con l’accordatura di DO6 copiava le parti degli ottoni nelle orchestre Dixie, nella musica hawaiana e nel primo jazz. Poi la pedal steel si è sviluppata nel corso degli anni, con il passaggio dall’accordatura di DO6 a quella di MI9 nella country music nashvilliana e nella musica californiana. Oggi, come nell’esempio di Paul Franklin all’interno dei Dire Straits, è diventata a pieno titolo uno strumento moderno.

Il lavoro con De Gregori è una cosa particolare. Ma comunque, in generale, nella musica pop è difficile che ci sia qualcosa di scritto per quanto riguarda i nostri strumenti: le parti scritte le ha chi lavora in orchestra, non chi lavora in una band. La fortuna della band di De Gregori è che tutti i musicisti sono molto preparati, e tutti quanti ascoltano gli altri. Così nessuno mette mai la nota ‘fuori posto’, tutti lavorano per il suono della band.

Sì, l’ho notato in particolare nell’ultimo disco dedicato a Dylan, che suona secondo me come i dischi americani, nel senso che suonate tutti ‘poco’, si sentono distintamente gli interventi di ciascuno.

A.: Sì, c’è una grande differenza: in Europa si cerca sempre di ‘orchestrare’, quindi si trovano tanti strumenti con suoni ‘piccoli’; invece molte produzioni d’oltreoceano prevedono pochi strumenti, ma con i suoni ‘grossi’.

A questo punto, voi siete legati da anni al lavoro con De Gregori: come riuscite a far convivere questo impegno principale con eventuali altre esperienze parallele, se le portate avanti e se ne sentite l’esigenza?

A.: Incastrare altri lavori con quello di De Gregori è difficilissimo. Ora, parlando del mestiere di musicista, c’è da dire che sì, è un mestiere, ma qualcosa diventa un mestiere… quando sei costretto a pagare le tasse. Altrimenti non è un mestiere, fondamentalmente è una passione. Nessuno decide di diventare professionista: il professionista è un musicista che trasforma la passione in lavoro, è un ‘mago’ o uno fortunato. Quindi avere un lavoro così grande è ai limiti dell’ingombrante, è un lavoro che ti prende tutta la vita: torni a casa e pensi a prepararti al prossimo impegno, a come migliorare certe cose, a come eliminarne altre. E il tempo che ti rimane, cerchi di dedicarlo ad altre cose che ti piacciono. Ma non è così facile: tante volte, quando ti chiamano per fare un lavoro, sei costretto a dire di no. Comunque a me capita di fare altre cose, in particolare con l’etichetta Appaloosa/IRD, che organizza minitour in Italia di artisti americani, generalmente del genere Americana: è divertente ed è anche una grande scuola.

 

 

 

STEFANO PARENTI

 

Nato a Roma nel 59 , suona la batteria da quando aveva 10 anni e già pochi anni dopo si esibiva pubblicamente tenendo concerti di genere rock-jazz con quello che è stato il suo primo gruppo e dove il gap di età fra lui e i suoi colleghi era mediamente di 7-8 anni.
L'incontro con la musica brasiliana avviene quasi per caso,ma subito si vede la sua particolare abilità a destreggiarsi in questo genere che gli darà molte soddisfazioni portandogli stima e riconoscimenti sia a Roma (dove è particolarmente conosciuto)che nel resto d'Italia.
Nel periodo del boom della musica brasiliana a Roma (prima metà degli anni '80) si esibisce in un locale che era considerato il tempio per gli amanti di quella musica al fianco di Jim Porto; quel locale si chiamava Manuia,era famosissimo nella capitale,ma anche in Brasile e perciò era una tappa obbligata per gli artisti brasiliani di passaggio a Roma e così gli ha dato l'occasione e l'onore di suonare con artisti del calibro di Alcyone, Papetee, Cidinho,Mandrake.,etc....
All'inizio degli anni '90 ha fatto parte sia della band di Paulinho Nogueira che di Elsa Soares durante le loro tournée italiane.
Nella sua attività di turnista ha realizzato numerosi dischi e concerti con artisti come: Mimmo Locasciulli, Alessandro Haber, Gigliola Cinquetti, Alan Sorrenti, Fred Bongusto, Stefano Palatresi,Roberto Murolo.
A metà degli anni ottanta ha fatto parte del gruppo "Countdown" con Luca Laurenti e Vincent Thoma;da questo gruppo è scaturita la ritmica degli Helsapoppin' coi quali suona dal 92. Fa parte del gruppo di Irio de Paula dal 91.Con esso ha realizzato numerosi CD e numerosissimi concerti dal vivo. E' tra i fondatori del gruppo "Ondabuena Hotel" col quale ha realizzato un CD omonimo.

http://digilander.libero.it/helsapoppin/stefano.html

  

 

 

 

 

 

 

ELENA CIRILLO

 

Musicista a 360 gradi, Elena si è diplomata in Violino e Canto Lirico presso il Conservatorio di Musica “G. Puccini” di La Spezia. Ha conseguito inoltre il 5° anno di Pianoforte, strumento col quale si è avvicinata alla musica fin da piccola.

Sia come violinista che come cantante, ha collaborato con grandi artisti dei più diversi generi musicali. Per la classica e la lirica: Cristiano Rossi, Andrea Farulli, Massimo Quarta, Marzio Conti, Katia Ricciarelli e Andrea Bocelli. Per il Jazz: Enrico Rava, Mauro Grossi, Stefano Bollani, Petra Magoni, Rossana Casale e Armando Corsi. Per la Leggera: Francesco Renga, Morgan, Mario Biondi, Mauro Ermanno Giovanardi, Renato Zero e Sting.

Nel 2008 ha registrato violino solista e cori nel disco “Per brevità chiamato artista” di Francesco De Gregori e da aprile 2011 è parte della Band dell’artista in qualità di violinista-corista.

Per due stagioni consecutive è stata cantante, violinista e pianista della trasmissione “Vivere Meglio” sulle reti Mediaset.

Nel 2012 ha pubblicato “Quel Fiore”, il suo primo Album solista.

È insegnante di canto leggero e lirico dal 1997 e ha elaborato una propria tecnica di apprendimento e insegnamento del canto, alla base del Metodo Play the Voice utilizzato nella nostra Accademica di Canto.

Informazioni sempre aggiornate su Elena sono disponibili sulla sua pagina Facebook e sul suo Blog.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CHI FA MUOVERE LA CAROVANA

 

 

di Douglas Cole

 https://soundlite.it/live-concert-3/item/702-de-gregori.html

 

Quando abbiamo visitato lo studio Terminal 2 a Roma, l’anno scorso, era in fase di completamento il disco inaugurale dello stesso studio: il nuovo disco di Francesco De Gregori, “Sulla Strada”. Uscito in novembre del 2012, già nel marzo di quest’anno si era guadagnato un disco d’oro. Per le registrazioni più recenti, è stata aumentato l’ensemble storico che accompagna l’artista, con un gruppo di dieci musicisti che lo ha seguito in una tournée teatrale primaverile poi evolutasi per le piazze estive.

 Visto che noi della redazione siamo abituali frequentatori dei Festival francescani, è stata una sorpresa fortuita scoprire che la penultima data della recente tournée di Francesco De Gregori si sarebbe svolta all’aperto a Rimini – cioè, a due passi da noi – e, addirittura, proprio come parte di un Festival francescano. Così, ci siamo messi in cammino verso Piazza Malatesta per poterci godere un concerto de “Il Principe” della canzone, mentre congregavamo con i compagni emulatori de Il Principe della Pace.

 È certo segno dei tempi che quest’estate abbiamo visto una grande parte delle tournée nazionali di artisti importanti enumerare più musicisti sul palco che persone nelle squadre tecniche e di produzione messe insieme. C’è una grande differenza tra trovare il palco e il facchinaggio sul posto e dover trovare quasi tutto sul posto, e parecchie produzioni stanno scegliendo questa seconda soluzione per rispondere alla realtà economica del mercato degli eventi estivi.

 Chiaramente questa modalità può essere assolutamente vincente quando la tipologia di artista la permette e lo show può reggersi in piedi già quasi esclusivamente sulla forza della musica e sul carisma dell’artista. Infatti in tutte le produzioni di questo tipo a cui abbiamo assisto questa estate, il pubblico non ci è mai parso accusare la mancanza di maggiori mezzi, anzi, magari l’esperienza del concerto è stata addirittura aumentata dall’atmosfera più intima e gradevole.

 È certamente il caso di questa serata con De Gregori.

 Lo spettacolo è una produzione F&P Group, con materiale in tournée fornito da Agorà (della serie “poco ma buono”). In occasione della data di Rimini, il service Team E20 di Savignano sul Rubicone (FC) ha fornito l’audio e le luci residenti: PA Axiom e parco luci misto tra testemobili Robe, LEDWash DTS e generici.

 

La produzione

 

Sul posto incontriamo Giovanni Chinnici, direttore di produzione per questo tour “aerodinamicizzato”.

 “La produzione – ci racconta Giovanni – è stata curata dal mio capo, Orazio Caratozzolo, per conto di F&P Group; io ricopro il ruolo di direttore di produzione. Il tour è partito agli inizi di luglio, dopo un ottimo successo sia dal punto di vista tecnico che di pubblico in una fase primaverile nei teatri.

Continua Giovanni: “Dall’anno scorso è stata fatta la scelta di andare con la mezza produzione, che comprende banchi, regie audio sala e palco, regia luci, monitor e backline. Ci troviamo abbastanza bene, grazie anche all’aiuto e grande lavoro di Gianmario Lussana, il nostro fonico, che fornisce una collaborazione importante. Infatti, pur trovando una situazione diversa in ogni location, abbiamo operato con la massima tranquillità e serenità, senza aver nessun tipo di problema e lasciando il pubblico sempre soddisfatto per l’ascolto.

 “Ovviamente c’è un importante lavoro di produzione: chiediamo e ci facciamo mandare la scheda tecnica dal service locale, io e Gianmario la valutiamo, per telefono o in presenza, e se non ci soddisfa chiediamo un’integrazione; devo dire che c’è sempre stata un’ottima collaborazione dalla parte dei promoter locali nel rispetto delle nostre richieste. Una formula quindi vincente per questo tour.

 Com’è composta la squadra in tour?

 Voglio subito fare un grandissimo plauso ai tecnici in tour, perché sono dei grandi professionisti con cui collaboro da anni, in grado di risolvere i problemi e non di crearli; a cominciare dai due backliner, Salvo Fauci e Alessandro Morella. Il fonico di palco è Simone di Pasquale, mentre, come accennavo, per l’audio in sala abbiamo Gianmario Lussana. Alle luci abbiamo Andrea Coppini perché, anche con la mezza produzione, abbiamo al seguito il nostro datore luci con un piccolo set di proiettori: parliamo di cinque bauli che ci permettono di avere comunque una nostra base con la quale è possibile comunque fare lo show anche se trovassimo qualcosa di inutilizzabile. Poi c’è Marcellino, che è il nostro driver, e che fa parte della famiglia.

 Forse è una domanda già scontata, ma quali sono le motivazioni per cui un artista come De Gregori usa la formula della mezza produzione?

 È inutile girarci intorno, la motivazione è economica, dettata da una serie di motivi. Io sono siciliano e faccio un esempio con la mia terra che, storicamente, era una delle patrie delle feste comunali e patronali. Questi eventi si sono ridotti moltissimo, senza esagerare almeno del 60 o 70 percento. Quindi c’è una realtà economica a cui le agenzie si stanno adattando, infatti non siamo certo i soli ad andare in giro con la mezza produzione.

 A mio parere è proprio il mercato estivo delle feste di piazza ad aver subito maggiormente questa problematica. C’erano dei comuni importantissimi che avevano “x” budget da investire in concerti ed eventi, budget che quest’anno è stato più che dimezzato. La mezza produzione è quindi un modo per poter andare avanti comunque con le tre o quattro date in Sicilia, in Calabria o in altri posti.

 Avete trovato sulle piazze della tecnologia adatta e dei service preparati, o qualche volta non è andata proprio benissimo?

 La media è decisamente positiva. Non abbiamo trovato delle casse vuote, per intenderci. Certo, non sempre abbiamo trovato in giro il materiale che ci possiamo aspettare con Agorà o con Lombardi o con gli altri service con i quali siamo abituati a girare con le produzioni intere; quindi anche la mentalità del tecnico nel confrontarsi con questo materiale deve essere piuttosto elastica. Però vi posso garantire che non ci siamo mai lamentati di quello che abbiamo trovato: c’è una qualità anche nelle realtà locali che può soddisfare le esigenze di questa tournée.

 

L’audio

 

Dopo un soundcheck notevolmente intenso, chiediamo a Gianmario Lussana, il fonico FoH, del suo lavoro con De Gregori.

 Spiega Gianmario: “Ricopro questo ruolo dal tour del 2001, inotre seguo Francesco nella registrazione e nel mix delle produzioni discografiche in studio.

“In tanto bisogna subito dire che la differenza tra quello che succede in studio e quello che succede dal vivo con Francesco è molto evidente, perché lo spettacolo è un continuo evolvere. Per esempio, alla penultima data del tour, abbiamo provato due o tre canzoni che facevamo da diversi mesi... più che una scaletta c’è un repertorio che poi, di volta in volta, va a formare la scaletta della serata. Quindi, in realtà, anche l’arrangiamento di questi brani varia di volta in volta secondo le esigenze dell’artista. Questo aspetto viene coordinato da Guido Guglielminetti, il produttore artistico, capo banda e responsabile della parte artistica. Ovviamente al pomeriggio facciamo dei lunghi soundcheck durante i quali proviamo tutte queste variazioni ed io – e quel pover uomo di Andrea Coppini alle luci peggio di me – facciamo delle memorie a d’uopo; diciamo che rivediamo le memorie di qualche mese prima”.

 Si cerca di riprodurre i brani del concerto in modo fedele alle registrazioni?

 Effettivamente, nei brani dell’ultimo lavoro che si eseguono stasera si è cercato di riportare quanto registrato in studio; ma questo viene un po’ da sé, perché il modo di registrare che usiamo è molto simile a quello di un concerto, nel senso che abbiamo bisogno di uno studio con delle sale molto grandi e, magari, due o tre booth separati per poter registrare tutti contemporaneamente o quasi. Così noi montiamo come se fosse un live, con la batteria nel drumbooth, gli amplificatori per chitarra nei booth, possibilmente Lucio Bardi con la sua chitarra acustica da un’altra parte, e si suona tutti insieme. L’arrangiamento del pezzo nasce suonando tutti insieme, un po’ alla maniera degli anni ’70: Francesco si trova molto bene così, con Guido sempre a coordinare il lavoro.

Pertanto è una situazione prettamente suonata e soggetta a qualsiasi improvvisazione?

Assolutamente sì, non esistono sequenze in questo show. Tutto è suonato e ci sono 11 musicisti sul palco: batteria, basso, due chitarre che si alternano tra acustica ed elettrica, un chitarrista che suona la pedal steel, chitarra elettrica, il mandolino country, ogni tanto la dobro e lap steel. Poi abbiamo sassofono, tromba e trombone una novità di questa estate che ha voluto aggiungere Francesco: questo inverno infatti abbiamo registrato un pezzo con dei fiati in studio, il sound è piaciuto così tanto a Francesco che ha voluto portarli in tournée.

 Quale setup audio che gira con la produzione?

 Portiamo al seguito tutto quello che c’è sul palco: tutta la strumentazione, il backline ed il monitoraggio. Abbiamo anche le console, sia la DShow, che uso io, sia la DiGiCo SD8 che Simone usa sul palco; insomma tutto quello che riguarda l’audio fuorché il PA, che troviamo di volta in volta sul posto.

 Sul palco c’è un monitoraggio tradizionale, con 16 wedge monitor, i tre chitarristi hanno quattro o cinque amplificatori per chitarra, a volume smodato, e tutto questo, come immagini, chiaramente rende molto semplice fare il mix al front of house, soprattutto nei posti ad ambientazione quasi teatrale. In realtà, la sensibilità del musicista è tale da capire quando è che deve abbassare il volume sul palco perché sa che collaboriamo e riconoscono che, quando il fonico ha una richiesta del genere, è perché non sta lavorando contro di lui, ma sta lavorando insieme a lui.

 Dal palco ti arrivano quindi molti segnali?

 Abbiamo strumenti a corda di ogni tipo, dimensione, numero di corde e tonalità... passiamo dal basso elettrico a cinque corde al contrabbasso elettrico, poi chitarre acustiche, elettriche, pedal, mandolini... poi abbiamo una batteria Ludwig jazz kit anni ‘60, quindi solo un tom ed un timpano. Poi c’è una postazione tastiere abbastanza tranquilla: solo suoni di pianoforte, Hammond e Fender Rhodes; una fisarmonica, molti cori: quasi tutti i musicisti, anche se in pochi pezzi, fanno i cori... per esempio su Il Bandito e il Campione cantano tutti. C’è anche Elena Cirillo che fa sostanzialmente cori, seconda voce e violino. Comunque riusciamo a stare sempre sotto i 48 canali.

 Com’è il setup del microfonaggio e della regia?

 È tutto più o meno standard: Shure Beta52 sulla cassa, gli AT4050 AudioTechnica sugli amplificatori per chitarra, C414 AKG come overhead – niente di strano. Io sulla console ho il pacchetto Waves 7, perché utilizzo su i gruppi Air Compressor C4 ed L2 sui gruppo delle percussioni, sul gruppo delle chitarre, sul gruppo tastiere e sul gruppo fiati, anche se vengono comunque trattati singolarmente.

 Il master stesso è poi ricompresso nello stesso modo con delle EQ passive, sempre in plug-in. Di outboard non ho nient’altro, a parte un Avalon 737 sulla voce che è un mio vezzo. In realtà non lo uso neanche più come preamplificatore, ma solo in insert per avere un controllo in più, qualsiasi cosa succeda.

 Come ti trovi lavorare con un impianto diverso ad ogni data?

 Quello di cui ho sentito la mancanza non è tanto la tecnologia, che ho trovato sempre a livelli medio-alti (magari qualche volta bisogna litigare per avere qualche cassa in più!), ma una spalla fidata su cui piangere durante il concerto. Normalmente questo è il ruolo ricoperto dal mio PA man preferito che è Luca Nobilini, il quale di solito mi aiuta a far quadrare il cerchio. Detto questo, e senza togliere niente a chi fa questo lavoro nelle realtà locali, non ho avuto grossissimi problemi e ho anche avuto delle belle sorprese da degli impianti magari non blasonatissimi che, alla fin-fine, proprio grazie alla qualità del personale che ci metteva le mani, hanno dato degli ottimi risultati. Consiglierei comunque a chi fa una tournée del genere, di portare, se possibile, sempre un PA man di fiducia al seguito.

Perdi molto tempo nell’ottimizzazione dell’impianto quando arrivi sul posto o eviti di mettere le mani e cerchi di fare il possibile con mezzi tuoi?

Cerco sempre di ottimizzare il più possibile quello che esce dall’impianto anche se, come ben sapete, spesso e volentieri i problemi si hanno al momento del montaggio. Con i line array a garantire la riuscita della serata è colui il quale fa il progetto, decide i gradi di apertura e come distribuire la pressione sull’area. Da lì in poi, andare a mettere in fase i sub o i front-fill o equalizzare a piacimento è, in realtà, il minimo. Sul quello, sicuramente, c’è da lavorare tanto. Certo, però, se arrivo sul posto e vedo un impianto messo... non so, con un cluster un metro più alto dell’altro – cosa che comunque non è mai successa – allora qualcosa magari la dico... però si cerca sempre di portare a casa capra e cavoli, diciamo... alle fine non stiamo salvando il Pianeta, insomma.

Quali sono le vostre richieste nella scheda tecnica?

La scheda tecnica che arriva al service locale è quella standard di un PA line array di potenza e di copertura adeguata alla venue. Questo, purtroppo, a parte quando si riesce a vedere la planimetria del posto, non si riesce mai a controllare se quanto richiesto è poi effettivamente quello che si troverà. Poi, sulla scheda, ho indicato quelle tre o quattro marche di impianto più diffuse, ma più ce al marchio miriamo alla copertura ed alla potenza.

 

Le luci

 

Quando finisce di aggiungere gli ultimi ritocchi, Andrea Coppini ci racconta velocemente dell’aspetto luci.

 “Questa produzione – ci racconta Andrea – era partita con l’idea di portare solo l’operatore luci senza alcun materiale al seguito. Io però ho chiesto, e la produzione mi ha accontentato, di portare in tour un piccola parte di fari che io monto da solo, per essere sicuro di avere almeno il minimo indispensabile per portare a casa lo spettacolo in qualsiasi condizione. In aggiunta, di volta in volta, integro con motorizzati, incandescenza ed altro che trovo sul posto. In effetti la produzione non richiede né specifica materiale luci, ma spesso suoniamo nei festival, quindi c’è già un allestimento precedente. Normalmente trovo una serie di wash e di spot da utilizzare”

 È vero che è il luciaio a soffrire di più nella formula della mezza produzione?

 In questa produzione, essendo io l’unico addetto alle luci in tour, oltre a fare l’operatore – quindi quando arrivo farmi dare i patch del parco residente, ed adattare la programmazione ai proiettori che trovo – devo anche montare quei pochi fari che porto dietro. Diciamo che copro anche il ruolo di tecnico. In realtà è piuttosto impegnativo.

 Come fai a programmare uno spettacolo senza sapere che proiettori troverai in giro?

 A parte la difficoltà già iniziale di avere avuto una notte sola di programmazione, ho preso lo spettacolo che avevamo fatto in teatro, che aveva un allestimento ben definito e diverso da questo, e in una notte ho riadattato tutto. Fortunatamente mi ero già preparato in virtuale con il computer a casa. Ho impostato la programmazione dello spettacolo in maniera molto basilare, perché, chiaramente, non sapendo cosa trovo di volta in volta, non potevo fare degli specials sul singolo cantante o tante rifiniture perché, magari, non avrei avuto i pezzi necessari per realizzarle.

 Cosa portate dietro in tutto?

 Ho in dotazione sei Robe Robin 300 Wash, che uso montati di taglio, tre a destra e tre a sinistra su delle piccole wind-up della Manfrotto per avere il faro all’altezza giusta. Sono leggeri e facili da montare. Poi ho sei Alpha Beam 700 Clay Paky che monto a terra sul palco che servono per dare un po’ di movimento durante lo spettacolo.

 Il controllo è una Jands Vista che ho provato per la prima volta nella tournée primaverile e che ho confermato anche nell’estiva. Per comodità ho un modulo Art-Net che monto sul palco e che mi pilota i fari da là. Il mio multicore quindi non è più su cavi DMX, ma è un cavo Ethernet.

  

 

Lo show

 

A giudicare dalla scaletta di questo concerto, anziché Sulla Strada, forse un nome più indicativo per la tournée sarebbe stato “Francesco De Gregori e la Sulla Strada Band”. Il concetto di tour come promozione al disco è ormai praticamente superato dalle non vendite dei dischi stessi, così, vista l’importanza del repertorio dell’artista, il concerto è chiaramente, e giustamente, un “best of”.

I brani dell’ultimo disco infatti vengono dosati regolarmente nel corso del concerto, ma sono i classici a dominare la serata. Parecchi di questi ultimi, come Generale o Alice, magari con arrangiamenti nuovi che sfruttano i nuovi elementi della band, ma anche alcuni spogliati all’essenziale.

 Per quanto riguarda l’audio, la piazza – che è essenzialmente un parcheggio confinato su diversi lati in modo irregolare da muraglie antiche – aveva tutte le potenzialità per essere una location problematica ma, fortunatamente, lo spazio del pubblico si stendeva indietro sempre in asse con l’impianto. Perciò in tutta la zona d’ascolto in cui c’era pubblico, sembrava veramente ascoltare il concerto in diretta sui monitor da studio con l’aggiunto di parecchio rinforzo nelle frequenze sub-bass. Complimenti a Gianmario per il mix molto nitido, nonostante il numero di strumenti elevato e per la voce non esageratamente avanti. Anche l’impianto Axiom di TeamE20 continua a dimostrarsi un attrezzo assolutamente valido, se nelle mani giuste, in applicazioni di questa scala.

 Avevamo visto lavorare Andrea Coppini fino a 20 minuti prima del downbeat, sistemando elementi d’incandescenza del parco luci residente. Anche se i momenti di punto nell’illuminazione sono stati basati fortemente sui proiettori Robe e Clay Paky portati dalla produzione, Andrea ha sfruttato il parco presente in modo intensivo. Ovviamente le luci non diventano mai protagoniste in un concerto di un artista come De Gregori, ma i momenti di disegno in aria, i quadri di colori forti non sono mancati e la parte illuminotecnica dello spettacolo è stata sorprendentemente creativa ed efficace.

 Senza dubbio una bella serata. Ma consigliabile arrivare già in coppia: rimorchiare al Festival Francescano può risultare difficile. Ma non è detto!

  

ATTUALI COMPONENTI DELLA CAROVANA

 

 

 

 

Sq. Luci: Andrea Coppini, Gianni Vetrugno, Nicola Caccamo - Sq. Audio + Fonico Foh: Lorenzo Tommasini,  Stefano Guidoni - Sq Backliner + Fonico monitor: Simone Di Pasquale, Salvo Fauci, Alessandro Morella - Autista bilico: Mimmo Griffa - Autista Artista: Maurizio Degni - Assistente Artista: Vincenzo Lombi (Chips) - Direttore di Produzione: Giovanni Chinnici - Assistente di Produzione: Fenia Galtieri

 

 

VIDEO

 

 

 

 

 

Intervista a Francesco De Gregori (Francesco Pacifico)

Per telefono, prendendo appuntamento per pranzo, mi ha chiesto che genere di intervista volessi fare. Gli ho detto che volevo solo fargli domande sul suo lavoro e non gli avrei chiesto le sue opinioni sul mondo. Ha risposto: “Ah bene, ecco, così mi avevano anticipato”, preferisce anche lui così.
Pranzo in un ristorante nel quartiere Prati, a Roma, diluvia, macchina in seconda fila, sala fumatori, pesce al forno. Francesco De Gregori è una specie di ragazzo molto romano dall’aria leggera, maglia a maniche lunghe, sigarette francesi, barbetta. Prima di cominciare parla molto del mestiere di scrittore e di cos’è la poesia e delle tecniche di scrittura del poeta Valerio Magrelli, suo amico. Fa molte domande; sono state espunte.
Componi alla chitarra?
Mmm no compongo anche molto al pianoforte però quando sto in giro mi lamento che in camerino non ce l’ho quasi mai quindi compongo con la chitarra, però a casa con il pianoforte…
Ma come è organizzata casa tua? È uno spazio dedicato?
A casa mia c’è una tastiera elettronica che simula il pianoforte perché non c’è spazio per un pianoforte, poi ho un posto con un pianoforte vero vicino casa, dove vado proprio lì nel momento più disciplinato, quando sono molto avanti col lavoro di una canzone ma anche di due o tre e ho bisogno di uno strumento che mi dia anche una gratificazione sonora…
Ma è una sala?
No no, è una casa, è una casa… una specie di studio-ufficio a casa. Ma niente di tecnologico, ci sono solo un pianoforte e qualche chitarra in più. I testi li scrivo a casa. Io scrivo con la macchina da scrivere. Prima scrivo a mano, queste idee vanno su pezzi di carta sparsi, poi i più meritevoli finiscono dentro una cartella, con il titolo provvisorio dell’eventuale canzone. Quando la cosa prende una sua forma, quando riesco ad avere una sintesi di tutto questo dal punto di vista del testo, avendo comunque già un’idea di musica, allora passiamo alla fase più disciplinata che è quella che chiama in causa la macchina da scrivere perché mi piace vedere la bella copia. Però ti dico la macchina da scrivere e non il computer perché con la macchina da scrivere premere un tasto significa assumersi una responsabilità, perché non cancelli, è subito lì. Se devi scegliere un aggettivo non è che lo scrivi e dici tanto poi lo cambio, ci pensi un minuto?, no anche troppo, trenta secondi? Però ci pensi…
Quando hai detto cartella io stavo pensando spontaneamente a cartella del computer invece no, una cartellina.
No no, una cartellina di quelle che si comprano da Vertecchi… Questo appartiene un po’ alla mia cultura cartacea: sul computer, io non sopporto che a volte non risponda, perché sai i computer a volte fanno cose strane. Allora io preferisco incazzarmi perché fisicamente non trovo dove ho messo la cartella, se l’ho poggiata su quel ripiano lì o su quell’altro piuttosto che incazzarmi con il computer perché non mi si apre la cartella. Però quello fa anche parte del mio essere un uomo del Novecento.
Quando non hai una penna ti capita di dire a mente, ripetere una cosa per non dimenticartela?
Se non ho una penna se ne va… Però sono anche convinto che se la cosa merita di essere dimenticata viene dimenticata, se la cosa deve essere ricordata riaffiora. Forse lo dico per consolarmi, però a volte mi tornano in mente delle cose che ricordo di aver pensato un anno prima, e dico “vedi, era questo”… [fa una smorfia, per dire che era brutto, NdR] Però ovviamente non posso sapere di quelle che non mi tornano in mente, quindi… Ma con la testa pratichi una specie di selezione naturale, virtuosa… Penso proprio di sì, perché le cose veramente belle che mi vengono in mente hanno un peso e tendono a tornare, sono convinto di questo.
Tu hai un’idea quando scrivi di essere troppo te stesso e ti infastidisci? Sai, lo stile, la cosa “alla De Gregori”…
Ah no me ne frego, se la cosa è uscita così… De Gregori sono io e mi prendo le responsabilità. Sì lo so, c’ho uno stile o anche dei vizi letterari e musicali, me li tengo. Fammici pensare, aspetta… A volte dico ai miei musicisti mentre stiamo suonando “questa cosa è troppo da cantautore”, forse questo che intendi sì, quello sì… è troppo da cantautore, questo mi capita spesso di dirlo…
E come descriveresti la cosa “troppo da cantautore”?
Possiamo dire le parole non si mescolano abbastanza col suono: la parola tende ad essere enfatica rispetto a quella che è la dimensione della canzone. Io considero la canzone qualcosa di molto popolare e easy, mentre l’immagine del cantautore, che pure io ho incarnato e incarno, non voglio spogliarmi di questo, viene identificata spesso come un artista che vuole tirare molto il tessuto della canzone per farla diventare qualcosa di più nobile…
Quindi troppi accenti, troppe…
Troppa importanza, troppa autoreferenzialità, forse, troppo voler dire “guardate come scrivo bene, guardate che bell’aggettivo è questo”, queste cose qua…
Nel tuo suono dal vivo degli ultimi anni la voce scompare molto nel sound, canti cercando poco di far emergere la voce, ogni tanto dài i tuoi accenti, quelli tuoi insomma…
Sì, sì, quelli degregoriani insomma… però ecco, detesto il fatto che ci sia un cantante che sta sopra una base musicale e che, capito, declama la sua… il suo essere un piccolo Omero dentro una situazione che non lo rappresenta abbastanza perché la canzone tutto sommato è troppo povera. Ecco io questo non l’ho mai pensato. Sembra una falsa modestia, in realtà è esattamente il contrario: è la rivendicazione dell’importanza della canzone come forma d’arte, come forma espressiva autonoma che non va imparentata né alla poesia né a qualsiasi altra forma, la rivendicazione dell’autonomia dell’arte che pratico… e non suo la parola arte a caso, né per elevare: è un’arte, come le altre.
Parliamo della voce. Tu parti da Dylan, e da Leonard Cohen diciamo. Io poi Leonard Cohen lo associo più a De André e Dylan a te. Tu eri più zompettante.
Come timbro di voce sicuramente, perché la voce di Leonard Cohen io non ce l’ho, De André un pochino riusciva, faceva delle note basse importanti. Infatti a me piaceva molto quando cantava così all’inizio. Sai che la moglie di De André – non Dori Ghezzi, la moglie storica – disse una volta una cosa divertentissima. Si riferiva al periodo in cui io avevo lavorato con Fabrizio per scrivere un album insieme, e lei era venuta a trovarci all’inizio di questo lavoro e poi è tornata alla fine, dopo un mese… In Sardegna, in una casa di Fabrizio in Sardegna. E lei a distanza di anni disse: “Lasciai De Gregori e De André che erano De Gregori e De André, poi alla fine De André cantava come De Gregori”. E lui non era attratto da me, quanto dai miei maestri: da Dylan. Dylan glielo feci un po’ conoscere io; lui conosceva il mondo francese, quindi conosceva Cohen perché essendo canadese veniva da là; però Dylan lo guardava un po’ con sospetto. Credo di avergli rotto le scatole per un mese con Dylan, gli feci sentire tutto… il motivo per cui c’eravamo incontrati era che lui aveva sentito “Desolation Row” fatta da me, la voleva rifare, quindi poi la traducemmo insieme. Addirittura io partecipai alla session dove venne registrata, quindi mi chiamò a Milano per suonare la chitarra e l’armonica su “Desolation Row”. Lui era molto forte con queste note basse, impressionanti. Un po’ lasciò perdere perché si lasciò affascinare dal canto.

(Torniamo a parlare del problema “cantautore”.)
Sì c’è questo equivoco che il cantautore…
Ma come si è formato questo equivoco?
Verso l’inizio degli anni 70… Fin lì, levati alcuni esempi fantastici tipo Gino Paoli o Endrigo, il mondo della musica leggera era fatto di autori e di interpreti, c’erano i grandi autori di canzoni, i grandi parolieri, poi c’erano gli interpreti che potevano essere Iva Zanicchi, Caterina Caselli, o Mina. E poi c’era una pattuglia di autori che andavano da Pallavicini, a Mogol. C’era poi Paoli, De André che era poco conosciuto: alcuni che venivano definiti cantautori. Paoli veniva identificato con un ruolo abbastanza lugubre, sempre con gli occhiali da sole, esistenzialista, cultura francese… Però con me e Bennato e Venditti e Baglioni, coevi proprio come nascita, improvvisamente i cantautori diventano la parte dominante del mercato e dell’attenzione. Prima dell’attenzione del pubblico giovanile, poi del mercato. Quindi si forma una categoria di cantautori, che sono la musica emergente italiana, e in quel momento proprio si volta pagina: la musica leggera italiana volta pagina. Per questo i cantautori poi diventano un simbolo. Infatti ogni mio coetaneo, nel ‘71, nel ’72, voleva suonare la chitarra ed esprimersi attraverso la scrittura di una canzone, e questo lo facevano tantissimi. Ci fu una fioritura di cantautori e il pubblico giovanile era attratto dai cantautori come oggi sono attratti dall’hip hop o dal rap, dal fenomeno musicale e culturale che sembrava più diretto e girava pagina con il mondo di Iva Zanicchi, di Gianni Morandi, di Caterina Caselli… E improvvisamente divennero appartenenti al passato musicale. Questo non vuol dire che prima non esistessero i cantautori: ti ho detto Paoli ma potevo dire Modugno, in qualche modo Battisti. Anche se non si scriveva le parole, più ci penso e più sono convinto che Battisti sia stato il più grande cantautore, nel senso che la sua parte autorale nelle cose che faceva – anche se poi c’era Mogol di mezzo – è predominante. È stato un autore che ha sparigliato.
E per quanto riguarda l’artigianato del cantare, lo stile di canto, come cambiavano le regole i cantautori? Voi non studiavate canto.
Guarda, all’inizio non sapendo cantare tranne alcuni che cantavano bene o per grande forza naturale, un talento innato. Nel mio caso io non sapevo cantare: ora ho trovato il mio modo ma allora ero legato alle cose che cantavo, al testo…
Le influenze di Baglioni, di Venditti, quali erano?
Ti dico Antonello perché Baglioni lo conoscevo poco, lo frequentavo poco. Credo per Antonello Elton John, per quella parte pianistica. Credo che me l’abbia fatto sentire lui… “Your Song”… Ma poi le influenze erano comuni, lì era il periodo della West Coast, Crosby Stills & Nash.
Neil Young, tu…?
Be’ insieme a Dylan uno dei più grandi. È uscita o sta per uscire una sua autobiografia.
Dicono che è abbastanza delirante.
Sì, me l’hanno detto: i primi tre capitoli parlano di trenini elettrici perché lui è un amante dei trenini elettrici.
Quando vi siete affermati, com’era il rapporto con l’estero? Era una cosa così basata sull’italiano… Andavate a suonare fuori?
No, no, nessuno di noi in particolare.
Vi capitava di incontrare musicisti stranieri, di scambiare…
Non musicisti famosi, però in quel periodo facevano tutti i dischi all’RCA, sulla via Tiburtina, e c’era una specie di consorteria inglese che stazionava lì, che erano musicisti molto bravi, ti dico i nomi: Derek Wilson, Dave Summer, Douglas Meakin… Erano venuti in Italia presso Mal, erano buona parte dell’entourage dei Primitives, e poi si erano stanziati all’RCA, erano credo stipendiati dall’RCA, facevano da home band e suonarono sia per i provini che in certi casi per i dischi, un po’ per tutti noi, quindi ci fu una specie di scuola estera tecnica che fu importante, ecco. Anche molti turnisti italiani impararono molte cose da questi inglesi, che sapevano in effetti suonare meglio di noi la musica che noi volevamo fare, il rock, è qui il concetto… Derek Wilson era un batterista che ha cambiato il modo di suonare di molti batteristi italiani. Antonello ancora credo che lavori con Derek alla batteria…
Mi ricordo, questo è qualche anno dopo, quando Lou Reed era già famoso, aveva già fatto Walk On The Wild Side. Venne a fare un concerto a Roma… forse ‘75… e venne a fare delle prove della sua band dentro lo studio dell’RCA, e noi chiaramente sapevamo che doveva venire lui, puoi capire, eravamo in fibrillazione. E io riuscii a vedere un po’ di questa prova perché mi intrufolai in regia per non farmi vedere perché lui era incazzoso e non voleva nessuno, giustamente. Assistetti a un po’ di queste prove.
E c’era qualcosa da imparare dal suo atteggiamento in studio?
Mah, il suo atteggiamento in studio non so quale fosse, non lo notai più di tanto, però la potenza di suono che emetteva con la sola sua chitarra era impressionante…
Questa è una cosa che mi ha sempre colpito, come suona la chitarra…
Lui c’ha un suono molto curato, passa ore a guardarsi tutto, mettere a punto il suono, prima di fare l’accordo e questo era impressionante, allora io lì capii, capimmo un po’ tutti la differenza di suono. E noi cercavamo di avere un suono americano, più americano che inglese, e credevamo che fosse un problema di tecnica, di strumentazione tecnica, di compressori, di mixer, di microfoni… Lì capimmo che invece no: questo stava usando il nostro stesso materiale però faceva così e veniva fuori qualcosa che noi avremmo tanto desiderato possedere…
Lui è un mago della pennata, perché non fa mai sembrare la chitarra una cosa leggera, sembra sempre durissima…
Quello e la voce fanno tutto capito?
Quindi comunque voi volevate importare delle cose, però poi avete creato una cosa completamente diversa.
Be’, sì, come sempre succede: prelevi, fai dei prelievi e poi chiaramente nelle tue mani diventano una cosa terza, vale anche per la letteratura, la pittura…
Mi interessa sapere com’è entrato nella tua musica quel suono più solare, che sembra un po’ tutto una crociera, al di là del fatto di Titanic voglio dire.
Sai cos’è, forse a un certo punto io, sempre con questa smania di non esser essere il cantautore che ero, ho cercato di dare una ritmica più importante ai miei pezzi perché io sono partito con la chitarra facendo fingerpicking, una linea melodica che non aveva bisogno di grandi lineamenti ritmici dietro tant’è che quando doveva suonarla un batterista non sapeva esattamente cosa fare… Quindi poi in questa ricerca ritmica sono andato a cercare le cose più appariscenti, che vanno dal calipso alla rumba… Quelli sono i movimenti ritmici che a un certo punto ho detto vabbè, tutto sommato questi reggono anche un testo molto narrativo, molto più del rock in sé e per sé. Adesso non ti so spiegare tecnicamente però se assumi come rock in sé e per sé i Rolling Stones, per dire, su quel tipo di ritmica, la ritmica di “Satisfaction” scrivere un testo italiano è ridicolo, senza cadere in tronche… mentre invece queste ritmiche che ti stavo dicendo io, derivate da qualcosa di europeo, c’è qualcosa di… reggono anche il testo di una canzone come Titanic che è una lunghissima litania, senza molte tronche, non troppe per lo meno, e riescono ad avere una scansione ritmica importante, quindi forse quello…
Anche “Caterina”… Quali sono stati i primi pezzi che hai fatto in questo… te lo ricordi?
Titanic…
Lì hai dovuto cercare musicisti però che sapessero fare queste cose… cioè…
Ma lì imparavamo un po’ tutti insieme. Mi ricordo che alla fine però, ecco, arrivò un batterista inglese a finire il lavoro, avevamo registrato tutto ma non mi piaceva la parte della batteria… E alla fine venne un batterista punk, Chris Whitten, ragazzo giovanissimo: appena lo vidi mi fece paura, aveva un’enorme cresta in testa, un vero mercenario. Però insomma avevo sentito come suonava e mi piaceva. E nonostante il suo aspetto si mise a suonare queste cose con un amore e una professionalità unica e finì tutto il lavoro in due giorni. Risuonò la batteria sui pezzi dove avevano già suonato con la batteria e non andava bene e rifacemmo tutte le batterie…

 


E Bufalo Bill invece è di metà anni ’70… 76? C’era Ivan Graziani…
C’è sul disco perché io ricordo che Ivan suonava con noi spesso ma in session improvvisate come spesso succedeva all’RCA. Ti dicevo, c’erano questi turnisti che stazionavano là, in realtà stazionavamo tutti lì, però dovresti capire cos’era l’RCA allora: era da una parte un grande ministero, con uffici e vari parti, la promozione il marketing creativo… All’altezza dell’uscita del grande raccordo naturale, molto facile da raggiungere…
La vostra Highway 61… La Tiburtina poi era una zona industriale, un po’ sbrindellata…
Sì, era una zona industriale e infatti c’erano questi capannoni, no capannoni, erano edifici belli ma erano in mezzo alle fabbriche, c’era anche la fabbrica dei dischi, lì si stampavano i dischi… C’erano i magazzini e la stampa dei dischi… Poi gli uffici che ti ho detto e gli studi. Gli studi erano aperti, e ce n’erano tanti: c’erano quattro studi enormi dove si poteva registrare anche la grande orchestra, e c’erano altrettanti o forse sei studi medio piccoli che spesso erano vuoti perché non c’era tanto da fare, non si facevano tanti dischi come oggi, la produzione dei dischi in Italia era molto fievole… senonché, siccome comunque i fonici erano stipendiati…
E anche voi eravate stipendiati?

Stipendiati noi no… però erano stipendiati i fonici e molti dei turnisti per intenderci… il che faceva sì che la società senza aggravi di spesa poteva tranquillamente concedere a tutti noi artisti, artistoidi, artistucci che giravamo lì, la possibilità di suonare dentro lo studio e lavorare…
Poi suonavi con gente brava…
Sì, poi c’era un enorme bar, dove si passavano le ore in serenità e letizia…
Quindi tu verso che ora andavi?
Ma io anche la mattina perché non avevo veramente niente da fare. Sapevo che lì avrei incontrato amici, gente simpatica… Andavamo a mangiarci qualcosa sulla Tiburtina, questi ristoranti sai da camionisti che c’erano… Quindi si stava lì e si passava il tempo lì e si diceva “Sai c’ho un’idea, senti questo pezzo”… E quindi al bar ti facevano sentire, magari Ivan, “Andiamo a vedere se ci fanno registrare un provino allo Studio E”… Allo Studio E “possiamo fare una cosa per mezz’ora?”, “Fate…” Sai, solo a Roma, a Milano non si sarebbe potuto fare…
Quindi tu eri andato a cazzeggiare e ti ritrovavi col demo.
Col demo e col disco… No era veramente una specie di età dell’oro rispetto a come oggi si pensano e si producono i dischi.
(Torniamo all’inizio del pranzo: prima di parlare della composizione, mi aveva raccontato di com’è suonare dal vivo, girare l’Italia, perdere tempo prima del concerto.)
A volte dura diciotto ore al giorno fra spostamenti cose, prove… però è sempre molto… caotico, disordinato…
Non potrei mai fare il cantante e andare in viaggio tutte le ore vuote tra una cosa e l’altra, impazzirei.
Devo dire, ha il suo fascino.

 Prendiamo il Never Ending Tour di Bob Dylan per capire questa estrema possibilità del…
Io penso che Dylan abbia tirato l’elastico all’estremo perché la mia idea, che mi sono fatto, è che Dylan ami la musica in modo talmente totale che tutto il resto della sua vita vuole… Vuole stare solo lì. E allora anche in situazioni diciamo non dico indegne di Dylan, ma anche posti piccoli… In Italia quest’anno è venuto a suonare in un paesino del Piemonte su una piazza che poteva tenere duemila, tremila persone. Da Dylan non ti aspetti questa cosa, ti aspetti che faccia diecimila persone. Lui vuole solo continuare e ogni tanto si prende delle pause di due tre mesi ma poi insomma appena può…
Insomma come funziona la parte fisica di questo lavoro?
La parte fisica consiste nel trasportare le cose che io ho scritto e che poi ho registrato sul disco, portarle in una dimensione calda dove la verifica di quello che io canto è immediata, dura due ore, io in due ore canto ventidue canzoni che sono un bel pezzo, le cambio abbastanza spesso… Non cambio solo gli arrangiamenti, cambio proprio la scaletta per non avere un senso della routine e tutto quanto. E in due ore c’ho un riassunto di tutto il mio lavoro di autore e un confronto immediato.
Come avviene questo effetto? Come si capisce la presa dei vari pezzi, della struttura, della band?
Be’ una serata che va bene da una serata che va male si distingue dal fatto che ti battono le mani in modo più convinto… C’è anche un tipo di attenzione, tu capisci anche questo, non capisci solo l’applauso ma anche quanto il silenzio mentre tu stai lavorando sia un silenzio che non deriva dalla noia ma dall’attenzione, a volte dalla commozione o dall’emozione… E queste sono cose che tu non provi mentre scrivi e non provi nemmeno mentre registri un disco in una sala di registrazione che davanti c’hai un vetro, hai musicisti con cui intrattieni un rapporto più tecnico… E poi canti canzoni che nel mio caso vanno da quella scritta nel ‘73 a quella scritta nel 2012…
Com’è alternarle?
Alternarle anche questo è interessante perché chiaramente io cerco – spontaneamente vorrei dire trovo – un’unità in tutto quello che faccio… Tra un pezzo del ‘75 e uno del 2012 a me non mi sembra di essere un uomo diverso e in realtà non sono un uomo diverso… Suonare dal vivo mi permette anche di restituire contemporaneità, attraverso il suono che produco che non è più quello del disco, alla canzone del ‘75 o del ’73. Quindi riporto un po’ tutto quanto sul terreno del giorno in cui sto lavorando: perché anche “Buonanotte Fiorellino” che io mi diverto a farla, deve diventare qualche cosa che abbia a che fare…
Qual è il punto più lontano a cui hai portano “Buonanotte Fiorellino”? Suonandola per darle una…
Adesso prima la faccio tutta quanta in una versione molto simile all’originale. Chitarra, pianoforte, basso, batteria ma suonato molto soft, molto molto piano… E poi la rifaccio tutta quanta di nuovo attaccata in una versione che cita ampiamente una canzone di Dylan che è “Rainy Day Women…” [Canticchia, NdR] E quindi metto a confronto una cosa tradizionale, storicamente depositata nella memoria un po’ di tutti, non solo della mia, con una versione che sento in qualche modo diversa…

Quando la serata va male, il pubblico è distratto, con che spirito tiri avanti?
Be’ direi che il professionismo in quel senso lì è molto importante… non è che come dire, visto che la serata va male allora canti in modo scazzato, cerchi di dare comunque il massimo… poi ti rendi conto che, per qualche misterioso motivo, o tu non sei abbastanza in forma, che può succedere, o il suono tecnicamente, perché gli altoparlanti sono messi male, succede questo, ti tocca un suono sbagliato, o il pubblico si aspettava una cosa diversa… Allora capisci che qualcosa non funziona, non sai bene cos’è però devi fare il tuo spettacolo, devi cercare di dare il meglio… Quando hai finito te lo dici con quelli della band “che è successo?” “e chi lo sa!”, perché non è che puoi saperlo, ma succedere raramente comunque eh… quando magari capiti in un posto sbagliato, quando hanno messo un biglietto troppo alto allora ti ritrovi le prime file che sono persone che hanno pagato molti denari e vogliono da me le cose classiche e basta, capito? Oppure cose banalmente tecniche, ad esempio in molti teatri all’italiana il palcoscenico davanti è molto profondo e noi suoniamo qua perché qui sotto c’è la buca dell’orchestra che non è praticabile per vari motivi, quindi noi abbiamo davanti almeno tre quattro metri prima della prima fila fisica di poltrone: questa è una distanza che rende tutto molto difficile, perché tu non li vedi e non li senti… Tu devi sentirlo, se lo senti ti aiuta molto. Se invece non lo senti perché stanno lontani oppure sono troppo composti e magari stai facendo un teatro storico importante, sei al Valle di Reggio Emilia e lì la gente entra a teatro con un atteggiamento di ascolto totalmente diverso di quello che ci può essere se sono all’Atlantico di Roma o all’Alcatraz di Milano, nei locali dove spesso mi piace andare perché so che lì c’è gente in piedi che magari beve, beve la birra mentre sto cantando…
Certo in teatro non puoi bere.
Non solo non puoi bere, hai anche l’idea che devi stare composto. Questo poi si supera, eh. Nella maggior parte delle serate mi diverto tantissimo. Nelle piazze d’estate… Però delle piccole differenze derivano anche dal tipo di posto dove vado a suonare…
Allora, intorno all’esibizione come si passa il tempo, quanto dura la procedura?
Mah dipende dai chilometri che uno deve fare per andare da un posto all’altro, di solito si viaggia e questo può richiedere una mattinata, partendo la mattina anche presto. Io c’ho da arrivare in un posto in cui devo suonare all’ora di pranzo, per poi stare in albergo fino alle 4.30, le 5, e poi parte il discorso del soundcheck, del controllo del suono del posto, si va lì e o si rimane lì fino alle 21 oppure se è vicino all’albergo si torna in albergo…
Quando arrivi in albergo che fai? Dormi, mangi?
Dormo, leggo, guardo la televisione. Raramente vado in giro a piedi perché, non lo so… è un modo di concentrazione per lo spettacolo della sera. Comunque se la sera devi lavorare non hai quella disposizione d’animo che ti consente di entrare in una galleria d’arte, in un museo, o anche visitare il centro storico di una città spensieratamente. Non è mai vacanza, ecco. Anche se sei a Verona, sei a Venezia, sei in una città dove veramente c’è gente che viene dal Texas per vedersela un pomeriggio, però io non sono in quella disposizione d’animo…
E quando sei nel teatro, nel posto del concerto, come passano le ore?
Quando sto in camerino? Be’ fondamentalmente è una rottura di scatole…
Ma guardi l’orologio? Stai lì, ci rinunci?
Be’, non vedo l’ora di cominciare sì poi c’è sempre qualcuno che ti viene a trovare o comunque passo il tempo con i musicisti che lavorano con me. È come fare il militare, si aspetta si aspetta si aspetta… A volte capita anche che tu in camerino abbia da mettere a punto alcune cose per il concerto della sera allora magari stai lì con due chitarre… Oppure provi a scrivere qualche cose, e qui arriviamo forse al tema di come si scrive una canzone, che è fatta di momenti, ci stai otto mesi, un anno, due anni… Quindi magari c’è qualcosa che hai in testa, delle parole, degli accordi, e non avendo proprio niente da fare per due ore stai lì e se hai voglia ci giri intorno, no?

 

le foto della band sono di Valeria Bissacco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Set fotografici presenti su Flickr riguardanti alcuni concerti di Francesco De Gregori.

 

I GRANDI FOTOGRAFI DI FRANCESCO

Daniele Barraco

Valeria Bissacco

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Giovanni Gastel Renzo  Chiesa