Prodotto da Caravan in collaborazione con Rai Cinema -  Durata: 79 minuti, Colore

DANIELE BARRACO Photography

Vero dal vivo è il film documentario girato durante il tour di Francesco De Gregori nei club d’Europa e degli Stati Uniti.

Attraverso gli occhi del film-maker Daniele Barraco, Francesco De Gregori  si mostra in totale libertà, senza schemi, ironico e inconsueto,

avvolto da nuvole di fumo muove passi sulle note delle sue canzoni tra palchi, backstage, viaggi, accompagnato dalla sua fedele band.

 

 

 

 

«Eh, lo sapevo! Tutte le volte. Non mi abituerò mai, sembra di bere sabbia!»

«Devi lasciar depositare il fondo, bisogna saper aspettare. Sentire il profumo e aspettare. E’ questo il piacere.»

«Ma cosa stai dicendo? Un caffè è un caffè, tu vai in un bar, è la cosa più veloce, prendi un caffè lo pigli e te ne vai. E che cazzo, cosa devi aspettare?»

 

Questo è quello che rispose l'ansioso soldato Corrado Noventa al Sergente Lo Russo in uno splendido angolo di Paradiso, dove naufragarono e vissero per tre anni.

L'incollerito e sofferente Noventa non capì Lo Russo che cercava di dirgli quanto fosse bello assaporare il retrogusto, cioè il meglio che rimane sotto nella tazzina e che risale al palato per far conoscere sapori nuovi che non si erano percepiti per la fretta di ingurgitare subito, come fece lo sbrigativo Corrado. E' questo il segreto per conoscere a fondo le cose belle, rivederle e scovare particolari nascosti con il piacere di scoprirli.

Come questo documentario.

Dedicato al diario di viaggio, città per città, del tour di De Gregori in Europa e negli Stati Uniti, ho visto due volte Vero dal Vivo e mi piace sempre di più. Non l'ho voluto vedere con gli occhi del fan ma come uno spettatore attento alla fotografia e al montaggio di un documentario che tale deve rimanere, con i suoi tempi tecnici e le sue caratteristiche fasi.

Come dice il capobanda Guglielminetti, uno come De Gregori può permettersi il lusso di non fare altro nella sua carriera e vivere di rendita anche artistica perchè, dopo aver scritto cose come La donna cannone, non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno, vivendo beatamente una dorata vecchiaia piena di glorie e ricchezze.

Mannaggia alla musica..... però, però non lo fa, non ci riesce. Ne è stregato, non riesce a staccarsene nemmeno per poco, come una sua canzone va ancora alla deriva della musica mentre lui canta ancora, ancora canta, perchè dovunque lui sarà, lei sarà al suo fianco. Al contrario di altri suoi colleghi, dentro di lui c'è ancora viva quella stramaledetta voglia di giocare ancora, di rimettersi in gioco e salire sul cavalluccio di quella giostra che lo rende, ogni volta, felice come un bambino. Una volta disse che dopo una settimana senza suonare, senza il palco o senza sbarrare gli occhi davanti a quel "nero" che magicamente gli chiede qualcosa..... si annoia. Sì, viaggia, va a conferenze, ritira premi letterari, va a trovare gli amici che lo invitano, ma privo di quelle vitali sensazioni si sente un uomo perduto. Da splendido sessantenne, oggi si tuffa in qualsiasi cosa che produca arte e che non lo faccia tediare. Per lui, vivere il suo mestiere è come respirare, e se in quei momenti di pausa gli togli anche il fumo, la sua noia si trasforma in tragedia. Qualcuno scrisse che durante il tour con Dalla riprese a fumare dopo 25 anni. Non è vero, smise di fumare durante il tour del Fischio del vapore ma l'astinenza durò appena un paio di settimane per poi passare al Toscano. Sì, fuma molto, ha sempre fumato. Ma a noi cosa ce ne frega, dobbiamo aspirare o ascoltare?

Da un po' ha spesso spalancato le porte di casa ma, anche se possa apparire come una rarità, non è la prima volta che Francesco apre la sua sfera privata. Lo fece già ai tempi di Fuoco amico, quando in uno speciale Rai accolse a casa sua (sacrilegio!) Greg Choen e poi scesero per le scale condominiali, e poi in auto a canticchiare una canzoncina di cartoni per bambini, come lanciare un primo messaggio al suo pubblico: "Guardate che non sono io quello che state cercando".

Questo per dire che dopo il suo "presunto" passato di ossessivo tutore della sua sfera familiare e di quella famosa nomea di burbero e superbo, con Vero dal vivo Francesco si è finalmente liberato da quel clichè lasciandosi andare e regalando finalmente ai suoi ammiratori quello che hanno sempre desiderato di vedere o sapere. Per vederlo litigare tra il suo notebook e il bluetooth del suo cellulare, cantare Singing in the rain per le strade di New York, inseguire qualcosa arrivata ormai nel Tamigi, molti suoi fans avrebbero fatto carte false. Tanti anni fa era impensabile vederlo ridere a crepapelle sbattendo la testa sul tavolo di un bar anglosassone, mentre Chicca, al volo e fra le risate, dirotta altrove l'ennesima birra che lui aveva acchiappato in sordina!

Credo che in questa avventura si sia divertito tantissimo, e come lui anche i suoi compagni di viaggio. Indimenticabile vedere Giovenchi che tenta di far ricrescere, col tocco della mano, i capelli a Valle mentre lo zio Fester esegue un fedelissimo inizio di Teach your children di CS&N, oppure Gaudiello che per la gioia esce quasi fuori dal finestrino del pullman dopo aver vinto al 90° la sua partita a Fifa 2016.

Insomma, questo è De Gregori dal vivo veramente, collaudato anche dal sottoscritto che conosce ormai la sua camminata, il modo di muovere le mani e lo sguardo dei suoi occhi verdi. Quel "dietro le quinte" che in molti, con famelica curiosità, hanno bramato per anni. Ecco, da qui il titolo VERO DAL VIVO. Il ragazzo - perchè trattasi ancora di ragazzo nell'anima - è ancora sempre quello originale degli anni Settanta e del Folkstudio, senza puzze al naso come dicono e lontano da quel personaggio che la gente aveva un po' mitizzato. Lui da qualche tempo ci mette davvero tanto impegno per far capire che non era quello che asciugava il pianto delle delusioni amorose di molti italiani.

Se ha autorizzato Daniele Barraco (a cui faccio i più lusinghieri complimenti anche per il suo modo di essere invisibile e soprattutto abile nello "scansarsi" sul passaggio del Principe) a lasciare certe scene, vuole dire che Ciccio è rimasto abbastanza soddisfatto e compiaciuto del lavoro.

Le sue canzoni Le strade di Roma, Buonanotte Fiorellino, Buenos Aires, Vai in africa Celestino, Deriva, Cose, Generale, la leva calcistica, I matti, Passato remoto, Cose, volutamente interrotte e in rigorosa versione backstage (perché trattasi di un documentario e non di DVD live), sono pennellate intinte un po’ qua e un po’ là, con discrezione, sulle orme lasciate da un famoso paio di mocassini bianchi.

Non vorrei far la parte di quello che è di parte, ma un'opera d'arte che sia visiva, pittorica o letteraria merita almeno un bis. Quindi rivolgo uno spassionato consiglio: riguardatevelo. Scoprirete ogni volta cose nuove e belle. La prima volta che vidi il documentario dedicato a Dylan "No directon Home", di Scorsese, non mi piacque. Ad oggi lo avrò rivisto 6 o 7 volte, come Amarcord o Nuovo Cinema Paradiso.

Quando osservate o ascoltate qualcosa, annusate e gustate gli altri residui che il fondo della tazzina vi aveva nascosto per tenerveli da parte a un secondo assaggio. Poi assaporate lentamente ed esplorateli, magari discutendo col Pope al tavolino di una tranquilla piazzetta greca. Quasi come una terapia per l'anima.

 

(Il Nostromo)

 

 

 

 

 

Nel documentario di Daniele Barraco andato in onda il 1° dicembre su Raitre, un inedito De Gregori si racconta fra il Bataclan e Boston, tra Stati Uniti ed Europa, nel suo tour invernale 2017.

Il mondo di Francesco De Gregori è sempre lì, tra il manifesto e lo specchio, i viaggi e i miraggi, le sere in cui tira fuori la fisarmonica, ne accende una e l’emozione si libera inseguendo un ricordo, un verso, una canzone. Ci sono gli amori perduti e quelli solo immaginati, quelli dimenticati e quelli con la pistola, quelli eterni che vagano nella sua costellazione e diventano storia, anema e core, pezzi da dividere sul palco con sua moglie Alessandra, la cheyenne, «la mia ragazza, una ragazza che ho conosciuto tanto tempo fa, la mia sposa» con cui cercare un ristorante a Zurigo dopo le dieci di sera superando un apparente coprifuoco, pensando che la notte non sia sempre crucca e assassina.

Un film in cui il cantautore sfodera anche una immagine inedita, senza né barba né cappello. «Ho dovuto tagliare la barba per indossare una nuova maschera subacquea, in vacanza in Grecia», ha raccontato il cantautore divertito, «e poi boh, non l’ho fatta più ricrescere. Semplicemente non pensavo fosse importante, ma forse non volevo più essere prigioniero di una fotografia».

Un tempo era quello burbero, schivo, di poche parole (ancorché preziose). Oggi sorride, scherza, non si sottrae alle domande, anzi risponde in libertà (quasi con goliardia). Sprizza un entusiasmo da fare invidia, Francesco De Gregori, 67 anni, alla presentazione a Milano del suo nuovo progetto live. Un progetto «doppio», che lo vedrà impegnato parecchio, nel 2019 a venire.

Per vederlo dal vivo ci saranno presto molte occasioni: prima con Francesco De Gregori Off The Record, una residency fissa a Roma di concerti «piccoli» ed esclusivi, presso il teatro Garbatella, ex sala parrocchiale di 200 posti appena. Poi, in estate, con Greatest Hits Live, un tour con band e orchestra di quaranta elementi (tra cui l’apprezzato quartetto degli Gnu Quartet) che lo vedrà esibirsi su e giù per l’Italia, in alcuni dei luoghi più magici del nostro Paese: le Terme di Caracalla (11 giugno), il teatro Antico di Taormina (15 giugno), Lucca Summer Festival (30 giugno), per finire all’Arena di Verona il 30 settembre (prevendite su ticketone a partire da mercoledì 21 novembre, informazioni su www.fepgroup.it).

https://www.vanityfair.it/music/concerti-eventi/2018/11/20/francesco-de-gregori-progetti-live-concerti-orchestra-off-record-garbatella-moglie

 

 

 

 

 

 

 

 

VERO DAL VIVO - Il ritratto inedito di Francesco De Gregori

 "Vero dal Vivo". Francesco De Gregori è il primo film del fotografo e filmaker Daniele Barraco che ripercorre il tour invernale 2017 di De Gregori e la sua band nei più importanti club europei e negli Stati Uniti. La leva calcistica della classe ’68, Generale, Alice, Due zingari e i ricordi dei suoi fan intervistati durante concerti. Evento Speciale alla Festa del Cinema di Roma

  

FESTA DI ROMA 13 - Il ritratto inedito di Francesco De Gregori

Francesco De Gregori Attraverso gli occhi di Daniele Barraco scorrono le immagini della vita in tournée e nei backstage: le lunghe attese, le prove, i concerti e “l’abbraccio” del “Principe” con il pubblico. Quello che viene fuori è un De Gregori inedito, ormai cambiato nell’aspetto e nell’atteggiamento: non c’è più l’iconico cappello Homburg, gli occhiali scuri e la lunga barba rossiccia. E neanche quell’atteggiamento da burbero con il quale è sempre stato bollato. “Un uomo di spettacolo si osserva, si piace per un certo periodo con gli occhiali scuri e allora è una comodità salire sul palco e già sapere che hai un’armatura e poi a un certo punto capisci che non serve … sono i cambiamenti che avvengono dentro che sono più importanti, non sono corrispondenti a un cappello o a un paio di occhiali …”

 Francesco De Gregori si mostra, così, in tutta la sua verità: invecchiato, continuamente avvolto in una nuvola di fumo, una sigaretta dietro l’altra, cordiale con i suoi musicisti, concentrato durante le prove. E poi innamorato della sua “ragazza” Alessandra Gobbi che lo segue come un’ombra: sempre con discrezione e pudore, la loro complicità traspare dai lunghi sguardi in silenzio e da quella canzone continuamente sussurrata e cantata insieme anche sul palco: Anema e core.

 Ma c’è anche il rapporto con il pubblico, in questo caso quello degli italiani all’estero che lo “sentono” maggiormente proprio perché lontani da casa, entusiasti di vedere in concerto De Gregori nella loro città di adozione: da Monaco a Parigi, Barraco intervista i fan che si lasciano andare ai ricordi d’infanzia accompagnati dalle sue canzoni. Ovviamente ci sono anche quelle: La leva calcistica della classe ’68, Generale, Alice, Due zingari… La camera si concentra sui primi piani di Francesco De Gregori, perso nelle parole di quelle canzoni indimenticabili.

 Ed è solo attraverso queste che il cantante parla durante tutta la durata del documentario: se si esclude l’incipit e alcune dichiarazioni finali, quello che manca a completare il quadro sono proprio le sue parole sostituite da lunghi silenzi, dalle estenuanti riprese dei momenti morti che forse, nell’intento del regista, hanno proprio lo scopo di comunicare pienamente l’atmosfera, le sensazioni, la densità della vita da musicista.

 Caterina Sabato

https://www.cinemaitaliano.info/news/48868/festa-di-roma-13-il-ritratto-inedito-di-francesco.html

 

 

 

 

 

 

 

DAL NOSTRO INVIATO NEW YORKQUANDO

alla sala concerti della Town Hall si riaccendono le luci, gli occhi di Francesco De Gregori brillano più delle medaglie al collo dei non pochi spettatori che poco più di 48 ore prima hanno completato la maratona di New York. Anche i runner, pur con le gambe ancor dolenti, sono in piedi con gli altri ad applaudire il cantautore, che a 66 anni ha debuttato negli Stati Uniti.

Quasi un paradosso, per uno che ha spesso inserito — anche in anni in cui non era facile farlo, per ignoranza sul resto del mondo musicale e pregiudizi politici — l’America nelle sue canzoni, non nascondendo mai Bob Dylan tra le ispirazioni. «Poteva succedere in passato», ammette, «e invece doveva andare così. Ma è stato un caso, un’opportunità colta al volo». Non sembra un caso, però, la Town Hall: attaccata a Times Square, fondata da suffragette, tradizione di musica di qualità che va da Billie Holiday a Duke Ellington, da Nina Simone a Pete Seeger.

E il 12 aprile 1963 Bob Dylan tenne qui il primo concerto al di fuori dei club del Greenwich Village.

«Tutto vero, ma l’ho scoperto solo in seguito. Certo mi ha emozionato cantare qui Non è buio ancora, mia traduzione di Not dark yet che faceva parte di Amore e furto, il disco con cui ho omaggiato Dylan nel 2015. Avrei potuto metterne anche un’altra, ma mi sembrava troppo: in fondo il tour riguarda me e le mie canzoni, e lui è solo una delle tante influenze nella mia musica. C’è tanto della melodia italiana in me, mi sembrava giusto portarla all’estero, specie in una città dove gli italiani trapiantati sono tanti».

A proposito di melodia, ha sempre chiuso le date con “Anema e core” cantata assieme a sua moglie Alessandra Gobbi. Com’è nata la cosa?

«La stupirò per originalità: a Napoli. Eravamo in uno dei ristoranti più tipici, Zi Teresa, e speravo che arrivasse un posteggiatore, i menestrelli che cantano le melodie tradizionali. Incredibilmente neanche uno. E allora intonai io Anema e core. Così è nata l’idea di condividerla. Chicca, come tutti chiamiamo mia moglie, sa cantare, è anche in un coro di Giovanna Marini. Ed è piaciuta a entrambi l’idea di chiudere le serate con un po’ della grande canzone napoletana».

Parliamo di New York. Prima volta da artista, non da viaggiatore.

«Guardi, ci vengo dal 1976. Che posso dirle che non sia già stato detto? È affascinante, mi cattura il modo di vivere libero, senza che nessuno ti giudichi. E poi c’è un’etica del lavoro, forse purtroppo della competitività, che altrove manca. Camminare a New York è come muoversi su qualcosa di pulsante, di vivo».

E l’America?

«Giovanissima. Fa impressione che non arrivi a 250 anni come nazione, per noi abituati a millenarie radici storiche, artistiche e culturali. Un Paese ancora nuovo che mescola tutte le culture ed è in continuo cambiamento, nel bene e nel male. Ma non mi chieda di parlare di Trump. Anzi, neanche di politica, non saprei davvero cosa dirle».

In questo tour, il 20 ottobre è stato anche al Bataclan di Parigi. Che sensazione le ha fatto?

«Ho evitato di scendere in platea, temevo di vedere i segni dell’attentato. Ma la risposta migliore al terrorismo è stata proprio suonare lì, come in generale la risposta deve essere la normalità dei comportamenti. Parlavamo di New York: non sembra neppure che ci sia appena stato un attentato. C’è cautela, ci sono controlli, ma la vita procede. In questo, anche in questo, è un esempio ».

Tour finito, e adesso?

«E adesso mi faccio passare il raffreddore che mi è venuto in America e si vede. Una cosa che vorrei è registrare proprio Anema e core come singolo, per il divertimento che mi dà questo brano. Da questo tour non farò un disco live, anche se è stato bello: mi sono riappropriato di una parte del repertorio meno nota, come Buenos Aires e Due zingari, per rivendicare la voglia e il diritto di fare anche canzoni non famose, ma che magari lo sarebbero potute diventare se solo le radio le avessero trasmesse di più. E poi è stato un tour senza batteria, c’ero solo io che battevo il piede sul palco: ormai la maggior parte dei batteristi si buttano sull’elettronica, omologando il suono».

Ha pronti anche inediti?

«Pronti no. Come sempre ho foglietti, appunti, una frase, una battuta, un rigo appena, materiale sparso ovunque. Poi un giorno, chissà quando, mi diranno che potrei fare un tour più lungo se avessi delle canzoni nuove. E allora all’improvviso assemblerò tutto. Ma sarà un buttare di getto solo in apparenza, perché verrà dopo lunga sedimentazione».

Come vede la musica italiana? Tanti dicono che il cantautorato ora è rappresentato dai rapper: sono loro a raccontare la realtà come facevate voi.

«Senta, mi parlano della morte del cantautorato circa dal 1976, e siamo ancora qua. La verità è che c’è gente che lavora bene e gente che lavora male, esattamente come ci sono rapper che fanno cose ottime e altri pessime. Certo, raccontano il mondo con incisività, hanno grande attenzione alle parole, ma non hanno preso il nostro posto, si sono affiancati a noi. Non vedrei niente di male in una collaborazione, se fosse fondata artisticamente, ma nessuno me l’ha proposto e io non ho cercato nessuno».

Ha colpito il cambio di look: via la barba che la distingueva da sempre.

«Sa che me lo chiedete solo voi giornalisti? Al pubblico non frega niente. E non c’è nessun motivo nascosto, sono solo stato dal barbiere un giorno».

Di politica non vuol proprio parlare? Del mondo?

«Guardi, se vuole le posso indicare un’abbondante decina di miei colleghi che sono dispostissimi a parlare di tutto e su tutto. Io no, grazie. Ma non per reticenza: davvero non saprei cosa dire».

Ci dica almeno se è ottimista o pessimista.

«Sul mio futuro personale e professionale molto ottimista. Per il resto, mi creda non passo la mia vita a pensare al futuro del mondo».

Una volta però lo faceva, no?

«Eh, una volta leggevo anche la favola di Cappuccetto Rosso».

 

De Gregori, a New York, canta ai ragazzi andati in America per non morire

Francesco De Gregori incanta il The Town Hall di Manhattan, gremito di italiani, con un concerto di quasi due ore - di Iuri Moscardi - 08 Nov 2017

 

In un clima di grande intimità De Gregori, seppur "ospite", come un padrone di casa gentile e premuroso, introduce il pubblico alle sue canzoni ma senza mai imporsi. Accontenta i gusti dei suoi fan di ieri e di oggi cantando praticamente tutto il repertorio: da "La Storia" a "Titanic", da "Generale" a "La Donna Cannone", fino a "Rimmel" e "Alice". E chiude con un duetto al fianco della moglie

A Francesco De Gregori piace creare occasioni di incontro intime, anche a New York. Se vi sembra un paradosso, dal momento che parliamo di uno dei cantanti italiani più seguiti, la chiacchierata di lunedì sera, 7 novembre, alla Casa Italiana Zerilli Marimò e il concerto del “Principe” al Town Hall del giorno dopo lo hanno confermato. Infatti, i 1500 paganti del teatro si sono potuti godere appieno il cantante, concessosi senza ritrosie in una prova maiuscola.

Cantante bagnato, cantante fortunato, verrebbe da dire: il cielo sopra Manhattan è grigio, ma nemmeno la pioggia ferma i numerosi fan di De Gregori, che si dimostra ancora una volta capace di unire generazioni e nazionalità diverse grazie ai piccoli eroi e agli amori impossibili delle sue canzoni. Ad applaudirlo sono infatti moltissimi italiani, ai quali la melodia struggente di “Viva l’Italia” regala un po’ di nostalgia (nonché un solitario pugno chiuso alzato in mezzo al pubblico, memoria di un passato ideologico ormai abbandonato, ad accompagnare il passaggio “Viva l’Italia che resiste”), ma anche tanti americani, come la signora di mezza età seduta in platea che accompagna ritmicamente con la testa ogni nota e che si fa tradurre dal marito italiano le parole delle canzoni. Un pubblico eterogeneo anche per età: ci sono i fan storici, con i capelli bianchi, che si mostrano le foto di figli e nipoti sugli smartphone, prima dell’inizio del concerto; e ci sono i trentenni, che lo hanno scoperto più tardi e che ne apprezzano di più il repertorio storico.

Francesco De Gregori sale sul palco puntualissimo, alle 20.05. L’intimità da incontro tra amici è sottolineata dalla sobrietà del set: l’asta col microfono al centro, per lui, poi da sinistra a destra i quattro musicisti che lo accompagneranno con chitarre, basso, strumenti elettronici e piano. Non c’è la batteria, forse perché troppo baccano non serve. Il cantante è magrissimo, vestito di nero ma con mocassini bianchi, gli occhiali ma niente cappello: subito sommerso dagli applausi, ci tiene a specificare che questa è la prima volta che canta a New York, e questo gli fa un certo effetto.

La scaletta inizia con “Gambadilegno a Parigi”, canzone tratta dall’album “Pezzi” del 2005: il “Principe” presenta ogni canzone con una breve intro, spesso spiritosa e mai troppo esplicita, così che le note sgorghino sempre come una piccola sorpresa anche per le orecchie dei più affezionati. La prima parte del concerto scivola via all’insegna di quelle che lui stesso definisce, scherzando, delle «canzoni tristi o tristissime», aggiungendo però che tanto «se siamo allegri noi, che ce ne importa?». Tra le più intense “Il cuoco di Salò” (dall’album “Amore nel pomeriggio”, 2001) e “Non è buio ancora”, traduzione in italiano di “Not Dark Yet” di Bob Dylan. Dylan è un autore che il cantante ha rivisitato recentemente con l’album “De Gregori canta Bob Dylan – Amore e furto” del 2015: nel presentarla, ha scherzato sul suo «cantare in italiano, in America, la canzone di un cantante americano».

 «Ora invece ci divertiamo» introduce alla seconda parte del concerto, incentrata sulle canzoni più famose del suo repertorio, quelle che non hanno bisogno di introduzioni e per questo partono subito, magari lasciando spiazzati quando il cantante strimpella qualche nota a caso accordando la chitarra. Si parte con la recente “Vai in Africa, Celestino!” dall’album “Pezzi” (2005), e più avanza nel territorio della sua carriera più De Gregori regala al suo pubblico delle piccole chicche. Lo strumento principale del suo show è la voce, potente e fresca, identica al timbro che tutti quelli che come me non lo avevano finora ascoltato dal vivo conoscono. E poi con una mimica coinvolgente quando – come un direttore d’orchestra – agita le mani o allunga le braccia in una sorta di metaforico abbraccio nei confronti dei membri della band sul palco con lui. Il pubblico viene coinvolto sempre di più in un crescendo che passa da “La Storia” (con il famosissimo «La Storia siamo noi, nessuno si senta offeso») a “Titanic” (che in un’intervista a La Voce di New York aveva promesso di voler dedicare a quei “ragazzi di terza classe che per non morire si va in America”), fino a “Generale” (resa molto blues con l’accompagnamento dell’armonica al ritornello). Per arrivare a “Buonanotte fiorellino”, a “Rimmel”, e alle strepitose “Alice” e “La donna cannone”, che lascia cantare al pubblico al suo posto.

Come in ogni concerto che si rispetti, dopo quasi due ore De Gregori si ritira ma solo per essere richiamato a grandissima voce. A questo punto la sorpresa finale, perché insieme a lui c’è la moglie Alessandra Gobbi, una ragazza «che ho conosciuto tanto tempo fa e che mi è piaciuta così tanto da diventare la mia ragazza e poi mia moglie». Con lei, la sua Chicca, De Gregori regala al pubblico un duetto di “Anema e Core”, canzone napoletana di Salve D’Esposito e Tito Manlio incisa negli anni ’50: un ultimo messaggio di amore e di speranza.

Due ore di musica in un clima, come detto, di grande intimità. De Gregori, come un padrone di casa gentile e premuroso, introduce il pubblico alle sue canzoni ma senza mai imporsi. Accontenta i gusti dei suoi fan di ieri e di quelli di oggi cantando praticamente tutto il repertorio: uniche eccezioni “Il bandito e il campione” e le canzoni scritte con De André negli anni ’70, mentre non è mancato un toccante ricordo del grande amico Lucio Dalla con la sua “Gesù bambino”. Dopo la data di Boston, domenica 5 novembre, il tour americano di De Gregori si chiude con un grandissimo successo: buona la prima a New York, caro Principe, e arrivederci.

 

http://www.lavocedinewyork.com/arts/musica/2017/11/08/de-gregori-a-new-york-canta-ai-ragazzi-andati-in-america-per-non-morire/

 

 

 

Tra le pagine chiare e le pagine scure, De Gregori si racconta a New York

Il "Principe", ospite alla Casa Italiana NYU Zerilli-Marimò, ha svelato parte della sua musica alla vigilia del suo concerto alla The Town Hall

di Giovanna Pavesi

Francesco De Gregori alla Casa Italiana Zerilli-Marimò (Foto Shushu Chen)

07 Nov 2017

 

Francesco De Gregori, sul palco, sceglie di parlare in inglese. E spiega:

“Le persone trovano nelle canzoni parte della loro vita: perché le canzoni sono cose semplici, sono più semplici di un film o di un libro".

Le descrive come "un puzzle aperto: sono qualcosa che non ha soltanto una soluzione, non sono un’equazione. E non hanno soltanto una risposta, ma diverse interpretazioni"

La prima chitarra la portò a casa suo fratello, di sette anni più grande di lui. Gigi. Era la chitarra del nonno. Nato e cresciuto a Roma, come tutta la sua famiglia. Che prima di ogni altro, gli insegnò la musica e i suoi dettagli.

Per entrare si fa strada in silenzio, tra le persone rimaste in piedi, appoggiate al muro. Lì per ascoltarlo. È la sua prima volta a New York. Anche come cantante, in tanti anni di attività. Quasi intimidito, percorre lo spazio che separa l’ingresso dal palco, mentre nell’auditorium alcuni riconoscono la melodia di “Viva l’Italia”. Ha il passo svelto, ma tiene la testa bassa. Non indossa il cappello ed è vestito di nero. Porta una camicia e un maglione scuro e dei pantaloni semplici. Non è lì per cantare. Ma per raccontare le sfumature della sua vita artistica.

Per presentarlo, Stefano Albertini, direttore della Casa Italiana NYU Zerilli-Marimò, utilizza cinque parole: “Una leggenda della musica italiana”. E, come una leggenda, Francesco De Gregori è su quel palco. Sospeso a metà. Tra l’uomo e il cantautore. Tra gli applausi appassionati che lo accolgono e il silenzio, tra una domanda e l’altra.

Prima di sedersi, ringrazia la platea, di fronte a lui. Con un gesto sobrio. Ed elegante. Lucio Dalla l’aveva soprannominato “il Principe”. Aveva iniziato a chiamarlo così durante un tour fatto insieme. Sorride, quando glielo ricordano. Un appellativo affettuoso, che gli anni gli hanno cucito addosso. E che lui, ridendo, non prende nemmeno troppo sul serio: “Lucio era più sociale di me”, spiega facendo riferimento al suo essere più solitario. Ridono tutti.

Il pubblico in sala conosce l’italiano, ma lui parla e risponde in inglese. Ogni tanto, chiede conferma: “Si dice…?”. È lì per raccontare una parte dell’incanto contenuto nelle sue canzoni. Ripercorre il suo percorso artistico attraverso i ricordi: la prima musica ascoltata, le influenze, gli episodi di una vita racchiusi in versi che attraversano generazioni. Poi la cultura: letteratura, cinema, arte, poesia. Cita Shakespeare, il Dadaismo, la Divina Commedia, Picasso e Fellini.

La prima domanda del direttore della Casa Italiana NYU riguarda le sonorità della sua musica e le sue ispirazioni: “La prima musica ascoltata era quella che sentiva mia madre: l’opera. La Traviata, Puccini. Non riuscivo a comprendere le parole, anche se erano in italiano, perché la lirica è complessa. Poi mio fratello, più grande di sette anni, mi fece ascoltare Elvis Presley. Un genere molto diverso da quello che ascoltava mia madre (sorride, ndr). Sicuramente, le radici della mia musica, in parte, appartengono all’America. La prima canzone di Elvis che ricordo è ‘It’s now or never’, la versione americana di una celebre canzone napoletana. ‘O sole mio’”. L’America, De Gregori, l’ha conosciuta nella musica di Bob Dylan, al quale ha dedicato tanto lavoro, nei film, nelle “wester song” e nei fumetti.

Enigmatico ed ermetico. I suoi testi hanno attraversato generazioni, raccontando, per immagini, mondi onirici e, a volte, lontani dall’ordinario. “Le persone trovano nelle canzoni parte della loro vita: perché le canzoni sono cose semplici. Sono più semplici di un film o di un libro”. Perché una canzone, come qualsiasi frammento d’arte, è per De Gregori “come un puzzle aperto: è qualcosa che non ha soltanto una soluzione, non è un’equazione. Non ha soltanto una risposta, ma diverse interpretazioni. I film che ho amato, nella mia vita, sono aperti a diverse interpretazioni. Un titolo su tutti: ‘Otto e mezzo’, di Federico Fellini. L’ho guardato dieci o dodici volte e, ogni volta, vi ho trovato qualcosa di diverso. Questo è il potere di questo film. E questo è il potere delle canzoni”.

Se ne va sulle note de “La donna cannone”. Una dei testi più commoventi. Ma tra i più difficili da decifrare.

http://www.lavocedinewyork.com/arts/musica/2017/11/07/tra-le-pagine-chiare-e-le-pagine-scure-de-gregori-si-racconta-a-new-york/

 

 

 

 

Francesco De Gregori @ Palazzo dei Congressi, Lugano – 26 ottobre 2017

Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Andrea Furlan

 

Fa strano vedere Francesco De Gregori senza barba e senza cappello. Ancora di più, guardarlo sul palco mentre canta molte delle canzoni in scaletta senza accompagnarsi alla chitarra, dimostrandosi molto lontano dall’essere un perfetto animale da palco. Se questo nuovo tour può avere un senso e una direzione, allora forse non sarebbe sbagliato dire che ci sta offrendo un’immagine alternativa e inedita del cantautore romano.

Non solo dal punto di vista scenico, comunque. Anche perché, ragioni vere e proprie per rimettersi on the road non ce n’erano proprio: dischi nuovi all’orizzonte non se ne vedono (“Sulla strada” è del 2012 e comincia ad essere vecchiotto), il tributo a Dylan è stato promosso a dovere, quest’estate è uscito l’ennesimo live… Un fan a questo punto glielo consiglierebbe: “Francesco, per favore, prenditi una pausa e scrivi qualcosa di nuovo, che sarebbe anche ora!”. Invece no. Forte della sua voglia di suonare, eccolo partito per l’ennesima tappa di questo suo personale “Neverending Tour”. Il pretesto, apparentemente, è quello di uscire un po’ dai confini nazionali: la maggior parte delle date sono state organizzate all’estero, con addirittura un finale a New York, nel prestigioso Town Hall. Una scelta che molti musicisti nostrani stanno facendo in questi ultimi anni ma che, a mio parere, ha poco senso. Non perché non ci siano possibilità per la nostra musica di affermarsi altrove, ma perché spesso e volentieri si finisce per cantare per gli italiani. Che per carità, è giusto che ci siano, ma non è la stessa cosa che conquistare nuovi mercati…

 

Ad ogni modo, a Lugano si gioca in casa. Il Palazzo dei Congressi è una cornice forse un po’ troppo borghese, ma del resto quello c’è e sono molti gli artisti che vi si esibiscono. La prima cosa che colpisce, a parte l’inizio puntuale poco dopo le 20.30 (ma questa ormai non è più una novità) sono i diversi spazi vuoti in platea e galleria: certo, il colpo d’occhio non è male, ma non essendo il posto molto grande, ci saremmo aspettati di più. È comunque un bel boato entusiasta quello che accoglie Francesco e i quattro musicisti che lo accompagnano.

Già, è proprio questa la novità più grande e, sia chiaro, il motivo di maggior interesse di questo nuovo tour: niente più gruppo allargato degli ultimi anni, che comprendeva una decina di musicisti, ma un nucleo ridotto ai soli Guido Guglielminetti (basso), membro storico della band e compagno di mille avventure, Paolo Giovenchi alla chitarra, Carlo Gaudiello al piano e Alex Valle che si divide tra Pedal Steel, dobro, mandolino, banjo e chitarra, elemento tuttofare, vero cuore dello show, responsabile della componente maggiormente “americana” che le canzoni proposte acquisteranno stasera.

La batteria non c’è. Ci sono degli elementi percussivi ogni tanto ma la scelta è stata di privilegiare la melodia rispetto al ritmo, di far risaltare di più l’ossatura di ogni singolo pezzo, la sua componente essenziale. Una scelta inusuale per lui, ma che alla fine si rivelerà vincente. Musicalmente parlando, questo è stato un gran concerto ed è stato bello poter ascoltare i vari brani, soprattutto di quelli che ormai ci escono dagli occhi, in un modo molto più vicino a come vennero scritti originariamente.

Altro motivo di curiosità era la scaletta: il mese scorso aveva colpito un post pubblicato dallo stesso Francesco nella sua pagina Facebook, nel quale annunciava che ci sarebbero state delle scelte inusuali, che avremmo ascoltato brani che da tempo non suonava dal vivo.

Detto fatto. L’inizio è affidato al Blues sanguigno di “Numeri da scaricare”, con la Pedal Steel grande protagonista, mentre subito dopo l’atmosfera cambia, il piano di Gaudiello sale in cattedra per una meravigliosa “Gambadilegno a Parigi”, per chi scrive una delle sue cose più belle degli anni Zero, forse la più bella in assoluto. La dimostrazione, per quanto mi riguarda, che uno come De Gregori potrebbe senza problemi rinunciare ai suoi pezzi più famosi e i suoi concerti sarebbero bellissimi lo stesso, anche se molto probabilmente in sala saremmo dentro in dieci. Ecco il principale problema di questo artista, come dirò a breve.

La prima parte del concerto, comunque, è fatta soprattutto per i conoscitori più approfonditi del suo repertorio. “Questi pezzi non sono né famosi, né ritmati – dice Francesco subito dopo i primi due e sembra quasi volersi scusare. Arrivano poi “Buenos Aires”, dove si respira una piacevole atmosfera popolare e “Due zingari”, tra i vertici assoluti della sua scrittura negli anni ’70, interpretata benissimo anche a livello vocale (bisognerebbe spendere due parole anche su questo fatto: stasera De Gregori canta benissimo, gli arrangiamenti più scarni fanno uscire la sua voce molto di più del solito, valorizzandola appieno).

L’apice dell’intero concerto arriva con “Il cuoco di Salò”, che tocca un tema scomodo, ma lo fa con una potenza letteraria che ha pochi uguali nel suo repertorio, con una sensibilità umana che la rende particolarmente adatta a questa contingenza storica in cui certe tematiche vengono spesso inutilmente strumentalizzate. Anche “I matti” costituisce una bella sorpresa, mentre la cupissima versione di “Not Dark Yet” (“Non è buio ancora”) rappresenta l’unico richiamo al disco tributo a Dylan e ci ricorda che, per quanto discussa, quell’operazione fu decisamente riuscita.

In mezzo, una “Cose” molto incisiva, suonata dal solo Francesco alla chitarra acustica e una “Sempre e per sempre” piano e voce, molto romantica.

Piacevole ma superflua “Va in Africa Celestino” (ormai troppo abusata, almeno dal mio punto di vista) mentre “Caterina”, per quanto anch’essa sia stata suonata molto negli ultimi anni, riesce sempre a commuovere risultando probabilmente la più bella canzone d’amore che abbia mai scritto, anche se non è una canzone d’amore in senso stretto.

Bene, le buone notizie finiscono qui. La seconda parte (dal punto di vista temporale almeno, perché non c’è stato nessun intervallo) si apre con “Titanic” e, nonostante si sia trattata di una bella versione, da qui in avanti avremo la manifestazione palese di tutto ciò che a mio parere non funziona in Francesco De Gregori. Potrei nominare almeno trenta titoli di canzoni da lui scritte dopo il 1975 che sono allo stesso livello o superiori rispetto alle varie “Rimmel”, “La donna cannone”, “Alice”, “La storia”, “La leva calcistica della classe ‘68”. Il De Gregori degli anni ’90 è ottimo, quello dei Duemila ha inanellato dei dischi straordinari, da “Amore nel pomeriggio”, a “Pezzi” a “Calypsos”. Ma anche andando più indietro, ci sono tantissimi pezzi a torto considerati “minori”  che invece potrebbero senza problemi vincere il confronto con i classici.

La domanda quindi sorge legittima: perché tutti i suoi concerti sono, almeno per una buona metà, degli stucchevoli e prevedibili Greatest Hits, con tanto di ammiccamenti gigioneschi e compiacenti verso il pubblico (quando sull’ultimo ritornello di “Alice” ha chiamato il singalong, giuro che volevo uscire per protesta!)? E soprattutto: perché il suddetto pubblico ha iniziato ad esaltarsi e a battere le mani solo e soltanto da “Titanic” in avanti, dando la netta impressione di non avere per nulla capito quel che era accaduto prima?

Io credo che sia una questione di scelte: Francesco De Gregori ha fatto una bellissima carriera, che non può in alcun modo ridursi ai dieci-quindici successi entrati indelebilmente nella memoria collettiva. Eppure, di questi successi ha deciso di essere schiavo. Di essere da loro tenuto in ostaggio. Per carità, non c’è nulla di male, ogni artista fa le scelte che ritiene più giuste per lui. E stiamo comunque parlando di capolavori indiscutibili, che oltretutto questa sera sono stati riletti e interpretati alla perfezione, nonostante alla lunga, la dimensione “stripped” sia risultata un po’ ripetitiva. Eppure, facendo così, rischia di richiamare sempre più gente che lo va a vedere per lo stereotipo che ha in testa e non per quello che realmente è. I veri conoscitori, quelli che si sono giustamente stufati di sentire sempre le stesse canzoni, si sentiranno penalizzati.

Non fraintendiamo: è stato un bellissimo concerto. Il finale, con la bella rilettura di “4 marzo 1943”, “Falso movimento” e la novità di “Anema e core” cantata in coppia con la moglie Alessandra Gobbi (musicalmente trascurabile ma pregno di significato, considerato che la donna è sempre stata lontana dai riflettori) è stato indubbiamente potente.

Tutto ha funzionato, dunque, ma continuiamo a pensare che se si fosse osato un po’ di più in scaletta, avrebbe potuto venire fuori qualcosa di indimenticabile. Adesso non rimane che il nuovo disco: direi che abbiamo aspettato anche troppo…

https://offtopicmagazine.net/2017/10/30/francesco-de-gregori-lugano-2017/

 

 

Bruxelles

 

Sarà anche dimagrito De Gregori ma ha una forma strepitosa.

Grande band che senza batteria caratterizza ancora di più un sound asciutto eppure ricchissimo che vede spiccare la bellissima slide di Alex Valle.

Proprio la pedal steel, mai così in evidenza, trascina le canzoni.

Insieme a Guido Guglielminetti, Paolo Giovenchi e il bravissimo pianista di cui non ricordo il nome, sono una band delle meraviglie che tutti vorrebbero avere.

Partenza col ritmo di Bo Diddley con la bella Numeri da Scaricare e poi una serie di ballate che vedono in primo piano la voce, sempre più bella ed espressiva, che dispensa emozioni pure.

Gambadilegno a Parigi, una stupenda Il Cuoco di Salò, il Dylan di Non è buio ancora, Due Zingari, Sempre e per sempre.

Tutte bellissime con arrangiamenti raffinati che elevano la canzone d'autore sopra tutto.

Poi ci sono i classici, stupende Titanic, Generale e Rimmel e il toccante ricordo di Dalla che ha fatto emozionare e bagnare gli occhi "facciamo un brano di un amico".

Falso movimento è un brano che amo "stasera sono un libro aperto, puoi leggermi fino a tard", poesia in musica.

Il concerto si ascolta e si gusta abbracciati, è un costante invito all'amore e non è un caso che l'ultimo brano sia Anema e core duetto con la sua sposa che chiude questa bellissima serata.

Il miglior concerto di De Gregori a cui ho assistito, per me il migliore in Italia è lui.

Oggi è lunedì.

L'altro giorno Paolo Vites commentando un mio post ha scritto "one of those nights", una di quelle notti.

Ecco vorrei scrivere giusto due righe per rendere meno pesante questo lunedì mattina.

Venerdì pomeriggio parti a tutta corsa verso Milano per prendere Jennifer e correre a Trezzo che c'è De Gregori in concerto e magari ce la facciamo ad arrivare in tempo per salutarlo.

In macchina due panini col salame e una bottiglia di vino che non apriremo se non a notte fonda.

Arriviamo, Vites è già lì così come il rocker della brianza Steve Rudivelli.

Vedo Luigi De Gregori, lo abbraccio, facciamo due parole, gli do il mio ultimo disco, è un po' che non ci vediamo, da quando suonammo al Townes Van Zandt festival a febbraio.

È sempre un uomo fuori dal tempo Luigi, o un gran figo come dice Jenny.

Saluto Giovenchi sempre sorridente e cordiale.

Poi si spalancano le porte del backstage e quindi salutiamo Francesco.

Quella cazzo di mano che ti porge ha scritto un sacco di grandi canzoni sopra chissà quanti fogli.

È sempre gentile e soprattutto pare in forma strepitosa, come poi dimostrerà sul palco.

Del concerto vi ho già detto, non c'è molto altro da aggiungere se non che credo sia il primo concerto in cui ho bevuto acqua perché il bar era troppo lontano e affollato (ma appena finito è partito un rum doppio per festeggiare) e che abbiamo ascoltato tante belle parole: libro, parte, resiste e Sposa, una parola così bella eppure dimenticata.

Una parola che dovrebbe racchiudere molte cose.

Il concerto è finito ma come si può non bere in compagnia di amici?

Però Steve, la prossima volta che non servono rum in un pub lo ribaltiamo, sei d'accordo?

Poi c'è solo il Chianti, l'amore, il silenzio, la pace, la notte, una di quelle notti.

Cosa contano le incazzature, l'ossessione per i soldi, le misere vite dei politicanti?

Questo è ciò che ci rende vivi, queste notti.

Già...una di quelle notti.

Il giorno dopo ci ritroviamo a 70 km spersi nel niente in mezzo ai cavalli, ma questa è un'altra storia e ora è lunedì.

Buona settimana amici.
Luca Rovini

 

 

 

 

 

È uno dei cantautori “storici” della musica italiana, dalla carriera lunga e disseminata di titoli indimenticabili, dagli anni Settanta ad oggi. Qualche esempio? Alice, Generale, Titanic, La donna cannone, Rimmel e potremmo continuare a lungo. Brani in mirabile equilibrio fra folk, country, rock e melodia, con una vena poetica da fuoriclasse. Ma Francesco De Gregori è anche un artista curioso e instancabile, che non ha perso la voglia di suonare per il mondo con la sua band. Eccolo, allora, cimentarsi in una nuova avventura, un tour europeo con pochi musicisti e una scaletta speciale. Arriva anche in Ticino, il 25 ottobre al Palazzo dei Congressi di Lugano. E sarà una serata da non perdere, memorabile. Ci ha raccontato tutto ciò, e molto di più, in questa intervista esclusiva.

De Gregori, perché un’esperienza fuori dai confini italiani. Sarà anche a Zurigo e a Parigi…

Perché volevo fare qualcosa di diverso. In città diverse e con un pubblico diverso. Confesso di aver avuto, non dico paura, ma un po’ di titubanza per la lingua, magari non avrebbero capito i testi. Ma tanto lo so che in sala ci saranno molti italiani, magari di seconda generazione. E si scatenerà un po’ quel senso di nostalgia, di appartenenza, di amore verso la propria terra.

A Lugano “gioca in casa”, di fan ne troverà tanti…

E ne sono lieto. Conosco abbastanza la Svizzera, ho degli amici che ogni tanto vado a trovare. E ci ho suonato spesso, in Ticino ma non solo. Ricordo una volta, anni fa, in una specie di birreria a Lucerna: mi esibivo mentre la gente mangiava e beveva, un’atmosfera molto bella. Della Svizzera apprezzo la grande attenzione per le arti e la cultura in generale. E per la musica italiana in particolare.

Che concerto proporrà?

Suoneremo con una formazione strana, senza batteria, ma con basso, piano, chitarre, pedal steel guitar e mandolino. Dopo anni con la batteria, avevo voglia di ritrovare una dimensione meno violenta e riportare le canzoni vicine al momento in cui le ho scritte, voce e pianoforte. E sarà un concerto semplice, senza megaschermi ed effetti speciali che distraggono gli occhi. Mi piace il contatto diretto col pubblico. E la gente che sta in piedi a sentirti.

Qualche anticipazione sulla scaletta?

Ci sto lavorando, diciamo che non mancheranno i miei brani più famosi, perché sono belle canzoni e mi piace cantarle. Ma ci saranno anche delle sorprese, dei pezzi meno noti, magari perché poco radiofonici. Ma io non seguo ciò che piace alle radio, quindi…

Lei è sulla scena da tanti anni, ma non sa stare lontano dal palco. Cosa la spinge?

Non certo il denaro. Suonare è quello che so e mi piace fare, altrimenti m’annoio e mi deprimo. Mi mancano il pubblico, la band, il rapporto quotidiano con la musica e il canto. Una storia che va avanti da quarant’anni e, per esempio, ora mi porta all’estero.

A quando un nuovo disco d’inediti? I fan scalpitano…

Intanto, fino a novembre sarò in tour, e farò anche due date negli Usa. A gennaio, però, vorrei pensare a un nuovo disco, ma uso il condizionale perché dipenderà come sempre dall’ispirazione. Se arriva, bene. Altrimenti non ho fretta, né bisogno.

Lei ha fama di essere un po’ riluttante alla tecnologia: come vive in questo mondo tutto social?

Fisso ancora le idee su pezzi di carta, sul taccuino. Un tempo, poi, le mettevo in bella copia con la macchina da scrivere, perché gli errori sono più difficili da correggere e così ci pensi di più. Ma ora c’è il computer, molto comodo. Inutile negarlo, la tecnologia ti avvantaggia. Però, non capisco la mania dei social, quelli che postano di tutto. Sono al ristorante e non resistono a dirlo al mondo. Mi verrebbe da rispondere: e chi se ne frega!

Ultima domanda: cosa si augura per il suo futuro?

Vorrei imparare a suonare e cantare meglio. Ma, soprattutto, spero di continuare a farlo col divertimento e la passione che ho sempre dentro. Ancora oggi, quando salgo sul palco, succede qualcosa. Non è paura né ansia, ma qualcosa che tocca la mia parte emotiva.

http://www.cooperazione.ch/Intervista+a+De+Gregori

 

 

 

 

 

FRANCESCO DE GREGORI: «COSÌ HO CONVINTO MIA MOGLIE A CANTARE»

Il cantautore in tour con la compagna di una vita. Un duetto sul classico napoletano «Anema e core». «Le sussurrai la canzone per il suo compleanno a Napoli»

di Andrea Laffranchi

Casa De Gregori, quartiere Prati a Roma, sa di musica. Di canzoni da ascoltare. In salotto i cd sono in bell’ordine all’interno di una consolle. Per Bob Dylan, passione e riferimento assoluto, c’è una nicchia dedicata: vinili e volumi pieni di memo gialli. Di canzoni da ascoltare bene. Sul soffitto sono montati pannelli acustici per migliorare la diffusione delle onde. Persino di canzoni da suonare, al pianoforte che arreda con eleganza un angolo della stanza.

«Le mie canzoni funzionano anche solo voce e piano, ma non farei mai un concerto del genere. Mi annoierei subito. L’ho visto fare a Randy Newman, uno dei miei artisti preferiti, ed è stata dura».

Sa anche di canzoni neonate.

«A volte capita che componga qui, ma non ho uno spazio determinato. Se lo avessi, non ci andrei perché l’idea di dover creare mi renderebbe disciplinato», racconta.

Il metodo di scrittura di Francesco De Gregori invece non ha regole.

«Non sono metodico, non sono nemmeno uno strumentista e quindi non ho un allenamento quotidiano. Le canzoni mi vengono nei luoghi più impensati, anche in coda al supermercato».

La regola numero uno è mantenere la calma.

«Non ho bisogno di attaccarmi al registratore del telefono o di prendere appunti sullo scontrino. Se il giorno dopo non ricordo l’idea per un titolo o lo spunto musicale, evidentemente non vale. Vicino al comodino però tengo carta e penna: la mente stanca a volte si lasciRisultati immagini per de gregori tour 2017a andare e in quel caso meglio essere pronti».

Al via il tour estivo: prima data il 6 luglio a Roma. Carta e penna sono ferme da tempo, l’ultimo album di inediti risale al 2011.

«Non mi sono ancora arrivate dieci nuove canzoni per poter pensare a un album». Quest’estate c’è un tour (parte il 6 luglio da Roma e tra le altre date ci sono il 21 luglio a Milano-Sesto e il 25 a Firenze) con una scaletta in cui ci saranno «i pezzi più conosciuti che devi dare a una parte di pubblico, ma anche brani pescati dal repertorio che un’altra parte vuole sentire».

E ci sarà anche quella versione di Anema e core, vista nei concerti dello scorso autunno, in duetto con la moglie Alessandra Gobbi.

«Sembra strano che De Gregori canti in napoletano. Figuriamoci poi se lo fa con la sua ragazza...».

 La prima volta che la fecero assieme, in un club a Nonantola, lei gli prese la mano.

«Era emozionata e divertita allo stesso tempo. Con quel tanto di atteggiamento di assoluta normalità che non guastava. Confesso che anche io un po’ di emozione l’ho avvertita».

Tutto è nato da un gesto di altrettanta tenerezza del Principe.

«Lo scorso anno per il compleanno di Chicca, il 21 agosto, siamo andati in gita a Napoli. C’è una trattoria dove vado spesso e di solito c’è un posteggiatore».

Parentesi linguistica per i non napoletani. Il posteggiatore non è quello che si occupa delle macchine dei clienti e le parcheggia, ma il cantante che intrattiene la sala.

«Avevo pensato di chiedergli Anema e coree dedicarla a Chicca. Un po’ come fa Berlusconi-Servillo con Fabio Concato in Loro 1 di Sorrentino. Quella sera il posteggiatore non si è presentato e allora l’ho fatta io».

I figli gemelli, classe 1978, hanno aperto a Roma un negozio di vinili. Non immaginatevi la scenetta con il Principe in piedi in mezzo al locale

 «Le ho spiegato quale fosse il mio piano e per rimediare gliel’ho canticchiata sottovoce. Da lì è nata la voglia di andarsi a rileggere le parole. E poi, visto che mia moglie canta nel Coro del Testaccio di Giovanna Marini, le ho chiesto di farla con me dal vivo».

 Chicca si è messa on the roadper tutto il tour.

«La canzone arriva sempre a fine serata e lei mi chiede “ma che faccio fino a quel momento?”. E io sdrammatizzo: “leggi un libro”». In primavera si sono esibiti oltre confine. «A Parigi e New York abbiamo portato anche i nostri figli. Siamo riusciti a fare anche i turisti: distrae e alleggerisce».

Federico e Marco, gemelli classe 1978, da qualche mese hanno aperto a Roma un negozio di vinili.

«Certo che ci sono anche i miei», ride Francesco.

Ci sarà anche quello di Anema e core, edizione limitata che verrà pubblicata in autunno in parallelo a una distribuzione gratuita sul digitale.

«La musica che va di moda non è certo questa, ma trovo bello questo spirito indipendente, un distacco da certi protocolli e meccanismi che a questo punto della carriera mi posso anche permettere. Mi disturba che la musica ormai si ascolta solo in maniera distratta»

Assomiglia alle strategie della nuova «generazione trap» che pubblica canzoni senza seguire la liturgia dell’album ogni paio di anni.

«È la dura legge del gol. Lo streaming ha cambiato il meccanismo, si ascolta il pezzo e non l’ellepi come opera integra. Non ci trovo nulla di negativo, ma non uso le piattaforme come Spotify. Non mi piace frazionare l’ascolto e gli autori che amo non si possono frequentare a metà. Quello che mi disturba invece è che la musica ormai si ascolti in maniera distratta, che sia un sottofondo mentre si fa la spesa. Con Nicola Piovani ci diciamo che sarebbe bello fare una canzone su quel tema e presentarla con un flash mob alla farmacia qui sotto».

 Negli ultimi mesi molti colleghi hanno ufficializzato il ritiro: Elton John, Neil Diamond, Joan Baez...

«Volete che molli?», ironizza. «Non ho annunciato il mio arrivo e non vedo perché farlo con l’addio. La comunicazione apodittica non fa per me, sembra quasi il volersi togliere un dente. Ci sono stati momenti nel passato in cui ho pensato di mollare, ma poi ragionandoci a fondo ho trovato le motivazioni per continuare». L’unico che ha detto basta veramente, senza ripensamenti pubblici o privati, è stato Ivano Fossati... «Un’assenza che si sente. Peccato. Vorrei che ci ripensasse e tornasse a fare sia dischi che concerti.Tutti noi artisti siamo un po’ narcisi, anche quelli che negano di esserlo»

Nel racconto che De Gregori fa di se stesso al di fuori delle canzoni, torna spesso la parola narcisismo.

«Tutti noi artisti lo siamo. Vogliamo specchiarci negli altri e ritrovarci belli. Anche quelli che fanno finta di nascondersi».

Ci sono stati momenti in cui lui è stato campione di nascondino, con il pubblico e con la stampa.

«Non ero stronzo, al limite un po’ ruvido... C’è stato un momento in cui chi era attorno a me aveva creato una cortina fra me e i giornali. E anche con il pubblico ero più imbronciato: il mio atteggiamento sul palco, naturale e non studiato, era condizionato dalla paura di apparire come quello che vuole stare sotto le luci».

Qualcuno ha detto che sia stato il tour del 2010-11 con Lucio Dalla a fargli cambiare atteggiamento.

 «Forse... Ho visto la sua innocenza e il suo distacco dagli stilemi del comportamento dell’artista con chi gli sta intorno. “È giusto fare così” mi disse una volta. Un po’ mi ha cambiato. Però detesto ancora chi non sa chi sono e arriva a chiedere un selfie. Lo capisco dallo sguardo se c’è voglia di rompere o la curiosità di chi mi vuole bene. Chi non ti conosce artisticamente e ti vede come un personaggio da tenere sul telefono, non ti rispetta. Il fatto che sia uomo di spettacolo non deve determinare il mio look»

C’era curiosità quando lo scorso anno si è presentato sul palco senza barba e senza cappello. Adesso è tornato il De Gregori classico.

«Non volevo sembrare diverso. Quando qualcuno mi ha detto che stavo malissimo senza barba non me ne importava nulla. Forse era stato il caldo dell’estate scorsa a spingermi al taglio. Il fatto che sia uomo di spettacolo non determina che debba curare il look.

I cappelli sono l’unico articolo di scena che utilizzo. Mi piacciono, ma non è che li indossi sempre, nella vita di tutti i giorni. Non c’è attrito fra il modo in cui vivo la mia vita privata e l’artista. Se non nel linguaggio: non parlo come scrivo, altrimenti chi mi sta attorno mi prenderebbe a calci.

 

 

 

La presentazione di "Roma è de tutti" di Luca Barbaraossa, presso il Vinyl Room di Marco e Federico.

 

Con o senza cappello cosa ama fare il Francesco privato?

«Mi piace leggere, andare al cinema e avere relazioni con persone di sostanza, che non parlino di banalità. Il successo di una cena dipende in primo luogo da quello. Non ho hobby o manie. Amo viaggiare. L’ultimo viaggio l’ho fatto ad Atene. Questo lavoro può essere una gabbia, ma se te lo concedi ti permette una libertà massima».

Alla domanda «citami un cantautore italiano», molti risponderebbero con il suo nome. Ma lui eliminerebbe la definizione dalla conversazione.

«Non la amo. Come non amo impiattare e vip. Cantautore è una parola ibrida, definisce poco. Sembra volerti mettere su un piedistallo, al di sopra degli altri. Cantautorato è ancora peggio: è spocchiosa. Questi termini hanno identificato un personaggio ombroso, reclinato su se stesso, che vuole ammaestrare il pubblico e fare discorsi prima delle canzoni. Non rifiuto il mio mestiere, ma preferisco cantante, rievoca il mondo sano degli anni Sessanta».

I rapper?

Mi hanno chiesto di collaborare ma...»

In quegli anni De Gregori muovevai primi passi al Folkstudio, culla della cosiddetta scuola romana dei cantautori. Negli anni Novanta ci fu una seconda ondata con Niccolò Fabi, Max Gazzè, Daniele Silvestri e Alex Britti tra gli altri, poi il vuoto. Oggi con Coez e Tommaso Paradiso la Capitale è tornata al centro della scena.

«La musica non è slegata dal contesto. Roma ha grossi problemi di tutti i tipi. Questo fermento potrebbe essere una reazione alla stagnazione culturale che si percepisce. Forse c’è un segnale anche in questo palazzo. Nel seminterrato c’è un appartamento che è stato occupato a lungo da un commercialista. Adesso vedo entrare e uscire un gruppo di ragazzini: li sento spesso fare musica la sera, dalle nove alle undici, e direi che fanno trap. Non mi riconoscono o forse fanno finta di non sapere chi sia». Un paio di anni fa ha dato la sua benedizione a Fedez, ma con i rapper, da alcuni considerati i nuovi cantautori, non ha mai collaborato. «Me lo hanno chiesto ma mi sembrerebbe una forzatura».

 

https://www.corriere.it/liberitutti/18_giugno_29/04-degregori-catenacciocorriere-web-sezioni-ed41af4e-793d-11e8-80e9-424fd8b8c17b.shtml?refresh_ce-cp

 

 

 Francesco De Gregori canta «Anema e core» con la moglie Alessandra

di Andrea Laffranchi, inviato a Nonantola (Modena)

Alla fine della canzone lei gli prende la mano. La cerca. C’è il contatto. La afferra. C’è emozione in quel gesto. Del resto Chicca non fa la cantante di professione. Chicca è Alessandra Gobbi, la moglie di Francesco De Gregori. In quel gesto c’è anche la tenerezza di una storia che dura da una vita. La canzone è «Anema e core» e la scena non è un momento privato rubato e finito in Rete. È il finale del concerto di De Gregori al Vox di Nonantola di venerdì, la prima data del tour nei club che lo porterà in Europa e, per la prima volta in carriera, in America.

 «Di recente per festeggiare un compleanno siamo stati a Napoli in un ristorante. Avevo intenzione di chiedere al posteggiatore di cantare “Anema e core”. Quella sera lui non c’era e allora l’abbiamo fatta noi. È venuta bene e così ho pensato di metterla nel concerto. Io e mia moglie cantiamo spesso assieme, lei suona anche la chitarra. Mi piace il suono delle nostre voci insieme». Così racconta lui a fine serata. E si concede la battuta. «In più non la pago…».

 

 

Finale a sorpresa di uno spettacolo pieno di sorprese. Quelle fisiche anzitutto. De Gregori è senza barba (solo baffo) e senza cappello. Marchi di fabbrica, il primo addirittura di vita.

«Ho tagliato i capelli e il cappello con un taglio così corto non sta bene. È una questione di narcisismo».

Di sorprese ce ne sono anche musicali. La formazione prevede basso, chitarra, pianoforte e slide guitar. Niente batteria. Le sfumature sono tutte da godere, i ritmi rallentati aiutano.

«Cercavo un nuovo suono e credo di averlo trovato. Nell’ultimo tour eravamo in 11, qui privilegio l’ascolto di testo e melodia. Ecco, se devo pensare che sia una fase particolare della carriera non è per il cappello ma per questo. I batteristi mi annoiano, sono ripetitivi e si reputa bravo uno che ha un timing perfetto. Io cerco un’interazione, non un binario su cui appoggiarmi. Non mi interessa la calligrafia di un’esecuzione».

L’assenza delle percussioni rende ancora più intimo quello che è già per pochi. Il tour prevede solo piccoli club.

«Non so se sono più coraggioso o più scemo. È semplicemente il lavoro di un uomo libero. Non mi interessa corrispondere a un’immagine o all’imitazione che si fa di me in tv. Del resto se “Titanic” l’ho scritta alla chitarra forse posso fare a meno di una batteria».

Anche la scaletta non è scontata. Nella prima parte del concerto soprattutto.

«Ci sono pezzi che non facevo da anni come “Numeri da scaricare” o “Buenos Aires” e altri che credo di non aver mai fatto come “Deriva”».

Nella seconda parte ci sono i classici, un capitolo di storia della canzone italiana.

«So che ci vogliono, ma non li vivo come una tassa da pagare, piacciono anche a me».

Ha anche smesso di stravolgerli.

«Quando io vado a vedere un concerto chiedo che l’artista sia se stesso. E allora ci stanno delle modifiche rispetto a quello che ha fatto 40 anni prima. Ma ho avuto un periodo, circa 15 anni fa, in cui le stravolgevo veramente troppo. Ho esagerato. Me lo fece notare anche mio padre e fu come un rimprovero per un brutto voto a scuola». I

l tour espatria: a Parigi c’è il Bataclan, una ferita sulla storia della musica.

«Avrò lo stesso stato d’animo di chi entra in un grattacielo di New York o nella metro di Londra o di chi passeggia sul lungomare di Nizza. Suonare al Bataclan o qui al Vox è la stessa cosa: è un posto dove si è sempre fatta e sempre si farà musica. È la risposta della normalità, proprio quella che il terrorismo ci chiede di sospendere».

 La normalità di due mani che si stringono.

http://www.corriere.it/spettacoli/17_ottobre_15/francesco-de-gregori-canta-anema-core-la-moglie-alessandra-cb39fcf4-b105-11e7-8c8a-61b69bf57dc4.shtml

 

 

 

 

Ieri grazie al suo grande fan Enzo Memoli , la cui foto è diventata l'immagine del poster del nuovo tour, ho rivisto de Gregori....

senza batteria

Un suono somigliante quello del Neverending Tour di Dylan di 10 anni fa ..... con un mandolino però spesso mediocre peccato perché poteva dare molto di più.

Sound bellissimo. Avvolgente a volte ritmato con le sole chitarre in maniera egregia.

Lui , nudo , così come è , senza maschere , niente cappello e barba.

Invecchiato , si vede ma in gran forma e la voce sempre affascinante.

Mimica un po' buffa questo menestrello italiano così alto e a volte un po' impacciato nei movimenti

Ma suscita rispetto e tenerezza

Sembrava essendo un tour in locali piccoli e teatri che volesse svelare il suo vero volto. E con molto rispetto sembrava cercare con la sua mimica l'applauso, come un attore di teatro al fine di un atto !

Inizio con brani che non conoscevo, mi piace molto ma non sono un suo fan, ma bellissimi, e ho seguito molto i testi, poesie pure !!!

Tanti brani che parlavano di amore, nelle sue sfaccettature e problemi che la vita gli pone ...... ed alcuni mi hanno toccato.

Quando ha fatto i classici il pubblico ha fatto sentire che era molto amato e sono stati cantati tutti dalla prima all'ultima frase !!!!

Versioni bellissime, come Generale, Buonanotte Fiorellino, una fantastica Rimmel, un grande omaggio a Lucio Dalla con 4 marzo .... ed ai bis hanno messo un secondo microfono !!! Che sia la sorpresa di Ligabue ?? Sarebbe stato fantastico .... in Italia queste cose succedono quasi mai mentre negli states è consuetudine quasi normale ........

Ed ecco la chicca della serata, quelle cose che per i fan che lo vedono continuamente è un qualcosa veramente da ricordare ed inaspettato.

Parla di una donna che ha incontrato tanti anni fa , e che è diventata sua moglie ...... e la invita sul palco per cantare con lei l'ultimo brano, Anema e Core .......

Bellissimo il rispetto e amore e attenzione con cui la chiama , la pone di fianco a lui e sebbene il brano non mi faccia impazzire è stato un momento bellissimo, due cuori che vedi così uniti dopo anni e anni di matrimonio.

Capisci che per fare questo significa che il suo grande amore non è stato certamente ininfluente nel suo successo !!!!!

Commovente

Bella persona, grande poeta, amante di Bob , cosa potevo aspettarmi di più da un concerto così ?

Tornato a casa con una bella sensazione, quella di essermi arricchito di qualcosa di bello, un pò di energia che in questo momento è molto importante.

Questo sono i concerti che scelgo, e grazie a Francesco ho vissuto a fondo i suoi capolavori e la sua arte , di saper raccontare ed emozionare come un vero menestrello !!!!

MAURIZIO POLVERELLI

 

 

 

 

IL VIDEO

 

"Siamo tantissimi", fa notare De Gregori sul palco di Risorgi Marche, la manifestazione organizzata da Neri Marcorè nell'ambito dellla raccolta fondi per le vittime del terremoto.

 "Questo è il giorno più bello della mia vita", ha dichiarato commosso l'organizzatore Neri Marcorè. Orde di fan si sono recate a Macerata per assistere all'ultima esibizione dal vivo del cantautore romano, che ha fatto emozionare la folla con alcuni dei suoi più grandi capolavori. Si comincia da Generale, e mai scenario fu più azzeccato per una canzone dai toni così bucolici. "Non servono parole", commenta Marcorè. In effetti, basta la musica: "Potremmo restare qui altre tre ore per godere di questi momenti meravigliosi".

 

foto di Giovanna Bianchelli

 

Il Generale, davanti alla Collina.

 

Francesco De Gregori, Gnu Quartet e Orchestra Filarmonica Marchigiana per RisorgiMarche.

SCALETTA: Generale, Cose, Due zingari, Caterina, Cardiologia, La Valigia dell'attore, Vai in Africa, Celestino!, Alice, Bellamore, Il cuoco di Salò, La leva calcistica della classe '68, Titanic, Sempre e per sempre, La donna cannone, La Storia, Rimmel, L'abbigliamento di un fuochista

foto di Giovanna Bianchelli

 

foto di Giovanna Bianchelli

 

foto di Giovanna Bianchelli

 

foto di Giovanna Bianchelli

 

   

 

 

 

 

 

 

 

Lui è Marco Scolastici. Produce formaggi e giovedì scorso ci ha concesso l'utilizzo gratuito di ettari ed ettari dei suoi terreni a Macereto per poter organizzare il concerto di Francesco De Gregori / FORM / Gnu Quartet.

Per giorni ha lavorato incessantemente per preparare le aree parcheggio (insieme al Comune di Pieve Torina), quelle del gusto e il magnifico spazio dove abbiamo potuto godere della magia di uno dei più grandi cantautori della storia della musica italiana.

E proprio Marco ha avuto l'onore di accompagnare De Gregori all'area concerto, con la sua jeep.

Da parte nostra un ringraziamento speciale a lui, che ha scelto di resistere e continuare a vivere nelle terre colpite dal terremoto.

E un grazie anche alla sua straordinaria famiglia, che ci ha fatto sentire veramente a casa.

#RisorgiMarche

 

 

 

Per chi è un appassionato della musica d'autore italiana, questo è davvero un libro da leggere tutto d'un fiato. Si fa divorare in poco tempo, vista la curiosità che scatena.

Che Guido sia anche un grande scrittore ce ne siamo accorti tutti da parecchio tempo ed "Essere basso" è stata la prova del nove di come sia dotato tecnicamente e della “buona penna” che si ritrova fra i polpastrelli.

Ha magnificamente saputo raccontare quarant'anni di musica leggera italiana attraverso le sue testimonianze di valente collaboratore, accanto ai mostri sacri della canzone d’autore.

Da navigato degregoriano, ovviamente le pagine dedicate a Francesco le conoscevo già; in passato abbastanza logorate comprese le orecchie agli angoli. Ma Guglielminetti non è solo De Gregori, per questo consiglio i suoi reportage (a volte spassosissimi, uguali al suo modo di essere) relativi alle esperienze musicali con grandissimi come Battisti (“Il mio canto libero”) o quelle con Fossati, delle quali una mi ha colpito in modo particolare: “Poco prima dell’aurora” del 1973, un capolavoro che oggi in pochi riuscirebbero a creare. Contiene perle come Apri le braccia, l’Africa, L’aurora, Prendi fiato e poi vai…. tutte, tutte, non bisogna perderne nemmeno una.

Guido racconta che Oscar Prudente, firmatario di parecchie musiche del disco, non aveva mai scritto una nota sul pentagramma, ma riusciva in modo magico a capire la musica e a farla capire agli altri attraverso gesti per indicarne la direzione utile; sentirla tanto da chiedere a un consumato turnista, senza nessuna vergogna, “io ce l’ho qui in testa e sulla chitarra, ma tu come la faresti?”. E’ un dono di natura che apparteneva solo a Dalla, De Gregori e a pochi eletti.

Ecco, quando gente come Prudente riesce a scrivere una canzone come “L’Africa” senza bisogno di accademia, ci troviamo di fronte a un vero musicista che le note le sente nell’anima, senza il bisogno di scrivere nulla. Ecco un passo che lo ricorda:

“Suonare il basso, per me, da allora in poi, non fu più la stessa cosa. Oscar Prudente mi rivelò un mondo completamente nuovo, mi resi conto veramente di cosa significasse “comunicare” con uno strumento musicale. Non ho mai abbandonato quel modo di pensare il basso.

Spesso, ancora adesso, quando devo inventare qualche “riff”, mi vedo di fronte Oscar che ballonzola come uno sciamano, rapito in chissà quale rituale magico, e allora credo di seguire le sue indicazioni.

Finora con successo! Grazie Oscar!”

Bravo Capobanda!

 

 

A Bisceglie Guido Guglielminetti, bassista e produttore di Francesco De Gregori, presenta il suo libro “Essere…basso - Piccole storie di musica”