NEL
MUSEO dei grandi e piccoli orrori quotidiani occorre ogni
giorno fare spazio a nuove opere dell'ingegnosa bestialità
dell'uomo. Ora ci tocca trovare un posto per la storia di
Matteo Salkanovic, cinque anni, nomade che ha avuto la mano
dilaniata da un librobomba (orrendo ma ineluttabile
neologismo). Il libro - un variopinto libro di favole _
aveva attirato la sua curiosità mentre giocava nelle
vicinanze del suo accampamento alla periferia della
periferia di Pisa. L'esplosione, il sangue, le lacrime, la
corsa all'ospedale: e cosí Matteo Salkanovic porterà per
tutta la vita su di sé le tracce dell'accoglienza che lui e
la sua famiglia proveniente dalla Bosnia hanno ricevuto nel
nostro paese.
Ho cercato molte volte
senza successo di immaginare le facce di chi ha disseminato
di bombe apparentemente ben più potenti la storia del nostro
paese: Milano, Bologna, Brescia, Bologna, Firenze, Milano...
Che faccia aveva, cosa pensava l'uomo che il 2 dicembre 1969
"dimenticò" una borsa sotto un tavolo della Banca Nazionale
dell'Agricoltura di Piazza Fontana e se ne andò, confuso tra
la folla delle sue vittime, ad ascoltarsi in santa pace il
telegiornale da qualche parte? Forse non lo sapremo mai, mai
ne avremo il diritto. È come se gli identikit degli
innumerevoli "esecutori materiali" di questo paese si
sovrapponessero gli uni su gli altri sommandosi fino ad
ottenere lo zero, l'assenza di ogni traccia ed espressione,
il vuoto, il nero, il silenzio.
Cosí forse non
conosceremo mai il volto e il nome di chi, truccando una
bomba da libro per l'infanzia, ha coscientemente mirato a
colpire un bambino piuttosto che un adulto, adottando cosí
chissà poi quanto inconsapevolmente la più destabilizzante e
raffinata delle tecniche del terrore. È chiaro che scegliere
come bersaglio un bambino di 5 anni è qualcosa che va oltre
al semplice gesto di intolleranza razziale: non si limita ad
essere la deprecabile dichiarazione di guerra di un gruppo
di cittadini nei confronti di un altro gruppo considerato
diverso e sgradito, ma mira ad innescare il massimo della
violenza e a suscitare il massimo dell'allarme sociale.
Eppure al di là di queste
considerazioni cosí freddamente "tecniche" ciò che colpisce
ancora una volta è vedere come la ferocia del mondo oggi non
solo non sia disposta ad arretrare e a fermarsi davanti
all'infanzia o all'adolescenza ma come anzi sembri voler
promuovere proprio i giovani a testimonial del proprio
impazzimento, del proprio cinismo, della propria stupidità.
Sotto i colpi di un cecchino a Sarajevo, in un cantiere dove
non vengono rispettate le norme di sicurezza, nelle curve
degli stadi, negli studi televisivi, nelle aule
universitarie, nelle strade ai bordi delle discoteche. O nei
baretti dove sotto gli occhi di tutti tutto si compra e si
vende o nelle favelas del Brasile o anche in qualche bel
posto di questo Bel Paese dove per qualche centinaio di
migliaia di lire a sedici anni si può a scelta essere uccisi
o arruolati come uccisori. Non solo l'enclave degli adulti
sembra ignorare ogni progetto di tutela del mondo giovanile,
non sentire alcun obbligo nei suoi confronti: ma sembra anzi
voler divorare i propri figli, farne carne da cannone, non
vederli crescere, non educarli a vivere. E chissà se
l'autore del libro-bomba si è reso conto di aver prodotto
col suo gesto infame, con questa ennesima strage italiana,
la più lucida delle metafore sul mondo di oggi: un mondo
dove nemmeno a cinque anni è più permesso aprire un libro di
favole, dove nemmeno a cinque anni si può sognare senza
rimanere feriti.
[ Francesco De Gregori]
IL
PARAGONE tra la lotta al terrorismo e quella alle frange
estreme delle tifoserie sportive è legittimo e utile solo a
condizione che si tenga conto di un paio di cose: che il
terrorismo fu sconfitto non con la repressione militare ma
con il ricorso a tecniche di intelligence (null'altro se non
questo fu infatti, pur nella sua rozzezza, la legislazione
sui pentiti) e che lo Stato riuscì a combattere e a vincere
la sua battaglia senza nulla cedere - o quasi - sul piano
dei diritti acquisiti della cittadinanza e senza sospendere
le garanzie costituzionali di nessuno.
A quarantott'ore di
distanza dall'uccisione del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo
le analisi socio-psicologiche dell'accaduto sembrano aver
prevalso - spesso, ahimé, condite da devastante ed
interessata retorica giornalistico-sportiva _ su quelle più
direttamente legate alla sostanza del problema che è - spero
che nessuno si offenda - anche un problema di ordine
pubblico. Se non si dice questo in maniera forte e chiara
ogni successiva valutazione rischia di essere un diversivo e
di allontanarci dalla verità anziché aiutarci a
comprenderla. È davvero così difficile dunque - lo chiedo ai
commissari, ai prefetti, al capo della polizia _
identificare i gruppi e gli individui "a rischio" ed
isolarli e neutralizzarli prima che siano giunti dentro gli
stadi (O nelle loro immediate vicinanze, il che è lo stesso
checché ne dica Matarrese)? È davvero impresa sovrumana
infiltrare qualche carabiniere fra i vari Boys o Fedayn o
Barbour Clubs per sapere in anticipo cosa gli girerà per la
testa la domenica? È davvero così di cattivo gusto chiedere
ai presidenti delle società di calcio di smetterla con le
complicità più o meno diret te, più o meno dichiarate?
Cose dette e ridette,
certo: ma purtroppo, chissà perché mai fatte. Si sarebbe
detto una volta che "manca la volontà politica".
Domenica prossima dunque
non si giocherà a pallone e altre attività sportive verranno
sospese. Spererei che nessuno volesse vedere in questa pur
lodevole scelta un qualche tipo di soluzione al problema.
Una settimana di silenzio non vale molto più di un minuto di
silenzio, nulla sarà cambiato fra due domeniche. Comunque il
fatto che questa decisione sia stata presa "dal basso", dal
mondo dei lavoratori del calcio più che dalle autorità
sportive e politiche, le quali anzi ne avrebbero ben
volentieri fatto a meno, costituisce un segnale raggelante a
poche ore dalla morte di questa ennesima vittima e
dall'arresto del suo povero assassino.
La violenza - purtroppo è
vero _ non è nel mondo del calcio. Il calcio le garantisce
spesso impunità e pubblicità, esaspera personalità e
comportamenti, ar riva spesso a deformare la realtà
estremizzandola e semplificandola: ma non è spegnendo il
calcio per una domenica o per un anno che avremmo potuto
salvare la vita spezzata di Vincenzo o quella distrutta per
sempre di Simone che era partito da lontano con un coltello
prestatogli da un suo amico diciassettenne per andare ad
uccidere in nome di una squadra di cui _ dicono - non sapeva
nemmeno la formazione.
UNA
STATUETTA effigiante la Madonna si mette a piangere lacrime
di sangue in quel di Civitavecchia. La televisione ne dà
ampio risalto, i giornali - tutti _ amplificano la notizia.
Perfino persone sul cui approccio razionale e positivo ai
fatti della vita avresti messo la mano sul fuoco vengono
travolte dall'evento. Se ne parla nei salotti e nei bar di
periferia a Roma, a Milano: si prende posizione,
intervengono in veste di esperti i periti di ambo le parti a
dare soddisfazione ai creduli e agli scettici. La Chiesa,
troppo intenta a vietare il sacerdozio alle donne, prende
tempo e per il momento valuta tutto "con prudenza".
D'altronde, si parva licet, tutte le domeniche pomeriggio in
tv siamo perseguitati da un mago che alterna travagliate
autosepolture a più spettacolari sedute di porno-ipnosi ad
uso familiare. E tutto - si capisce _ fa notizia.
Anche Orson Welles
speculò in altri tempi sulla credulità dei suoi connazionali
e gettò nel panico gli ascoltatori della Bbc annunciando
l'arrivo dei marziani. Ma lo fece anticipando genialmente
problematiche assai di là da venire per lanciare un segnale
d'allarme su un uso sconsiderato dei media e se non altro
mischiò il tutto con una buona dose di sense of humor assai
lontano dagli infuocati climi catodici del nostro tempo.
Nella complessa cosmologia
di fine millennio è
sempre più in agguato dunque il mostro di Lochness, o i suoi
replicanti in cartongesso, carne o ossa, acqua o vino,
sangue (di santo partenopeo o di Madonna laziale che sia) o
lacrime. Buoni ad ogni uso affabulatorio e divinatorio e -
soprattutto pare _ preziosi indicatori del nostro futuro
economico, politico, sportivo. Congeleremo il debito
pubblico? Finirà la guerra in Bosnia? Chi vincerà lo
scudetto? Chiediamolo a Frate Indovino, a Barbanera, a
Davide Copperfield. La risposta (o se non altro la domanda)
è garantita.
Ma c'è naturalmente un
altro versante - più serio e più grave _ di questa rincorsa
all'oscuro irrazionale che pervade la nostra epoca (e che
sembra peraltro convivere brillantemente con tutti gli
aspetti positivi della modernità). Che cos'è infatti se non
l'altra faccia di questo neo-paganesimo l'impressionante
espandersi a macchia d'olio di ogni tipo di integralismo
(politico, religioso, misto) che sembra ormai aver raggiunto
buona parte del mondo o con il quale, se non altro, il mondo
deve fare i conti?
È a causa di questo
integralismo che oggi un uomo è costretto a nascondersi per
tutto il pianeta perché - la sua colpa è aver scritto un
libro - è stato condannato a morte da un intero popolo (e
che non si tratti di una condanna simbolica lo dice il fatto
che ci sono compagnie aeree che rifiutano di staccare un
biglietto a nome di Salman Rushdie).
È a causa di questo
integralismo che immense zone del mondo sovrappopolate fino
all'estremo vengono sottratte a una politica di
pianificazione delle nascite, unica soluzione, quand'anche
tardiva, al disastro ecologico, ambientale e politico che ci
circonda. E non a caso su questo argomento due integralismi
di segno culturale assai diverso, se non opposto, quello
cattolico e quello islamico, hanno mostrato di recente una
impressionante convergenza ideale.
Ed è di questo
integralismo e delle sue svariate articolazioni regionali e
culturali, infine, che si nutrono o si travestono gli
innumerevoli conflitti che contraddistinguono la nostra
epoca recente dalla Somalia alla Bosnia passando per Israele
e la Palestina, il Tibet, l'Irlanda del Nord.
Perciò ci sembra
legittimo - e in certo modo estremamente "laico" _ avanzare
qualche dubbio anche sugli entusiasmi che hanno accompagnato
di recente l'esplosione di Internet, salutata ancora una
volta (dopo l'invenzione della ruota, della polvere da
sparo, del telaio meccanico e della bomba H) come uno degli
eventi destinati a cambiare, nel bene o nel male, il destino
degli uomini e gli uomini stessi. Chissà se è proprio vero,
chissà se possiamo crederci.
Ci sembra, al contrario,
che il vuoto lasciato dal fallimento della politica e la sua
inadeguatezza nel dirimere le complessità del pianeta del
dopo '89 abbiano messo a nudo un ancor più grave vuoto di
spiritualità - e non di sola spiritualità in senso religioso
si tratta _ che pervade tutta la nostra epoca e di cui le
lacrime (vere? false?) di una statuetta sono purtroppo solo
una delle tante espressioni estreme e marginali. L'uomo è
ancora una creatura capace di tagliare le mani a un altro
uomo per punirlo di aver rubato: e del suo destino non
sembra conoscere molto più dei sacerdoti dell'antichità che
scrutavano il volo degli uccelli o le viscere degli animali
appena uccisi. Le grandi autostrade fosforescenti che
veicolano dati e informazioni nell'oscurità che ci circonda
non possono da sole sostituirsi alla vera politica o alla
vera religiosità. Sembrano capaci, per ora, di mettere in
comunicazione le notizie con le notizie, non ancora gli
uomini con gli uomini.
[ Francesco De Gregori]
del
diverso, nei grandi e non banali, né retorici temi
dell'organizzazione della fratellanza e dell'invenzione del
futuro. Solo se si incarna nelle pratiche quotidiane di
tutti gli uomini, a destra come a sinistra, l'antifascismo
può diventare arnese politico e non repertorio
storiografico.
La destra dunque è stata
sconfitta. Ma più che nei numeri elettorali, che si sono
giocati come si è visto sul filo del rasoio, la destra
sembra aver perduto la sua battaglia sul piano della
credibilità e dell'immagine complessiva: il che è assai più
preoccupante per una formazione - ci riferiamo qui in
particolare a Forza Italia - neonata o sedicente tale. Così
come Berlusconi non è stato in grado di governare il paese
quando ne ha avuto l'occasione, così nel momento propositivo
della presentazione delle liste alle amministrative è venuta
fuori drammaticamente in più di una situazione la mancanza
di spessore dei caldidati del polo: si è cominciato a
sentire perciò il fiato corto del "nuovo" berlusconiano,
sventolato fino a poco tempo fa come vessillo irresistibile
o infallibile talismano e ora rifluito invece nelle più
comode e capaci sacche del trasformismo caratteristico della
"vecchia" politica.
Ed è proprio su questo
terreno che sembra invece essersi mossa abbastanza bene (e
senza eccessivi tatticismi) la nuova cultura del
centro-sinistra. Il che induce, al termine di questa
settimana meravigliosa e terribile - meravigliosa, dicevamo
per alcuni, terribile per altri - a ben sperare per le sorti
della futura unione dei democratici.
Peccato però che in
questa settimana si sia dovuto ascoltare anche un accordo
stonato e, purtroppo, non insolito: l'ennesimo attacco alla
legge 194 sorprendentemente condotto da una delle più alte
cariche istituzionali ed espresso oltretutto in una sede
quanto meno inopportuna. Quanto sarebbe più civile se su un
tema delicato come l'aborto si potesse dialogare e
confrontarsi senza questi veri e propri colpi di mano contro
una legge a suo tempo approvata dal Parlamento e
successivamente ribadita da una consultazione referendaria.
Ma per finire in
allegria occorre anche notare che in questa storica
settimana la lira rispetto alle quotazioni preelettorali ha
recuperato ben 46 punti sul dollaro, 41 sul marco tedesco e
37 sul franco svizzero. Evidentemente questa Italia caduta
in mano ai comunisti (come direbbe Berlusconi) non dispiace
agli investitori internazionali. Come diceva la buonanima,
va.
[ Francesco De Gregori]
ESISTE
IN ITALIA e nel mondo un'emergenza sanitaria dovuta ad una
malattia che al di là delle sue connotazioni cliniche
coinvolge aspetti morali e sociali fortemente spettacolari.
Una malattia che nonostante il suo livello di contagiosità
relativamente basso è stata definita la peste del secolo.
Una malattia colpevolizzante in quanto legata spesso a
comportamenti personali che la società giudica riprovevoli.
Una malattia per la quale si muore. Una malattia per la
quale, al cinema, ci si commuove.
Una malattia che emargina
fortemente le persone colpite e potenzia gli ostracismi già
saldamente radicati nei confronti di quelle categorie ove
essa maggiormente si propaga, tossicodipendenti ed
omosessuali. Una malattia dalle incerte origini ma
dall'esito scontato per la quale si sarebbe forse potuto
trovare un vaccino o una cura se il mondo civilizzato non
avesse scelto di spendere altrimenti le sue risorse.
Una malattia che potrebbe
essere largamente contenuta adottando determinate politiche
di prevenzione: distribuzione gratuita delle siringhe e dei
preservativi nei territori a rischio (le carceri, per
esempio), informazione di massa nelle scuole, maggiori
controlli sulle trasfusioni di sangue. Politiche che non
sono mai state adottate in maniera diffusa anche per la
contrarietà di molte forze moderate e soprattutto della
Chiesa cattolica. Una malattia fortemente legata al consumo
di una sostanza stupefacente - l'eroina _ che se sottratta
al mercato della clandestinità produrrebbe danni sociali
sensibilmente minori e ridurrebbe probabilmente in maniera
massiccia il numero dei consumatori e le devastazioni umane
e i problemi sanitari che ne conseguono.
Una malattia assai più
controllabile e circoscrivibile - se non per ora curabile -
di quanto non siano l'epatite B, il tumore polmonare,
l'infarto.
Esistono oggi in Italia
decine di migliaia di sieropositivi e malati di Aids che
vivono con dignità, con discrezione e con responsabilità la
loro difficile battaglia. A tutti costoro, indipendentemente
dalla loro professione, dalla loro condotta morale, dalla
loro fedina penale, dal loro stato giuridico, dal loro sesso
e dalla loro età, la società deve attenzione, cura e
rispetto e, a sua volta, discrezione.
Guai se nei loro
confronti, sul l'onda di alcuni episodi di violenza
recentemente avvenuti, dovesse avviarsi in maniera più o
meno subdola una campagna di emarginazione legalizzata. Guai
se il violentatore dovesse essere giudicato oltre che per il
gravissimo reato da lui commesso, anche per la sua
condizione di sieropositivo. Guai se il detenuto malato di
Aids avesse meno diritti di uscire dal carcere di altri
detenuti altrettanto gravemente malati. Guai se fosse vero,
come si è sciaguratamente affermato, che "certi diritti
cadono di fronte ai delitti".
L'Aids è una malattia
sociale. La sua contagiosità nel mondo occidentale è, come
dicevamo, molto bassa dal punto di vista clinico quanto alta
dal punto di vista simbolico. È indispensabile perciò
proprio per questo motivo rifuggire da ogni emotività nel
momento in cui ci si occupa dei temi ad essa collegati,
giuridici o sanitari che siano. Creare barriere carcerarie o
psicologiche fra la popolazione sana e quella dei
sieropositivi e dei conclamati può solo favorire _ come
spiegava molto bene Stefano Rodotà sull'Unità di ieri -
l'elusione del problema Aids e favorire la clandestinità.
Può solo allontanarci ancora di più dalla sua difficile
soluzione. E bisogna in ogni caso partire dalla
consapevolezza che questo tipo di violenza pesa sulla donna
due volte: perché la violenza sessuale segna per sempre la
sua vita e perché la minaccia dell'Aids porta con sé il
rischio di morte.
Ma l'accusa di tentato
omicidio levata a carico del giovane milanese sieropositivo
imputato di violenza carnale - reato già in sé gravissimo e
per il quale il codice già prevede pene adeguate - rischia
di risultare anche allarmante sul piano concettuale. A meno
che non si intenda prima o poi, con lo stesso ragionamento,
procedere per tentato omicidio anche contro i consigli di
amministrazione delle multinazionali del tabacco o contro i
responsabili delle amministrazioni locali che non
controllano adeguatamente lo stato di inquinamento dell'aria
e delle acque di loro competenza esponendo a grave pericolo
la salute dei cittadini.[ Francesco De Gregori]
L'
IMBECILLE con la testa rasata che si aggira armato di
spranga o coltello a caccia di immigrati o il cittadino
silenzioso che sempre più apertamente gli conferisce una
sorta di mandato a salvaguardia del proprio territorio
residenziale. Oppure l'intellettuale che arriccia il naso di
fronte a parole come "solidarietà" o "tolleranza", parole
non più spendibili con troppa leggerezza nemmeno a sinistra.
E la sinistra, appunto, accusata come sempre di arrivare in
ritardo sui problemi dei cittadini, bianchi o neri che
siano. Una sinistra che non sa, non capisce, non trova, non
cerca le soluzioni, i modi, la ricetta giusta. E già. E che
deve fare poi uno se trova un nordafricano che spaccia
eroina dentro il portone di casa sua? Lo può denunciare o
può almeno incazzarsi un po', senza per questo correre il
rischio di essere scambiato per un razzista? E si può o non
si può, al dunque, organizzare una bella marcia pacifica per
le vie di Torino o di Roma contro travestiti, mignotte,
spacciatori e clandestini di ogni risma per ritrovarsi
fianco a fianco con il commerciante, l'impiegato e il
filosofo tutti con la fiaccola in mano, a chiedere non
diciamo l'ordine - brutta parola! - ma almeno la legalità?
Certo fa un po'
impressione in questo paese cresciuto e prosperato tra abusi
e condoni, e centinaia di miliardi risucchiati nel nulla,
senza cinture di sicurezza, senza moralità fiscale, senza
decenza, tra gas di scarico non rilevati e adolescenti in
motorino
senza casco, ritrovarsi a
fare i conti con la parola "legalità" solo perché ci fa
comodo per sbarazzarci del negro sotto casa. Sarà anche
giusto, certo, ma vorrei proprio vedere quanti fra questi
marciatori così assetati di diritto sarebbero disposti a
farsi spulciare la denuncia dei redditi, o se davvero non
hanno mai pagato per avere una licenza o una concessione, o
non hanno mai finto una malattia per non andare a lavorare.
La legalità dovrebbe
venire da lontano, da un'alta cultura della democrazia. La
legalità non si improvvisa in una notte, non si evoca come
un fantasma shakespeariano da far poi comodamente sparire
alle prime luci del giorno. Si dice che la legge Martelli
sia una buona legge e che sia stata male applicata. Io non
credo che sia una buona legge perché la sua non applicazione
nasce dalla sua inapplicabilità. È inutile - se non ipocrita
_ parlare di controlli alle frontiere, numeri chiusi,
maggiore determinazione con gli immigrati delinquenti,
regolamentazione dei flussi. Ma cos'è una pubblicità della
Lines? Ma chi ha mai regolamentato niente in questo paese? E
chi ha mai pensato che fosse giusto regolamentare qualcosa?
Siamo, come al solito, alle grida manzoniane quando si sente
dire dal ministro degli Interni che d'ora in poi il
nordafricano sorpreso, tanto per dire, a vendere un paio di
falsi Ray-Ban dovrà attendere in carcere il momento del suo
rimpatrio obbligatorio. Ma quando mai? Ma chi è che lo andrà
ad arrestare in un paese dove contrabbando di sigarette,
usura, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione e
chi più ne ha più ne metta sono e sono state da sempre fonti
di reddito regolare per buona parte della popolazione? E in
quali carceri lo metteremo "er marocchino" visto che già
adesso le carceri scoppiano?
Finiamola di baloccarci
con le parole e prepariamoci a raccogliere quello che
abbiamo seminato: arrivata per ultima in Europa a doversi
porre il problema, di fronte ad un esodo di proporzioni
bibliche che altro non è se non la risposta fisiologica a
decenni di sfruttamenti e di stupri condotti dalle
"democrazie occidentali" nei confronti dei paesi in via di
sviluppo, l'Italia scopre oggi di essere l'anello, più
debole nella catena dei paesi europei. Debole tecnicamente e
debole culturalmente, al punto di non essere capace di
attivare nemmeno i più elementari meccanismi di integrazione
e di controllo.
Questo è lo scenario che
ci circonda e le fiaccolate notturne non servono a
rischiararlo: lo rendono semmai ancora più oscuro e nervoso.
[ Francesco De Gregori]
PASOLINI
era un'anima bella. Conosceva razionalità e passione,
impegno e saggezza. Conosceva l'intelligenza, il sesso,
l'amore. Conosceva Ninetto Davoli e Moravia, i giovani della
Fgci e quelli della stazione Termini, Maria Callas e Totò.
Ha fatto film e romanzi, articoli e poesie.
È difficile districare il
Pasolini regista dal narratore, dal poeta, dall'opinionista.
Mi mancano oggi nella stessa misura i suoi film, i suoi
romanzi, i suoi articoli, le sue poesie. Mi manca
soprattutto la sua opinione su ciò che è avvenuto dopo la
sua morte, in questi vent'anni. Pasolini e l'Aids; Pasolini
e le lettere di Moro; Pasolini e Berlusconi; Pasolini e
Internet. Mi manca quella lucidità che aveva nel decifrare
il presente, quella lucidità che fu spesso scambiata -
sbagliando _ per chiaroveggenza. Che lo portava a scrivere
ciò che al momento spesso non riuscivo a condividere ma che
avrei condiviso magari sei mesi o due anni dopo: Pasolini e
le lucciole, Pasolini e l'aborto, Pasolini in un dibattito a
Villa Borghese, qualche mese prima della sua morte, e io che
sentivo la sua voce - la sua voce immensa _ ma non riuscivo
a vederlo in faccia perché davanti a me, seduto per terra,
c'era uno con un enorme cappello che me lo nascondeva.
Ma non si deve parlare di
Pasolini solo in termini di assenza perché Pasolini è
caparbiamente presente nella società di oggi, malgrado ogni
esorcismo ed ogni censura. Nella bava alla bocca di Forlani,
nella faccia livida di Andreotti processato a Palermo. E
anche nella sconfitta non rassegnata di tutti coloro che si
ostinano a cercare i responsabili delle stragi italiche e
che sanno _ oh se lo sanno! - i nomi degli assassini ma,
come diceva Pasolini, "non ne hanno le prove". Ed è presente
nel suo cinema intenso e disadorno, come nella sua
letteratura bella e discontinua che rimarrà comunque una
sponda non marginale della letteratura del Novecento.
Stupisce soltanto che
ancora oggi si tenda a guardare la vita di Pasolini
attraverso la sua fine, drammatica e spettacolare quanto si
vuole ma certo non voluta, non cercata e forse nemmeno così
"simbolica" come fin dal primo momento si volle dire.
Riferirsi alla vita di Pasolini attraverso l'imbuto della
sua morte rischia di attenuare la portata di quella che fu
la sua vitalità generosa, la sua geniale capacità di donarsi
al suo tempo, finisce per trasformare un episodio di cronaca
nera - per quanto ambiguo ed irrisolto possa essere _ in un
segno del destino, in una vocazione esistenziale. Mi sono
imbattuto quest'estate a Graz in una mostra di quadri e
disegni di Pasolini intitolata - con disastroso
stravolgimento del titolo di una sua raccolta di poesie -
"Organizzar il trasumanar". In questa mostra (che a quanto
mi risulta non verrà in Italia e ciò mi sembra, a parte ogni
altra considerazione, scandaloso) tutta l'opera di Pasolini
- non solo quella pittorica _ sembra doversi inquadrare in
una prospettiva di morte annunciata, di predestinazione
letale, di fascinosa cognizione dell'esito finale.
Contrastano con tutto ciò le foto pubblicate nel catologo:
Pasolini che gioiosamente ritrae Maria Callas su una
spiaggia, la riproduzione di un quadro con una conchiglia
incollata sopra (Ninetto Davoli dovette impazzire per
trovargliela). Pasolini che usa, al posto dei colori,
l'inchiostro, la terra, la colla, il gesso, il vino. E al
posto dei pennelli le mani e le dita. E lui quasi buttato
sul foglio disteso a terra: il suo corpo ostinatamente vivo
gettato nella lotta senza mediazioni.
[ Francesco De Gregori]
QUANDO
NEL 1979 il film Il cacciatore venne presentato a Berlino la
delegazione sovietica abbandonò il Festival in segno di
protesta per le scene in cui veniva descritta la brutale
crudeltà dei viet-cong nei confronti dei prigionieri
americani. A distanza di sedici anni, con tutto quello che è
successo in Vietnam, in Unione Sovietica e nel mondo, questo
episodio può farci sorridere e le facce dei componenti di
quella delegazione ci appaiono non molto diverse da quella
di De Sadesky, il costernato ambasciatore sovietico de Il
dottor Stranamore costretto a rivelare fra mille imbarazzi
agli americani l'esistenza e i particolari della "macchina
di fine di mondo".
Ma in realtà quando il
film uscì - tre anni dopo la caduta di Saigon - nessuno ebbe
voglia di ridere e violente polemiche si sollevarono negli
Stati Uniti e in Europa. La sinistra americana reagì con
fastidio e con aperta ostilità a quello che venne subito
considerato un film razzista. Si indagò e si disse che la
roulette russa inflitta ai prigionieri americani dai
vietnamiti era probabilmente un'invenzione di Cimino. Peter
Arnett - sì, proprio lui _ denunciò inoltre "il modo
moralmente irresponsabile in cui Cimino appiattiva quindici
anni di guerra vietnamita per farne uno scenario conveniente
per i suoi bizzarri eroi".
Verrebbe da dire che
probabilmente la ferita era allo ra troppo fresca perché
questo film potesse essere accettato in maniera serena sia
da parte di quell'America più legata ai valori tradizionali
in forte crisi di autostima dopo la sconfitta in Vietnam sia
da quella che aveva vissuto fin dal primo momento
l'avventura vietnamita come un gigantesco sfregio ai propri
cromosomi democratici. Oggi a distanza di anni la
temperatura politica legata alla rilettura di quegli eventi
è notevolmente calata e di conseguenza il film di Cimino può
mostrare altre facce, altri versanti interpretativi. Emerge
senz'altro con maggiore chiarezza il ritratto di quella
piccola America, debole economicamente e culturalmente, che
fu il grande serbatoio di manodopera della guerra del
Vietnam. Quell'America diseredata di cui scrisse Steinbeck e
che oggi viene cantata da Bruce Springsteen, esposta ora ai
venti della Depressione ora a quelli delle Reaganomics, che
stenta a diventare soggetto politico perché probabilmente
non va nemmeno a votare anche se è sempre pronta, come nel
finale de Il cacciatore, ad intonare un canto patriottico
surreale e liberatorio. E a brindare all'amico ucciso ai
margini di una guerra di cui probabilmente non ha capito
molto.
Nell'alluvionale
produzione americana di film sul Vietnam o che al Vietnam fa
comunque riferimento il film di Cimino è senz'altro uno dei
meno risolti, anche dal punto di vista formale.
Per nulla assolutorio,
niente affatto archiviabile, scomodo perfino oggi che
abbiamo fresca negli occhi la stretta di mano sorridente fra
MacNa mara e Giap e la politica estera americana è distante
anni luce da quella cultura interventista che fu alla base
del disastroso impegno in Vietnam. Venuto anche in Italia a
dividere più che ad unire - quanti devono anche al film di
Cimino una piccola ma benefica crepa in una coscienza troppo
blindata ideologicamente? - Il cacciatore risulta essere
oggi soprattutto un generoso manifesto contro ogni tipo di
guerra, un grande affresco pacifista. Dalla guerra, sembra
volerci dire Cimino, non si torna indietro: o se si torna,
si ritorna senza più gambe e braccia, paralizzati nei
sentimenti, senza voglia di raccontare, senza più radici.
Anche un colpo solo è troppo perché anche un colpo solo può
uccidere; e il cacciatore rinunci per sempre a sparare
oppure nessuno sopravviverà a questa gigantesca roulette
russa dove tutti, anche coloro che in appa renza l'hanno
sfangata, escono alla fine spezzati e sconfitti.
[ Francesco De Gregori]
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