NEL MUSEO dei grandi e piccoli orrori quotidiani occorre ogni giorno fare spazio a nuove opere dell'ingegnosa bestialità dell'uomo. Ora ci tocca trovare un posto per la storia di Matteo Salkanovic, cinque anni, nomade che ha avuto la mano dilaniata da un librobomba (orrendo ma ineluttabile neologismo). Il libro - un variopinto libro di favole _ aveva attirato la sua curiosità mentre giocava nelle vicinanze del suo accampamento alla periferia della periferia di Pisa. L'esplosione, il sangue, le lacrime, la corsa all'ospedale: e cosí Matteo Salkanovic porterà per tutta la vita su di sé le tracce dell'accoglienza che lui e la sua famiglia proveniente dalla Bosnia hanno ricevuto nel nostro paese.

Ho cercato molte volte senza successo di immaginare le facce di chi ha disseminato di bombe apparentemente ben più potenti la storia del nostro paese: Milano, Bologna, Brescia, Bologna, Firenze, Milano... Che faccia aveva, cosa pensava l'uomo che il 2 dicembre 1969 "dimenticò" una borsa sotto un tavolo della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana e se ne andò, confuso tra la folla delle sue vittime, ad ascoltarsi in santa pace il telegiornale da qualche parte? Forse non lo sapremo mai, mai ne avremo il diritto. È come se gli identikit degli innumerevoli "esecutori materiali" di questo paese si sovrapponessero gli uni su gli altri sommandosi fino ad ottenere lo zero, l'assenza di ogni traccia ed espressione, il vuoto, il nero, il silenzio.

Cosí forse non conosceremo mai il volto e il nome di chi, truccando una bomba da libro per l'infanzia, ha coscientemente mirato a colpire un bambino piuttosto che un adulto, adottando cosí chissà poi quanto inconsapevolmente la più destabilizzante e raffinata delle tecniche del terrore. È chiaro che scegliere come bersaglio un bambino di 5 anni è qualcosa che va oltre al semplice gesto di intolleranza razziale: non si limita ad essere la deprecabile dichiarazione di guerra di un gruppo di cittadini nei confronti di un altro gruppo considerato diverso e sgradito, ma mira ad innescare il massimo della violenza e a suscitare il massimo dell'allarme sociale.

Eppure al di là di queste considerazioni cosí freddamente "tecniche" ciò che colpisce ancora una volta è vedere come la ferocia del mondo oggi non solo non sia disposta ad arretrare e a fermarsi davanti all'infanzia o all'adolescenza ma come anzi sembri voler promuovere proprio i giovani a testimonial del proprio impazzimento, del proprio cinismo, della propria stupidità. Sotto i colpi di un cecchino a Sarajevo, in un cantiere dove non vengono rispettate le norme di sicurezza, nelle curve degli stadi, negli studi televisivi, nelle aule universitarie, nelle strade ai bordi delle discoteche. O nei baretti dove sotto gli occhi di tutti tutto si compra e si vende o nelle favelas del Brasile o anche in qualche bel posto di questo Bel Paese dove per qualche centinaio di migliaia di lire a sedici anni si può a scelta essere uccisi o arruolati come uccisori. Non solo l'enclave degli adulti sembra ignorare ogni progetto di tutela del mondo giovanile, non sentire alcun obbligo nei suoi confronti: ma sembra anzi voler divorare i propri figli, farne carne da cannone, non vederli crescere, non educarli a vivere. E chissà se l'autore del libro-bomba si è reso conto di aver prodotto col suo gesto infame, con questa ennesima strage italiana, la più lucida delle metafore sul mondo di oggi: un mondo dove nemmeno a cinque anni è più permesso aprire un libro di favole, dove nemmeno a cinque anni si può sognare senza rimanere feriti.

[ Francesco De Gregori]

 

 

IL PARAGONE tra la lotta al terrorismo e quella alle frange estreme delle tifoserie sportive è legittimo e utile solo a condizione che si tenga conto di un paio di cose: che il terrorismo fu sconfitto non con la repressione militare ma con il ricorso a tecniche di intelligence (null'altro se non questo fu infatti, pur nella sua rozzezza, la legislazione sui pentiti) e che lo Stato riuscì a combattere e a vincere la sua battaglia senza nulla cedere - o quasi - sul piano dei diritti acquisiti della cittadinanza e senza sospendere le garanzie costituzionali di nessuno.

A quarantott'ore di distanza dall'uccisione del tifoso genoano Vincenzo Spagnolo le analisi socio-psicologiche dell'accaduto sembrano aver prevalso - spesso, ahimé, condite da devastante ed interessata retorica giornalistico-sportiva _ su quelle più direttamente legate alla sostanza del problema che è - spero che nessuno si offenda - anche un problema di ordine pubblico. Se non si dice questo in maniera forte e chiara ogni successiva valutazione rischia di essere un diversivo e di allontanarci dalla verità anziché aiutarci a comprenderla. È davvero così difficile dunque - lo chiedo ai commissari, ai prefetti, al capo della polizia _ identificare i gruppi e gli individui "a rischio" ed isolarli e neutralizzarli prima che siano giunti dentro gli stadi (O nelle loro immediate vicinanze, il che è lo stesso checché ne dica Matarrese)? È davvero impresa sovrumana infiltrare qualche carabiniere fra i vari Boys o Fedayn o Barbour Clubs per sapere in anticipo cosa gli girerà per la testa la domenica? È davvero così di cattivo gusto chiedere ai presidenti delle società di calcio di smetterla con le complicità più o meno diret te, più o meno dichiarate?

Cose dette e ridette, certo: ma purtroppo, chissà perché mai fatte. Si sarebbe detto una volta che "manca la volontà politica".

Domenica prossima dunque non si giocherà a pallone e altre attività sportive verranno sospese. Spererei che nessuno volesse vedere in questa pur lodevole scelta un qualche tipo di soluzione al problema. Una settimana di silenzio non vale molto più di un minuto di silenzio, nulla sarà cambiato fra due domeniche. Comunque il fatto che questa decisione sia stata presa "dal basso", dal mondo dei lavoratori del calcio più che dalle autorità sportive e politiche, le quali anzi ne avrebbero ben volentieri fatto a meno, costituisce un segnale raggelante a poche ore dalla morte di questa ennesima vittima e dall'arresto del suo povero assassino.

La violenza - purtroppo è vero _ non è nel mondo del calcio. Il calcio le garantisce spesso impunità e pubblicità, esaspera personalità e comportamenti, ar riva spesso a deformare la realtà estremizzandola e semplificandola: ma non è spegnendo il calcio per una domenica o per un anno che avremmo potuto salvare la vita spezzata di Vincenzo o quella distrutta per sempre di Simone che era partito da lontano con un coltello prestatogli da un suo amico diciassettenne per andare ad uccidere in nome di una squadra di cui _ dicono - non sapeva nemmeno la formazione.

  

 

 

UNA STATUETTA effigiante la Madonna si mette a piangere lacrime di sangue in quel di Civitavecchia. La televisione ne dà ampio risalto, i giornali - tutti _ amplificano la notizia. Perfino persone sul cui approccio razionale e positivo ai fatti della vita avresti messo la mano sul fuoco vengono travolte dall'evento. Se ne parla nei salotti e nei bar di periferia a Roma, a Milano: si prende posizione, intervengono in veste di esperti i periti di ambo le parti a dare soddisfazione ai creduli e agli scettici. La Chiesa, troppo intenta a vietare il sacerdozio alle donne, prende tempo e per il momento valuta tutto "con prudenza". D'altronde, si parva licet, tutte le domeniche pomeriggio in tv siamo perseguitati da un mago che alterna travagliate autosepolture a più spettacolari sedute di porno-ipnosi ad uso familiare. E tutto - si capisce _ fa notizia.

Anche Orson Welles speculò in altri tempi sulla credulità dei suoi connazionali e gettò nel panico gli ascoltatori della Bbc annunciando l'arrivo dei marziani. Ma lo fece anticipando genialmente problematiche assai di là da venire per lanciare un segnale d'allarme su un uso sconsiderato dei media e se non altro mischiò il tutto con una buona dose di sense of humor assai lontano dagli infuocati climi catodici del nostro tempo. Nella complessa cosmologia

di fine millennio è sempre più in agguato dunque il mostro di Lochness, o i suoi replicanti in cartongesso, carne o ossa, acqua o vino, sangue (di santo partenopeo o di Madonna laziale che sia) o lacrime. Buoni ad ogni uso affabulatorio e divinatorio e - soprattutto pare _ preziosi indicatori del nostro futuro economico, politico, sportivo. Congeleremo il debito pubblico? Finirà la guerra in Bosnia? Chi vincerà lo scudetto? Chiediamolo a Frate Indovino, a Barbanera, a Davide Copperfield. La risposta (o se non altro la domanda) è garantita.

Ma c'è naturalmente un altro versante - più serio e più grave _ di questa rincorsa all'oscuro irrazionale che pervade la nostra epoca (e che sembra peraltro convivere brillantemente con tutti gli aspetti positivi della modernità). Che cos'è infatti se non l'altra faccia di questo neo-paganesimo l'impressionante espandersi a macchia d'olio di ogni tipo di integralismo (politico, religioso, misto) che sembra ormai aver raggiunto buona parte del mondo o con il quale, se non altro, il mondo deve fare i conti?

È a causa di questo integralismo che oggi un uomo è costretto a nascondersi per tutto il pianeta perché - la sua colpa è aver scritto un libro - è stato condannato a morte da un intero popolo (e che non si tratti di una condanna simbolica lo dice il fatto che ci sono compagnie aeree che rifiutano di staccare un biglietto a nome di Salman Rushdie).

È a causa di questo integralismo che immense zone del mondo sovrappopolate fino all'estremo vengono sottratte a una politica di pianificazione delle nascite, unica soluzione, quand'anche tardiva, al disastro ecologico, ambientale e politico che ci circonda. E non a caso su questo argomento due integralismi di segno culturale assai diverso, se non opposto, quello cattolico e quello islamico, hanno mostrato di recente una impressionante convergenza ideale.

Ed è di questo integralismo e delle sue svariate articolazioni regionali e culturali, infine, che si nutrono o si travestono gli innumerevoli conflitti che contraddistinguono la nostra epoca recente dalla Somalia alla Bosnia passando per Israele e la Palestina, il Tibet, l'Irlanda del Nord.

Perciò ci sembra legittimo - e in certo modo estremamente "laico" _ avanzare qualche dubbio anche sugli entusiasmi che hanno accompagnato di recente l'esplosione di Internet, salutata ancora una volta (dopo l'invenzione della ruota, della polvere da sparo, del telaio meccanico e della bomba H) come uno degli eventi destinati a cambiare, nel bene o nel male, il destino degli uomini e gli uomini stessi. Chissà se è proprio vero, chissà se possiamo crederci.

Ci sembra, al contrario, che il vuoto lasciato dal fallimento della politica e la sua inadeguatezza nel dirimere le complessità del pianeta del dopo '89 abbiano messo a nudo un ancor più grave vuoto di spiritualità - e non di sola spiritualità in senso religioso si tratta _ che pervade tutta la nostra epoca e di cui le lacrime (vere? false?) di una statuetta sono purtroppo solo una delle tante espressioni estreme e marginali. L'uomo è ancora una creatura capace di tagliare le mani a un altro uomo per punirlo di aver rubato: e del suo destino non sembra conoscere molto più dei sacerdoti dell'antichità che scrutavano il volo degli uccelli o le viscere degli animali appena uccisi. Le grandi autostrade fosforescenti che veicolano dati e informazioni nell'oscurità che ci circonda non possono da sole sostituirsi alla vera politica o alla vera religiosità. Sembrano capaci, per ora, di mettere in comunicazione le notizie con le notizie, non ancora gli uomini con gli uomini.

[ Francesco De Gregori]

 

 

 

 

del diverso, nei grandi e non banali, né retorici temi dell'organizzazione della fratellanza e dell'invenzione del futuro. Solo se si incarna nelle pratiche quotidiane di tutti gli uomini, a destra come a sinistra, l'antifascismo può diventare arnese politico e non repertorio storiografico.

 La destra dunque è stata sconfitta. Ma più che nei numeri elettorali, che si sono giocati come si è visto sul filo del rasoio, la destra sembra aver perduto la sua battaglia sul piano della credibilità e dell'immagine complessiva: il che è assai più preoccupante per una formazione - ci riferiamo qui in particolare a Forza Italia - neonata o sedicente tale. Così come Berlusconi non è stato in grado di governare il paese quando ne ha avuto l'occasione, così nel momento propositivo della presentazione delle liste alle amministrative è venuta fuori drammaticamente in più di una situazione la mancanza di spessore dei caldidati del polo: si è cominciato a sentire perciò il fiato corto del "nuovo" berlusconiano, sventolato fino a poco tempo fa come vessillo irresistibile o infallibile talismano e ora rifluito invece nelle più comode e capaci sacche del trasformismo caratteristico della "vecchia" politica.

 Ed è proprio su questo terreno che sembra invece essersi mossa abbastanza bene (e senza eccessivi tatticismi) la nuova cultura del centro-sinistra. Il che induce, al termine di questa settimana meravigliosa e terribile - meravigliosa, dicevamo per alcuni, terribile per altri - a ben sperare per le sorti della futura unione dei democratici.

 Peccato però che in questa settimana si sia dovuto ascoltare anche un accordo stonato e, purtroppo, non insolito: l'ennesimo attacco alla legge 194 sorprendentemente condotto da una delle più alte cariche istituzionali ed espresso oltretutto in una sede quanto meno inopportuna. Quanto sarebbe più civile se su un tema delicato come l'aborto si potesse dialogare e confrontarsi senza questi veri e propri colpi di mano contro una legge a suo tempo approvata dal Parlamento e successivamente ribadita da una consultazione referendaria.

 Ma per finire in allegria occorre anche notare che in questa storica settimana la lira rispetto alle quotazioni preelettorali ha recuperato ben 46 punti sul dollaro, 41 sul marco tedesco e 37 sul franco svizzero. Evidentemente questa Italia caduta in mano ai comunisti (come direbbe Berlusconi) non dispiace agli investitori internazionali. Come diceva la buonanima, va.

[ Francesco De Gregori]

 

 

 

 

ESISTE IN ITALIA e nel mondo un'emergenza sanitaria dovuta ad una malattia che al di là delle sue connotazioni cliniche coinvolge aspetti morali e sociali fortemente spettacolari. Una malattia che nonostante il suo livello di contagiosità relativamente basso è stata definita la peste del secolo. Una malattia colpevolizzante in quanto legata spesso a comportamenti personali che la società giudica riprovevoli. Una malattia per la quale si muore. Una malattia per la quale, al cinema, ci si commuove.

Una malattia che emargina fortemente le persone colpite e potenzia gli ostracismi già saldamente radicati nei confronti di quelle categorie ove essa maggiormente si propaga, tossicodipendenti ed omosessuali. Una malattia dalle incerte origini ma dall'esito scontato per la quale si sarebbe forse potuto trovare un vaccino o una cura se il mondo civilizzato non avesse scelto di spendere altrimenti le sue risorse.

Una malattia che potrebbe essere largamente contenuta adottando determinate politiche di prevenzione: distribuzione gratuita delle siringhe e dei preservativi nei territori a rischio (le carceri, per esempio), informazione di massa nelle scuole, maggiori controlli sulle trasfusioni di sangue. Politiche che non sono mai state adottate in maniera diffusa anche per la contrarietà di molte forze moderate e soprattutto della Chiesa cattolica. Una malattia fortemente legata al consumo di una sostanza stupefacente - l'eroina _ che se sottratta al mercato della clandestinità produrrebbe danni sociali sensibilmente minori e ridurrebbe probabilmente in maniera massiccia il numero dei consumatori e le devastazioni umane e i problemi sanitari che ne conseguono.

Una malattia assai più controllabile e circoscrivibile - se non per ora curabile - di quanto non siano l'epatite B, il tumore polmonare, l'infarto.

Esistono oggi in Italia decine di migliaia di sieropositivi e malati di Aids che vivono con dignità, con discrezione e con responsabilità la loro difficile battaglia. A tutti costoro, indipendentemente dalla loro professione, dalla loro condotta morale, dalla loro fedina penale, dal loro stato giuridico, dal loro sesso e dalla loro età, la società deve attenzione, cura e rispetto e, a sua volta, discrezione.

Guai se nei loro confronti, sul l'onda di alcuni episodi di violenza recentemente avvenuti, dovesse avviarsi in maniera più o meno subdola una campagna di emarginazione legalizzata. Guai se il violentatore dovesse essere giudicato oltre che per il gravissimo reato da lui commesso, anche per la sua condizione di sieropositivo. Guai se il detenuto malato di Aids avesse meno diritti di uscire dal carcere di altri detenuti altrettanto gravemente malati. Guai se fosse vero, come si è sciaguratamente affermato, che "certi diritti cadono di fronte ai delitti".

L'Aids è una malattia sociale. La sua contagiosità nel mondo occidentale è, come dicevamo, molto bassa dal punto di vista clinico quanto alta dal punto di vista simbolico. È indispensabile perciò proprio per questo motivo rifuggire da ogni emotività nel momento in cui ci si occupa dei temi ad essa collegati, giuridici o sanitari che siano. Creare barriere carcerarie o psicologiche fra la popolazione sana e quella dei sieropositivi e dei conclamati può solo favorire _ come spiegava molto bene Stefano Rodotà sull'Unità di ieri - l'elusione del problema Aids e favorire la clandestinità. Può solo allontanarci ancora di più dalla sua difficile soluzione. E bisogna in ogni caso partire dalla consapevolezza che questo tipo di violenza pesa sulla donna due volte: perché la violenza sessuale segna per sempre la sua vita e perché la minaccia dell'Aids porta con sé il rischio di morte.

Ma l'accusa di tentato omicidio levata a carico del giovane milanese sieropositivo imputato di violenza carnale - reato già in sé gravissimo e per il quale il codice già prevede pene adeguate - rischia di risultare anche allarmante sul piano concettuale. A meno che non si intenda prima o poi, con lo stesso ragionamento, procedere per tentato omicidio anche contro i consigli di amministrazione delle multinazionali del tabacco o contro i responsabili delle amministrazioni locali che non controllano adeguatamente lo stato di inquinamento dell'aria e delle acque di loro competenza esponendo a grave pericolo la salute dei cittadini.[ Francesco De Gregori]

 

 

 

 

L' IMBECILLE con la testa rasata che si aggira armato di spranga o coltello a caccia di immigrati o il cittadino silenzioso che sempre più apertamente gli conferisce una sorta di mandato a salvaguardia del proprio territorio residenziale. Oppure l'intellettuale che arriccia il naso di fronte a parole come "solidarietà" o "tolleranza", parole non più spendibili con troppa leggerezza nemmeno a sinistra. E la sinistra, appunto, accusata come sempre di arrivare in ritardo sui problemi dei cittadini, bianchi o neri che siano. Una sinistra che non sa, non capisce, non trova, non cerca le soluzioni, i modi, la ricetta giusta. E già. E che deve fare poi uno se trova un nordafricano che spaccia eroina dentro il portone di casa sua? Lo può denunciare o può almeno incazzarsi un po', senza per questo correre il rischio di essere scambiato per un razzista? E si può o non si può, al dunque, organizzare una bella marcia pacifica per le vie di Torino o di Roma contro travestiti, mignotte, spacciatori e clandestini di ogni risma per ritrovarsi fianco a fianco con il commerciante, l'impiegato e il filosofo tutti con la fiaccola in mano, a chiedere non diciamo l'ordine - brutta parola! - ma almeno la legalità?

Certo fa un po' impressione in questo paese cresciuto e prosperato tra abusi e condoni, e centinaia di miliardi risucchiati nel nulla, senza cinture di sicurezza, senza moralità fiscale, senza decenza, tra gas di scarico non rilevati e adolescenti in motorino

senza casco, ritrovarsi a fare i conti con la parola "legalità" solo perché ci fa comodo per sbarazzarci del negro sotto casa. Sarà anche giusto, certo, ma vorrei proprio vedere quanti fra questi marciatori così assetati di diritto sarebbero disposti a farsi spulciare la denuncia dei redditi, o se davvero non hanno mai pagato per avere una licenza o una concessione, o non hanno mai finto una malattia per non andare a lavorare.

La legalità dovrebbe venire da lontano, da un'alta cultura della democrazia. La legalità non si improvvisa in una notte, non si evoca come un fantasma shakespeariano da far poi comodamente sparire alle prime luci del giorno. Si dice che la legge Martelli sia una buona legge e che sia stata male applicata. Io non credo che sia una buona legge perché la sua non applicazione nasce dalla sua inapplicabilità. È inutile - se non ipocrita _ parlare di controlli alle frontiere, numeri chiusi, maggiore determinazione con gli immigrati delinquenti, regolamentazione dei flussi. Ma cos'è una pubblicità della Lines? Ma chi ha mai regolamentato niente in questo paese? E chi ha mai pensato che fosse giusto regolamentare qualcosa? Siamo, come al solito, alle grida manzoniane quando si sente dire dal ministro degli Interni che d'ora in poi il nordafricano sorpreso, tanto per dire, a vendere un paio di falsi Ray-Ban dovrà attendere in carcere il momento del suo rimpatrio obbligatorio. Ma quando mai? Ma chi è che lo andrà ad arrestare in un paese dove contrabbando di sigarette, usura, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione e chi più ne ha più ne metta sono e sono state da sempre fonti di reddito regolare per buona parte della popolazione? E in quali carceri lo metteremo "er marocchino" visto che già adesso le carceri scoppiano?

Finiamola di baloccarci con le parole e prepariamoci a raccogliere quello che abbiamo seminato: arrivata per ultima in Europa a doversi porre il problema, di fronte ad un esodo di proporzioni bibliche che altro non è se non la risposta fisiologica a decenni di sfruttamenti e di stupri condotti dalle "democrazie occidentali" nei confronti dei paesi in via di sviluppo, l'Italia scopre oggi di essere l'anello, più debole nella catena dei paesi europei. Debole tecnicamente e debole culturalmente, al punto di non essere capace di attivare nemmeno i più elementari meccanismi di integrazione e di controllo.

Questo è lo scenario che ci circonda e le fiaccolate notturne non servono a rischiararlo: lo rendono semmai ancora più oscuro e nervoso.

[ Francesco De Gregori]

 

 

 

 

 

PASOLINI era un'anima bella. Conosceva razionalità e passione, impegno e saggezza. Conosceva l'intelligenza, il sesso, l'amore. Conosceva Ninetto Davoli e Moravia, i giovani della Fgci e quelli della stazione Termini, Maria Callas e Totò. Ha fatto film e romanzi, articoli e poesie.

È difficile districare il Pasolini regista dal narratore, dal poeta, dall'opinionista. Mi mancano oggi nella stessa misura i suoi film, i suoi romanzi, i suoi articoli, le sue poesie. Mi manca soprattutto la sua opinione su ciò che è avvenuto dopo la sua morte, in questi vent'anni. Pasolini e l'Aids; Pasolini e le lettere di Moro; Pasolini e Berlusconi; Pasolini e Internet. Mi manca quella lucidità che aveva nel decifrare il presente, quella lucidità che fu spesso scambiata - sbagliando _ per chiaroveggenza. Che lo portava a scrivere ciò che al momento spesso non riuscivo a condividere ma che avrei condiviso magari sei mesi o due anni dopo: Pasolini e le lucciole, Pasolini e l'aborto, Pasolini in un dibattito a Villa Borghese, qualche mese prima della sua morte, e io che sentivo la sua voce - la sua voce immensa _ ma non riuscivo a vederlo in faccia perché davanti a me, seduto per terra, c'era uno con un enorme cappello che me lo nascondeva.

Ma non si deve parlare di Pasolini solo in termini di assenza perché Pasolini è caparbiamente presente nella società di oggi, malgrado ogni esorcismo ed ogni censura. Nella bava alla bocca di Forlani, nella faccia livida di Andreotti processato a Palermo. E anche nella sconfitta non rassegnata di tutti coloro che si ostinano a cercare i responsabili delle stragi italiche e che sanno _ oh se lo sanno! - i nomi degli assassini ma, come diceva Pasolini, "non ne hanno le prove". Ed è presente nel suo cinema intenso e disadorno, come nella sua letteratura bella e discontinua che rimarrà comunque una sponda non marginale della letteratura del Novecento.

Stupisce soltanto che ancora oggi si tenda a guardare la vita di Pasolini attraverso la sua fine, drammatica e spettacolare quanto si vuole ma certo non voluta, non cercata e forse nemmeno così "simbolica" come fin dal primo momento si volle dire. Riferirsi alla vita di Pasolini attraverso l'imbuto della sua morte rischia di attenuare la portata di quella che fu la sua vitalità generosa, la sua geniale capacità di donarsi al suo tempo, finisce per trasformare un episodio di cronaca nera - per quanto ambiguo ed irrisolto possa essere _ in un segno del destino, in una vocazione esistenziale. Mi sono imbattuto quest'estate a Graz in una mostra di quadri e disegni di Pasolini intitolata - con disastroso stravolgimento del titolo di una sua raccolta di poesie - "Organizzar il trasumanar". In questa mostra (che a quanto mi risulta non verrà in Italia e ciò mi sembra, a parte ogni altra considerazione, scandaloso) tutta l'opera di Pasolini - non solo quella pittorica _ sembra doversi inquadrare in una prospettiva di morte annunciata, di predestinazione letale, di fascinosa cognizione dell'esito finale. Contrastano con tutto ciò le foto pubblicate nel catologo: Pasolini che gioiosamente ritrae Maria Callas su una spiaggia, la riproduzione di un quadro con una conchiglia incollata sopra (Ninetto Davoli dovette impazzire per trovargliela). Pasolini che usa, al posto dei colori, l'inchiostro, la terra, la colla, il gesso, il vino. E al posto dei pennelli le mani e le dita. E lui quasi buttato sul foglio disteso a terra: il suo corpo ostinatamente vivo gettato nella lotta senza mediazioni.

[ Francesco De Gregori]

 

 

 

 

 

QUANDO NEL 1979 il film Il cacciatore venne presentato a Berlino la delegazione sovietica abbandonò il Festival in segno di protesta per le scene in cui veniva descritta la brutale crudeltà dei viet-cong nei confronti dei prigionieri americani. A distanza di sedici anni, con tutto quello che è successo in Vietnam, in Unione Sovietica e nel mondo, questo episodio può farci sorridere e le facce dei componenti di quella delegazione ci appaiono non molto diverse da quella di De Sadesky, il costernato ambasciatore sovietico de Il dottor Stranamore costretto a rivelare fra mille imbarazzi agli americani l'esistenza e i particolari della "macchina di fine di mondo".

 Ma in realtà quando il film uscì - tre anni dopo la caduta di Saigon - nessuno ebbe voglia di ridere e violente polemiche si sollevarono negli Stati Uniti e in Europa. La sinistra americana reagì con fastidio e con aperta ostilità a quello che venne subito considerato un film razzista. Si indagò e si disse che la roulette russa inflitta ai prigionieri americani dai vietnamiti era probabilmente un'invenzione di Cimino. Peter Arnett - sì, proprio lui _ denunciò inoltre "il modo moralmente irresponsabile in cui Cimino appiattiva quindici anni di guerra vietnamita per farne uno scenario conveniente per i suoi bizzarri eroi".

 Verrebbe da dire che probabilmente la ferita era allo ra troppo fresca perché questo film potesse essere accettato in maniera serena sia da parte di quell'America più legata ai valori tradizionali in forte crisi di autostima dopo la sconfitta in Vietnam sia da quella che aveva vissuto fin dal primo momento l'avventura vietnamita come un gigantesco sfregio ai propri cromosomi democratici. Oggi a distanza di anni la temperatura politica legata alla rilettura di quegli eventi è notevolmente calata e di conseguenza il film di Cimino può mostrare altre facce, altri versanti interpretativi. Emerge senz'altro con maggiore chiarezza il ritratto di quella piccola America, debole economicamente e culturalmente, che fu il grande serbatoio di manodopera della guerra del Vietnam. Quell'America diseredata di cui scrisse Steinbeck e che oggi viene cantata da Bruce Springsteen, esposta ora ai venti della Depressione ora a quelli delle Reaganomics, che stenta a diventare soggetto politico perché probabilmente non va nemmeno a votare anche se è sempre pronta, come nel finale de Il cacciatore, ad intonare un canto patriottico surreale e liberatorio. E a brindare all'amico ucciso ai margini di una guerra di cui probabilmente non ha capito molto.

 Nell'alluvionale produzione americana di film sul Vietnam o che al Vietnam fa comunque riferimento il film di Cimino è senz'altro uno dei meno risolti, anche dal punto di vista formale.

 Per nulla assolutorio, niente affatto archiviabile, scomodo perfino oggi che abbiamo fresca negli occhi la stretta di mano sorridente fra MacNa mara e Giap e la politica estera americana è distante anni luce da quella cultura interventista che fu alla base del disastroso impegno in Vietnam. Venuto anche in Italia a dividere più che ad unire - quanti devono anche al film di Cimino una piccola ma benefica crepa in una coscienza troppo blindata ideologicamente? - Il cacciatore risulta essere oggi soprattutto un generoso manifesto contro ogni tipo di guerra, un grande affresco pacifista. Dalla guerra, sembra volerci dire Cimino, non si torna indietro: o se si torna, si ritorna senza più gambe e braccia, paralizzati nei sentimenti, senza voglia di raccontare, senza più radici. Anche un colpo solo è troppo perché anche un colpo solo può uccidere; e il cacciatore rinunci per sempre a sparare oppure nessuno sopravviverà a questa gigantesca roulette russa dove tutti, anche coloro che in appa renza l'hanno sfangata, escono alla fine spezzati e sconfitti.

[ Francesco De Gregori]

 

 

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