Per Francesco De Gregori è stato di nuovo il momento di andare in tournée: lasciatosi alle spalle il Vivavoce Tour lo scorso settembre – con il grande concerto-evento finale all’Arena di Verona – il cantante romano è tornato  in giro per l’Italia. Da marzo ad agosto 2016 sui palchi di club e teatri con l’Amore e furto Tour, una nuova serie di appuntamenti live, occasione per ascoltare dal vivo il nuovo disco De Gregori canta Bob Dylan – Amore e furto in cui traduce e interpreta alcune delle più belle canzoni del cantautore americano.

 

 

 

 

 

CONCERTO DA RECORD PER FRANCESCO DE GREGORI TRENTAMILA PERSONE A SICILIA OUTLET VILLAGE - Ventitré brani in scaletta, dai celebri capolavori all’omaggio a Bob Dylan)

 

Fin dalla mattina l’atmosfera che si respirava a Sicilia Outlet Village era quella di un evento eccezionale, poi quando alle luci della sera Francesco De Gregori è salito sul palco non c’erano più dubbi: un concerto da record, 30 mila persone al cospetto del “Principe” romano. Voci e volti provenienti da tutta l’Isola, e non solo, hanno cantato all’unisono sulle note di “Alice”, “Titanic” “Rimmel”, “La donna cannone”, capolavori simbolo della musica italiana d’autore.

Affascinante presenza scenica, sound impeccabile, melodie intramontabili, sapienza, passione e ben 23 canzoni in scaletta per un concerto di oltre due ore: ieri sera (giovedì 25 agosto) De Gregori dal vivo, a ingresso gratuito, non ha deluso le aspettative di un pubblico numeroso e trasversale. Adulti di diverse età, giovani, giovanissimi, e perfino bambini, hanno intonato i testi di brani cult come “Generale”. Nel cuore dell’esibizione è arrivato l’atteso omaggio di devozione e ammirazione a Bob Dylan, che ha ispirato l’ultimo disco dell’artista “Amore e Furto”, titolo che dà il nome anche al tour. Tre le tracce tratte dall’album: Un angioletto come te (Sweetheart like you), Servire qualcuno (Gotta serve somebody), Come il giorno (I shall be released). A seguire un’altra escalation di emozioni cantate, fino allo speciale saluto finale al pubblico con “Buonanotte fiorellino”.

Oltre 40 anni di musica in una sola straordinaria serata: un regalo di Sicilia Outlet Village ai suoi visitatori, che hanno dimostrato di apprezzare anche l’occasione di fare shopping “sotto le stelle” negli oltre 140 negozi dei marchi nazionali e internazionali di moda. Ancora una volta e con risposte sempre più positive per lo sviluppo del territorio, Sicilia Outlet Village si conferma luogo di aggregazione sociale, nonché promotore di eventi di alta qualità culturale e di forte richiamo turistico.

http://www.paeseitaliapress.it/news_3639_CONCERTO-DA-RECORD-PER-FRANCESCO-DE-GREGORI-TRENTAMILA-PERSONE-A-SICILIA-OUTLET-VILLAGE.html

 

la scaletta:

01. PEZZI DI VETRO

02. L'AGNELLO DI DIO

03. LA LEVA CALCISTICA DELLA CLASSE '68

04. VAI IN AFRICA, CELESTINO!

05. PASSA L'ANGELO

06. LA STORIA

07. ALICE

08. CATERINA

09. BATTERE E LEVARE

10. SEMPRE E PER SEMPRE

11. SERVIRE QUALCUNO (GOTTA SERVE SOMEBODY)

12. UN ANGIOLETTO COME TE (SWEETHEART LIKE YOU)

13. COME IL GIORNO (I SHALL BE RELEASED)

14. L'ABBIGLIAMENTO DI UN FUOCHISTA

15. ATLANTIDE

16. GENERALE

17. IL PANORAMA DI BETLEMME

18. NIENTE DA CAPIRE

19. SOTTO LE STELLE DEL MESSICO A TRAPANÀR

20. TITANIC

21. RIMMEL

 

BIS

22. LA DONNA CANNONE

23. BUONANOTTE FIORELLINO (DYLAN VERSION)

 

 

https://www.iltitanic.com/gif/43.gif

 

Stornara 17 agosto 2016

 

 

 

01. PEZZI DI VETRO

02. L'AGNELLO DI DIO

03. LA LEVA CALCISTICA DELLA CLASSE '68

04. VAI IN AFRICA, CELESTINO!

05. PASSA L'ANGELO

06. LA STORIA

07. ALICE

08. CATERINA

09. BATTERE E LEVARE

10. SEMPRE E PER SEMPRE

11. MONDO POLITICO (POLITICAL WORLD)

12. UN ANGIOLETTO COME TE (SWEETHEART LIKE YOU)

13. COME IL GIORNO (I SHALL BE RELEASED)

14. L'ABBIGLIAMENTO DI UN FUOCHISTA

15. ATLANTIDE

16. GENERALE

17. IL PANORAMA DI BETLEMME

18. NIENTE DA CAPIRE

19. SOTTO LE STELLE DEL MESSICO A TRAPANÀR

20. TITANIC

21. RIMMEL

 

BIS

 22. LA DONNA CANNONE

23. BUONANOTTE FIORELLINO (DYLAN VERSION)

foto di Samuele Romano

 

 

Gubbio, Piazza Grande

Giovane e bello, divo e poeta, con un principio d’intossicazione aziendale, fatturato lordo e la classifica che sale, il resto lo trova naïf”

Anni fa, con queste parole, Rino Gaetano ha fotografato la personalità unica di De Gregori  elevando le sfumature del suo genio.https://www.iltitanic.com/premi/01.jpg

Una sintesi perfetta, contestualizzata al tema del Gubbio DOC Fest. Il festival, nato per onorare la memoria di Riccardo Monacelli (prematuramente scomparso all’età di vent’anni nel 2011, ndr), cela infatti una delle celebri ispirazioni di un altro mostro sacro della musica italiana: Fabrizio De Andrè, che ha fatto della Direzione Contraria ed Ostinata un vero e proprio stile di vita.

Ed è proprio con questa meta diversa dalle altre che il cantautore romano ha sancito i capisaldi del suo percorso artistico. Un fil rouge che si è legato inconsapevolmente con l’anima nostalgica del pubblico eugubino, accorso in massa per assistere ad un evento a dir poco memorabile.

Non più giovane, ma sempre divo e poetico, De Gregori ha sfoggiato Pezzi di Vetro raffinati, concedendo alla platea un brindisi con l’aldilà. L’Agnello di Dio non ha soltanto tolto i peccati da questo mondo, sempre più contaminato dalla scia di un materialismo illogico, ma ha impresso il ricordo di una suggestione.

Quella de La leva calcistica del 68’. Già, il concerto è cominciato proprio così. Tra pezzi di storia della musica italiana, incubate in un contesto magico che solo Piazza Grande di Gubbio può sostenere.

Vai in Africa, Celestino! ha proseguito il percorso tra L’Angelo e La storia siamo noi…

Momenti di nostalgia, mistificata in un compendio di emozioni e poesia. Testi sacri, per chi crede in qualcosa di unico e pulito. Musica arrangiata come fosse un trofeo da conquistare. Eleganza e ritmo, magnetismo e talento.

 Già, De Gregori non era solo sul palco. La band, a dir poco altisonante, ha caratterizzato gli arrangiamenti con disinvoltura e peculiarità. Dettagli messi in rilevanza in canzoni impresse nel tempo. Come Alice, Caterina, Battere e Levare e Sempre e per Sempre.

Poi, dopo un exploit che ha lasciato senza fiato il pubblico presente (sold out, ndr), De Gregori ha omaggiato il mito di Bob Dylan, traducendo in italiano un paio delle sue canzoni più note.

D’altronde era il pretesto per giustificare il titolo a quest’evento: “De Gregori canta Bob Dylan”.

 Il fatto è… che nessuno potrà mai cantare De Gregori!

 

Il genio romano, infatti, non ha assolutamente eguali nella storia della musica contemporanea.

Ascoltarlo dal vivo è un privilegio per pochi. Ascoltarlo dal vivo è un viaggio tra passato, presente e futuro che non conosce definizione. Ascoltarlo dal vivo è un piacere sublime che conserva le emozioni come fossero tenute sottovuoto.

A memoria, dopo tanti concerti visti e recensiti, non credo di aver sentito mai una voce così ipnotica e coinvolgente.

 Se fosse stato un calciatore dei giorni nostri, De Gregori sarebbe stato Zidane. Quelli come lui, nascono una volta ogni cent’anni. Ma, soprattutto… A quelli come lui puoi veramente perdonare  tutto.

Anche di cantare senza seguire la metrica “originale”, come se quelle canzoni (diventate ormai di tutti), fossero soltanto sue…

A volte ironico, a volte insolente, a volte “apparentemente” infastidito dall’unanimità popolare.

Ma non è soltanto il moto, quello di andare in direzione ostinata e contraria; il suo viaggio artistico è un messaggio per pochi eletti.

Sembrerebbe quasi dire: “non cantate insieme a me, fatelo dentro di voi. Non ascoltate ciò che sentite, ma sentite ciò che state ascoltando…”

Questi non sono altro che pensieri naïf.

Per qualcuno un non sense che, in realtà, più di un senso ha…

 Quand’è partito l’arrangiamento de L’abbigliamento di un fuochista è cominciato il lato B della festa. La strepitosa band ha trasformato la platea in un’oasi trovata al bisogno. Mani al cielo e cuore andante, portati per mano sulle note di Atlantide e Il canto delle Sirene.

Poi c’è stato il momento del “falò”. Quello della tenda, dell’amico con la chitarra in mano. Quello che tutte le generazioni hanno cantato a squarciagola, immaginando un treno che va veloce. Quello dietro la collina. Quello di Generale.

 Emozioni senza tempo impresse su il Panorama di Betlemme, trasportate dal vento fino alle note di Niente da Capire.

Già. Probabilmente è difficile comprendere questo concerto leggendomi, ma d’altronde è così che l’ho vissuto. Sensazioni troppo forti da poter imprimere su un foglio, su uno schermo, su una lettura convenzionale.

 E, allora, concedetemi questa parentesi Sotto le stelle del Messico. Alessandro Scalamonti e il resto della ciurma del Gubbio Doc Fest, hanno compiuto un altro autentico capolavoro…

Organizzazione degna di un Umbria Jazz qualsiasi, accuratezza e cura dei dettagli messi in rilevanza da un talento creativo fuori dal comune. Come quando il visual video impresso sulle pareti del Palazzo dei Consoli ha illuminato la scena.

 Come quando, tra una canzone e l’altra, persone tra la folla si sono fatte largo per sposare il panorama eugubino (che si può vedere soltanto da lì) impreziosito dalla musica di De Gregori, che sembrava uscita da un film.

Titanic, perché è qui che siamo arrivati, tra una prima classe e l’altra. E poi gira, gira, gira che si arriva al capolavoro: Rimmel.

 Beh. Concedetemi un po’ di egoismo.

L’arrangiamento di questo pezzo ha superato ogni aspettativa immaginabile. Tutti (o almeno lo spero) conoscono la poetica di questa canzone. Ma soltanto il pubblico presente, assolutamente privilegiato come il sottoscritto, ha potuto godere di un’interpretazione unica, magistrale che mi ha fatto letteralmente impazzire. 

E poi?

Il bis.

Il pubblico pagante lo testimonierà.

Ecco. Quando è tornato a gran voce per cantare La donna cannone, c’è stato un vero e proprio applauso su questa strofa qui. Non so come dirvelo…

Perché i brividi non hanno traduzione in parole.

Ma posso solo farvi capire che, mentre battevo le mani, spontaneamente ho guardato il cielo…

Quando me ne sono accorto era già troppo tardi: stavo piangendo, di gioia!

 Buona notte fiorellino: arrangiata come se fosse un’altra canzone.

Come a dire… “Sentite quello che ho da dire. Portatelo nei sogni, raccontatelo altrove.”

Già. “i pazzi siete voi…” che, da sotto il cappello, avete letto questa recensione pensando che sia finita qui.

Perché poi c’è l’inchino.

Perché poi c’è la fine.

Perché poi… PER FORTUNA CHE C’ERO.

 “E non hai capito ancora come mai,

mi hai lasciato in un minuto tutto quel che hai.

Però stai bene dove stai.”

 GRAZIE.

Nicola Angione -  http://www.filrouge.it/musica/de-gregori-incanta-piazza-grande-gubbio-doc-fest-2016.html

 

 

 

Francesco De Gregori incanta Fano

 

Grande successo per il concerto di Francesco De Gregori nella centralissima piazza XX Settembre, all'ombra del Teatro della Fortuna. Ben 25 i brani arrangiati, fra classici e rivisitazioni di alcuni pezzi di Bob Dylan tratti dall'ultimo album "Amore e Furto".         

Un'ovazione lunga due ore. L'esibizione dal vivo di Francesco De Gregori, iniziata in perfetto orario - alle 21.30 di martedì 19 luglio - ha lasciato il segno in tantissimi ammiratori accorsi dalle regioni vicine per ascoltare il "principe" della canzone italiana.

Piazza XX Settembre, blindata dalle forze dell'ordine e chiusa a biciclette e pedoni fin dalle cinque del pomeriggio per le prove generali, è stata la location ideale per un concerto altrettanto impeccabile. Esauriti i posti a sedere, in molti sono riusciti tuttavia a godersi lo spettacolo restando in piedi dietro le transenne. In prima fila anche il sindaco Massimo Seri.

Una scaletta musicale, quella presentata da De Gregori, che ricalca i brani eseguiti in altre date del suo ultimo tour: si parte con i toni sommessi de "L'uomo che cammina sui pezzi di vetro" per passare improvvisamente alla più incisiva e graffiante "L'agnello di Dio" che denuncia le efferatezze della guerra e le inquietudini del mondo nel tentativo di appellarsi a una divinità sacrificale che ci aiuti "a fare come si può". Da un estremo all'altro, quindi, sfoggiando "La leva calcistica della classe '68" e la politicamente corretta "Vai in Africa, Celestino!" che, secondo alcuni critici, sarebbe dedicata a Walter Veltroni e al suo futuro post-politico. E poi "L'angelo", "La storia", "Battere e Levare", "Caterina", "Niente da capire", la delicata "Sempre e per sempre" e quattro brani tradotti da Bob Dylan ("Servire qualcuno", "Non dirle che non è così, "Un angioletto come te", "Come il giorno"). De Gregori non lascia tuttavia scoperto il suo repertorio civile, tanto da arrangiare alcuni brani che rappresentano una forte carica simbolica nell'immaginario del secolo scorso: il primo è "L'abbigliamento di un fuochista", la storia di un ragazzo che lascia la famiglia per vivere come operaio addetto alle caldaie nei transatlantici di inizio novecento: un viaggio di lavoro forzato "sotto il livello del mare" a causa del quale perderà non soltanto le sue origini ma anche la dignità di essere umano: "Mamma, io per dirti il vero l’italiano non so cosa sia e pure se attraverso il mondo non conosco la geografia, in questa nera nera nave che mi dicono che non può affondare" verso, quest'ultimo, che rimanda chiaramente al "Titanic" e alle "ragazze di prima classe", altro brano eseguito in serata e altra grande metafora delle caste sociali che, seppur divise come i livelli della nave, subiscono la medesima sorte. In questo mutamento costante e repentino di stati d'animo, De Gregori propone la malinconia piena di ricordi di "Atlantide" e, successivamente, "Il canto delle sirene", pezzo che apre l'album "Terra di Nessuno" e che cerca, con sottili citazioni letterarie, di esplorare il mare dell'inconscio. Poi la celeberrima "Generale" seguita da "Il panorama di Betlemme" che narra di un soldato in fin di vita e tormentato da un insetto mentre un "sipario di fiamme"  introduce l'immaginazione a quello che fu il luogo di nascita di Cristo e che ora è il teatro del conflitto arabo-israeliano. Seguono l'immancabile "Alice" e "Sotto le stelle del Messico a trapanar", ballata composta in rime tronche. Chiudono la serata "Rimmel", "La donna cannone" (rigorosamente registrata con qualsiasi dispositivo portatile) e "Buonanotte Fiorellino".

di Francesco Gambini

http://www.viverefano.com/2016/07/20/francesco-de-gregori-incanta-fano/599166/

 

 

De Gregori: “La mia estate in tour tra Bob Dylan, Pannella e Zaza”

Per il cantautore luglio e agosto dal vivo: “Poi sparisco per un anno”

 di Piero Negri

 

MILANO. Un album, Vivavoce, con 28 riletture di suoi classici e diversi duetti; un altro, Amore e furto, di canzoni tradotte da Bob Dylan; il libro-intervista Passo d’uomo con Antonio Gnoli. E tanti concerti, nei teatri e ora all’aperto, uno all’Arena di Verona per i 40 anni di Rimmel con ospiti anche inattesi. Francesco De Gregori, 65 anni, è impegnato in un lavoro di ripensamento e riprogettazione del quale non si vedono ancora gli effetti. Intanto, oggi alle 12 parla del suo libro con Gnoli alla Milanesiana, domani apre alla musica pop la Cittadella di Alessandria. 

Che concerto sarà? 

«Diverso. Ora faccio meno canzoni di Dylan, quattro contro le nove dei teatri, nei quali dedicavo tutta la prima parte a Amore e furto».

 Uscito a ottobre: che bilancio le ispira adesso? 

«C’era il rischio di introdurre un corpo estraneo dentro la mia storia. Di Dylan mi sento quasi figlio, ma la sua musica può stridere nel repertorio di un italiano. C’era il rischio di sembrare presuntuoso. Ma il mio era un atto di devozione per un artista enorme a cui mi sono sentito molto vicino. Insomma, mi pare di aver evitato entrambi i pericoli».

Il segreto forse è il lavoro: oltre all’amore, tanto sudore... 

«Tradurre vuol dire prendersi responsabilità. Sei destinato al naufragio, ci sono tanti problemi di musicalità e di vocalità, curve pericolosissime. Penso di essermela cavata, neppure la critica più dylaniana ha storto il naso. È stato un successo commerciale, e questo è importante».

 Come cambierà la sua musica? 

«Non saprei, non ho nulla nel cassetto. Sono stato molto preso con Vivavoce e l’album di Dylan.. Ma dopo agosto chiudo bottega per un anno e lavoro alle nuove canzoni. Verranno, non verranno? Mi piaceranno, non mi piaceranno? Chi lo sa? So solo che ce ne sono tante da scrivere».

 Quindi ha delle idee? 

«No, mi piace partire ogni volta da zero. Non ho nulla, nemmeno un brandello».

E il libro le è stato utile, come strumento di autoanalisi? 

«Da qualche anno mi chiedevano di farlo, non mi è mai scattato niente fino a che non ho pensato a Gnoli, e gliel’ho proposto, quasi sicuro che dicesse di no. Quando ha detto sì, proviamoci, ho capito che poteva funzionare: lui sa fare le domande, sa interrogare il prigioniero, e io ho capito che non c’era bisogno di essere reticente, che non mi sarei avvalso della facoltà di non rispondere».

 Una novità, un po’ come il concerto all’Arena con gli ospiti. 

«Ma no, la mia storia è costellata di incontri. Ho cominciato lavorando con De André, poi Fossati, Dalla, mi è sempre piaciuto mischiare le carte. Vedere Fedez scrivere una nuova strofa di Viva l’Italia è stato toccare con mano la vivacità di un’altra musica, sentire che c’è un linguaggio che accomuna».

 Quella sera cantò «Il signor Hood», dedicata a Marco Pannella: «Il signor Hood era un galantuomo, sempre ispirato dal sole, con due pistole caricate a salve e un canestro di parole...». 

«Amava molto quella canzone, spero che in qualche modo sia stata per lui una consolazione. Partendo da due punti di vista diversi sul mondo, su Dio, su tutto, abbiamo fatto belle discussioni. Ultimamente ci sentivamo di rado: due mesi prima che morisse l’ho incontrato a Roma, alla stazione, al mattino presto: era solo, bellissimo, trasandato con classe, con quel codino e gli occhi penetranti. “Vado a testimoniare a un processo”, mi disse. Fino alla fine ha combattuto le sue battaglie».

 Si fatica a considerarlo un politico... 

«È sempre stato un oggetto scomodo da maneggiare, si muoveva su una traiettoria tutta sua. “Ora piangono come coccodrilli”, ha detto Emma Bonino al funerale, ma a me pare che anche in quelle lacrime da coccodrillo ci fosse della verità».

Discutevate di Dio? E qual era la sua posizione? 

«Non mi sono mai definito un ateo, questo lo posso dire. Altro non vorrei aggiungere. Un po’ per difesa dell’intimità, un po’ per la difficoltà di sintetizzare un tema come questo nelle poche parole di un’intervista. Preferirei parlare di Zaza e Pellé». 

Ha seguito gli Europei? 

«Ho seguito da buon tifoso. Doppiamente arrabbiato, perché tanti anni fa ho scritto una sciagurata canzone, La leva calcistica del ’68, e tutte le volte che qualcuno sbaglia un rigore mi chiamano in causa».

«Nino, non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore...» 

«La canzone era su Titanic, che uscì nel giugno 1982, ai tempi del Mondiale che poi abbiamo vinto. Quando in finale Cabrini sbagliò quel rigore mi misi le mani tra i capelli. Il mio disco è finito, pensai».

Invece «Titanic» fu un successo e «La leva calcistica...» è una delle sue canzoni più amate. Piuttosto, è interessante il modo in cui Zaza e Pellé hanno sbagliato... 

«I tedeschi sono precisi, chirurgici anche nell’errore, noi no, quando l’emozione gioca a nostro svantaggio proviamo a inventare. Improvvisiamo. A volte funziona, a volte no».

 http://www.lastampa.it/2016/07/07/spettacoli/de-gregori-la-mia-estate-in-tour-tra-bob-dylan-pannella-e-zaza-A3JiBjbL91EGSioYw4jTZL/pagina.html

 

 

 

 

 

 

Francesco De Gregori ha inaugurato l'”Amore e furto tour 2016″

 

la prima parte della scaletta tutta dedicata al nuovo disco “Amore e furto” (Sony Music), in cui il Principe canta in italiano 11 successi di Bob Dylan da lui tradotti e interpretati con amore.

Ed è stata subito intesa con il pubblico molto attento venuto ad ascoltarlo, tra cui c’era anche la cantante Emma Marrone.

“Un tuffo in una musica che ho sempre amato, che mi ha fatto diventare quello che sono”, ha sottolineato il cantautore romano incontrando i giornalisti al termine del concerto. “Tradurre è un atto passionale, senza regole. Il disco si chiama ‘Amore e furto’ perché se non ci fosse stato l’amore il furto non sarebbe riuscito”, ha aggiunto.

Dopo i brani di Dylan, De Gregori è tornato sul palco con la band di 10 elementi per riproporre i suoi grandi successi, tra cui “A Pa” dedicata a Pasolini casualmente o meno nel giorno del 94esimo compleanno del grande scrittore e regista friulano.

E ancora “Adelante, Adelante!”, “L’Agnello di Dio”, “La Storia”, “Generale”, “Titanic”, “I muscoli del Capitano”, “Pablo”, “Rimmel e “La donna cannone”:

http://www.rds.it/rds-tv/video-news/de-gregori-canta-bob-dylan-a-roma-senza-amore-niente-furto/

 

 

Bologna, 1 aprile 2016

 

De Gregori: «Con Dylan scopro l’America»

Renato Tortarolo

 Roma - “Quella gente di cui mi vai parlando non ha carattere, non ha fisionomia. Ho dato a tutti quanti un’altra faccia e ho usato nomi di fantasia. D’ora in avanti ti prego non insistere, comincio a leggere con difficoltà…”. La prateria di sguardi e piumini è in silenzio. Non perde una parola. Da dove arriva questa elettricità, questa vibrazione che l’uomo sul palco fa splendere come fuochi di bivacco? È questo Bob Dylan? Sì, questa è l’America incomprensibile, umorale, diffidente. Quella incerta fra Donald Trump e i progressisti in affanno, quella bisbetica e ingenua dei diritti civili.

E Dylan, con versi scritti in un passato profondo, l’aveva intuita così bene che ora basta seguirlo nella voce di Francesco De Gregori per averla a portata di mano, sul ciglio di una strada trafficata all’Eur di Roma, dove sabato è partito con toni trionfali “Amore e Furto”, tour che il 19 marzo arriverà al Carlo Felice. Otto ballate dylaniane, tutte d’un fiato, un’apertura di undici minuti con “Desolation Row”, «una bella scommessa visto che di solito si comincia con canzoni famose…» dice il cantautore, un’immersione nel grande fiume di blues, rock e folk che sono il Dna di tutto ciò che ascoltiamo oggi.

«Da ragazzino passavo le giornate a cantare Dylan nella mia camera, farlo da professionista è il sogno di una vita», e la band gli va dietro come un convoglio che si perde fra salvia in fiore, agavi e betulle, un pulsare diesel che sposta esistenze, certezze, disillusioni. Era difficile mettere in scena un album perfetto e incosciente come “Amore e furto”, ma farlo oggi dà a De Gregori ancor più autorevolezza: «Volevo che il suo repertorio fosse in una capsula, un isolamento nobile. Sono felice che il pubblico sia molto attento, che lo scopra venendo per me. Come tutti i mostri sacri, non è poi così conosciuto per quello che dice».

In verità, il passaggio dai versi tradotti di Dylan allo scartamento ridotto del nostro Paese è esemplare. È vero che nella prima parte comprendiamo più dell’America che dai sondaggi e dai reportage, per il semplice fatto che il punto di vista di Dylan è quello del testimone che sfreccia nel tempo, dell’osservatore mandato sul campo: «Quando hai uno sguardo alto e puro come il suo, dici cose che continuano a coincidere con la realtà. Anche Dante, nella Divina Commedia, toccava principi universali ma la Storia gli galleggiava intorno».

 

De Gregori, però, fa lo stesso percorso con le sue canzoni. Evita la politica come la peste, ma la fa anche solo montando in successione “Titanic”, “I muscoli del capitano” e “L’abbigliamento di un fuochista”, in un crescendo dove la potenza meccanica è inversamente proporzionale al disagio delle classi più umili. Fa politica consacrando la prima parte del concerto a Dylan, sarà sempre così, e la seconda a ballate «che magari hanno avuto meno fortuna commerciale, ma che il pubblico conosce benissimo» come “Gambadilegno a Parigi”, “Numeri da scaricare” o “Cose”.

Perché “l’autotreno carico di sale” di “Adelante, adelante!” vale i treni infiniti che portano l’umanità dolente e furiosa di Dylan. «C’è una differenza: lui è un intellettuale, io no. Non rappresento la cultura italiana quanto lui quella americana». Non è vero. È un gioco a sottrarre che appartiene al carattere di De Gregori, anche alla sua difesa estrema di autonomia, ma proporre “A Pa’”, dedicata a Pasolini, lo farà tutte le sere, in un momento di grande confusione culturale in Italia, dove ormai non esiste più una scala di valori ed è facilissimo essere promossi padri della patria, è un atto politico.

Non a caso, proprio di Dylan traduce e canta “viviamo in un mondo politico, il coraggio è passato di moda, nessuno vuole figli, il domani è paura”. Sono versi del 1989, anno della Caduta del Muro ma furono scritti molto prima. Un altro buon motivo per seguire questo tour è l’esercizio di ginnastica quasi marziale che De Gregori fa sul palco. Non è mai stato così sciolto, accompagna quello che canta con gesti delle braccia, piccoli inchini, saltelli che sono come un valzer appena accennato. Non è cosa da poco, perché se gli dici che la voce è più bella ribatte: «Forse sono più nella musica ». Non cascateci: è la consapevolezza di essere ascoltato e rispettato a fare la differenza.

http://www.ilsecoloxix.it/p/cultura/2016/03/07/ASomMnsB-america_gregori_scopro.shtml

 

 

 

 

 

 

 

 

Sq. Luci: Andrea Coppini, Gianni Vetrugno, Nicola Caccamo - Sq. Audio + Fonico Foh: Lorenzo Tommasini,  Stefano Guidoni - Sq Backliner + Fonico monitor: Simone Di Pasquale, Salvo Fauci, Alessandro Morella - Autista bilico: Mimmo Griffa - Autista Artista: Maurizio Degni - Assistente Artista: Vincenzo Lombi (Chips) - Direttore di Produzione: Giovanni Chinnici - Assistente di Produzione: Fenia Galtieri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

De Gregori omaggia Dylan «Un concerto per amore»

 

Proprio nel mese di marzo dello scorso anno aveva incantato il pubblico romano con un concerto ricco di emozioni al Palalottomatica, prima tappa del suo fortunato "Vivavoce tour”. Ora Francesco De Gregori torna ad esibirsi nella sua Roma ma questa volta con un tipo di performance molto diversa, quantomeno per tipo di repertorio proposto. Parte stasera dall’Atlantico Live l’”Amore e Furto tour 2016”, il nuovo atteso tour firmato De Gregori, che farà tappa nei principali club e teatri italiani. «Questo concerto è un altro film rispetto a quello del "Vivavoce Tour” – ha dichiarato De Gregori –C’è Dylan e ci sono pezzi che non ho mai fatto». Al centro del nuovo tour infatti, oltre ai suoi successi ci saranno diversi brani estratti dall’ultimo album "De Gregori canta Bob Dylan – Amore e Furto”, un disco omaggio al suo punto di riferimento cantautorale di sempre, il grande Dylan, di cui traduce e interpreta, con amore e rispetto, ben undici canzoni.

E così nella scaletta in programma all’Atlantico stasera sarà molto probabile trovare pezzi come "Un angioletto come te”("Sweetheart like you”), "Servire qualcuno” ("Gotta serve somebody”), "Non dirle che non è così” ("If you see her, say hello”),"Via della Povertà” ("Desolation row”), "Come il giorno” ("I shall be released”), "Mondo politico” ("Political world”), "Non è buio ancora” ("Not dark yet”), "Acido seminterrato” ("Subterranean homesick blues”), "Una serie di sogni” ("Series of dreams”), "Tweedle Dum & Tweedle Dee” ("Tweedle Dee & Tweedle Dum”), "Dignità” ("Dignity”). Questa infatti la track list di un disco ricco di piccoli gioielli in musica e di grande intensità, immancabilmente bene accolto dal pubblico (già certificato disco di platino), che non poteva non avere un seguito live. Il concerto di stasera infatti, sarà l’occasione per poter assistere per la prima volta dal vivo proprio all’esecuzione di questi brani che De Gregori ha voluto tradurre cercando soprattutto di non stravolgere il significato originario dei testi di Dylan, lavorando sul suono delle singole parole e sulla metrica dei versi.

 

 

 

Un lavoro non da poco da parte del cantautore di Rimmel dedicato all’arte e alla poesia di uno dei suoi miti di sempre, da quando, molti anni fa, rimase così colpito da "Desolation Row" da passare interi pomeriggi, vocabolario alla mano, per comprenderne bene il testo. Eppure questo live, così come il disco, sono per De Gregori un atto d’amore, non un’operazione di semplice esegesi. «Nel fare questo disco non mi sono mai posto troppe domande sui misteri e sui segreti disseminati nelle canzoni di Dylan, non sono andato in cerca di significati nascosti – ha dichiarato il cantautore romano - C'è solo amore dunque dietro a questo furto, perché per amare veramente non bisogna chiedersi troppo e non serve sapere tutto».

Sul palco dell’Atlantico stasera Francesco sarà accompagnato dalla sua band formata da Guido Guglielminetti (basso e contrabbasso), Paolo Giovenchi (chitarre), Lucio Bardi (chitarre), Alessa ndro Valle (pedal steel guitar e mandolino), Alessandro Arianti (hammond e piano), Stefano Parenti (batteria), Elena Cirillo (violino e cori), Giorgio Tebaldi (trombone), Giancarlo Romani (tromba) e Stefano Ribeca (sax).

Fabrizio Finamore

http://www.iltempo.it/roma-capitale/spettacoli/2016/03/05/de-gregori-omaggia-dylan-un-concerto-per-amore-1.1515990

 

Bologna, 1 aprile 2016

 

 

De Gregori in tour: "Che emozione. Come quando cantai Dylan per De André"

 

ROMA - Tra "amore" e "furto" ci corre un intero universo di canzoni. Ma se mettiamo insieme i due termini viene fuori come come un'equazione il nome di Bob Dylan, e ancora più esattamente la straordinaria operazione di traduzione messa in opera da Francesco De Gregori. Del disco si è già parlato molto al tempo della sua uscita, ma ben altro conto è portare dal vivo queste canzoni, com'è successo ieri nell’assiepata sala dell’Atlantico di Roma, per la prima data del tour "Amore e furto" che porterà De Gregori in giro per tutta Italia. Scelta molto azzeccata, del resto: il luogo sembra un grande club, caldo di birre e respiri, appassionato, partecipe, sufficientemente informale per dare senso a una manciata di canzoni che sembrano tracce di vangeli apocrifi, i grandi segni poetico-musicali del secolo scorso firmati Bob Dylan che si riversano su un pubblico attento e curioso di scoprire il nuovo corso.

Per la prima volta De Gregori porta dal vivo le canzoni del suo nuovo disco, quello in cui ha dato definitivamente corpo alla sua storica devozione nei confronti del maestro, e lo fa con grande rigore, dedicando al progetto tutta la prima parte del concerto, otto canzoni, contravvenendo consuetudini ormai largamente consolidate nella pratica dei concerti: "Lo so, non era facile come scelta", ha raccontato dopo il concerto De Gregori, "il pubblico magari si aspetta canzoni più note all’inizio, ma era un modo per qualificare la proposta, per evidenziarla al massimo, al punto che alla fine inizio con una canzone che dura 11 minuti, non proprio una cosa normale". Il pezzo a cui si riferisce è Desolation row, il capolavoro che chiudeva Highway 61 Revisited, e che era di molto precedente alla recente decisione di tradurre Dylan, e che molti anni fa fu inciso da Fabrizio De Andrè. "Fu un momento straordinario della mia vita", ha raccontato ricordando l’incontro con Faber, "venne a sentirmi al Folkstudio, e io cantai questa mia versione di Desolation row, ne rimase affascinato, lui conosceva pochissimo Dylan, era piuttosto francofono, musicalmente parlando, e così gli si era aperta una grande porta verso l’America. Decise di inciderla, ma mi chiese di aggiustarla insieme perché si adattasse al suo stile. Per me fu un'esperienza incredibile. Ero un ragazzo e lui era già De André".

I pezzi all’Atlantico scorrono fluidi, a tratti emozionanti, profondi come quando De Gregori canta Non è buio ancora, lievi con Un angioletto come te, più rabbiosi e sporchi con Acido seminterrato. Una sequenza che De Gregori separa nettamente dal resto ("è l’unica che rimarrà invariata in tutti i concerti, il resto potrà cambiare ogni sera"), con un intervallo. La seconda parte è dedicata al grande repertorio del cantautore. Si comincia da A Pa, dedicata com’è noto a Pier Paolo Pasolini, una di quelle meno frequentate in passato dal vivo, e poi Generale, Buonanotte fiorellino, Adelante adelante!, pezzi che scatenano la platea, poi qualche pezzo meno noto, e a sopresa, per intero la trilogia di Titanic (Titanic, I muscoli del capitano, L'abbigliamento di un fuochista), una meravigliosa versione di La storia, sempre emozionante con quell’insuperabile verso finale ("la storia siamo noi… siamo un piatto di grano"). E poi in un crescendo travolgente Pablo, Rimmel, La donna cannone. De Gregori sembra ispiratissimo, in grande forma, vocalmente superbo e alla fine appaga definitivamente

la platea. Solo a fine concerto ci si ricorda che non ha cantato W l’Italia, La leva calcistica della classe '68, Alice, Niente da capire. Ve l’immaginate, un cantautore che ha in repertorio queste canzoni e può permettersi di non cantarle?

 

http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2016/03/06/news/francesco_de_gregori-134901795/

 

Alcatraz, Milano, 23 marzo 2016.

Recensione di Eleonora Gasparella

 

 Andare ad un concerto di Francesco De Gregori è sempre qualcosa di forte. Il cantautore romano, oltre ad essere un pilastro della canzone italiana è un uomo particolare, non parla molto, ha sempre fatto della riservatezza la sua peculiarità, ma quando sale sul palco, nessuno come lui è capace di farti venire la pelle d’oca dalla prima all’ultima nota, e anche per questo, il suo concerto è atteso con ansia dai fan di Milano.

 L’Alcatraz è bello pieno in questa serata primaverile: il cantautore sta girando l’Italia per presentare il suo ultimo lavoro, al quale tiene sicuramente molto e di cui molto si è parlato. Amore e furto è infatti un disco in cui De Gregori celebra e canta la propria devozione a Bob Dylan, e siamo tutti curiosi di sentire come suona dal vivo.

 Dalle 21.00 tutto il locale inizia a chiamarlo a gran voce e lui arriva con un po’ di ritardo: cappello e occhiali (da sole) d’ordinanza, la barba bianca e l’immancabile maglietta nera sotto la giacca dello stesso colore. Il concerto si divide in due parti, una prima che ha per protagonista proprio il disco-tributo al Menestrello americano e una seconda parte che presenta le canzoni più amate del cantautore, da Generale, a Pablo e Rimmel, brani che hanno incantato più di una generazione (e per cui tutti gli siamo grati).

 La prima parte scorre via leggera, si percepisce l’affetto che l’artista romano ha per l’album: ricordiamo che i brani sono stati completamente tradotti dal cantautore, rispettando sì le parole di Dylan ma aggiungendo un tocco “degregoriano” sia negli arrangiamenti che nel senso di ogni canzone.  De Gregori canta, suona la chitarra, dialoga silenziosamente con i suoi musicisti: è un momento del live che sembra quasi una jam session in un piccolo bar di provincia. Il pubblico risponde un po’ timidamente, è evidente che tutti stanno aspettando i brani della seconda parte del concerto. Da segnalare Non dirle che non è così e Mondo Politico, i pezzi più intensi e più sentiti della scaletta che riprende Amore e furto.

 Dopo una pausa di un quarto d’ora il Principe, come il suo pubblico ama chiamarlo, risale sul palco ed inizia a pescare dal suo immenso repertorio. Così ci godiamo Adelante! Adelante!, L’Agnello di Dio e una timidissima Buonanotte Fiorellino che fa cantare tutto il locale. Subito dopo arriva il momento di Generale, e di un sentito omaggio in musica all’amico Lucio Dalla.

 Sul palco è schivo, parla poco, ma sorride e con i gesti ci fa capire quanto ci è vicino e quanto ha sempre voluto e vuole ancora regalarci. La sua voce non si spezza mai, non conosce incertezza ed è impeccabile dal primo all’ultimo brano. Il live di questa sera ci ha nuovamente confermato la sua capacità di saper “cantare le cose” così come stanno, con profonda e semplice onestà, senza bisogno di fronzoli o di arrangiamenti complessi. Con una manciata di parole e di note riesce ad essere esattamente la nostra voce.

 Francesco De Gregori chiude il suo concerto da signore qual è, con due brani, Pezzi di vetro e La donna cannone, che strappano una lacrimuccia a buona parte dell’Alcatraz, ma che rappresentano soprattutto una lezione di sincerità che continua a darci e per la quale continuiamo ad amarlo. Il numero di persone che riempiva con la presenza e con il cuore l’Alcatraz stasera l’ha ancora una volta dimostrato.

http://www.onstageweb.com/recensione-concerto/francesco-de-gregori-milano-23-marzo-2016-recensione/

 

 

 

PROFESSIONE: MUSICISTA. IL SOGNO DI GUIDO GUGLIELMINETTI DIVENTA REALTÀ

Dai concerti in oratorio alle collaborazioni con De Gregori. Guido Guglielminetti ci racconta come vive ogni giorno il suo più grande sogno: la musica.

 

"La musica come professione”: quale insegnamento vuoi trasmettere a tutti coloro che frequentano i tuoi seminari?

Una delle cose cui tengo di più è l’aspetto professionale. È vero che noi facciamo un lavoro divertente, è vero che sembra stiamo giocando, ma è vero solo in parte, il divertimento viene se prima c’è una adeguata preparazione, se a monte il “divertimento” viene svolto con serietà. La professione del musicista va affrontata con la stessa serietà con cui un dentista tratta i propri pazienti o come lo fa un commercialista o un qualsiasi altro professionista, d’altra parte abbiamo la stessa tassazione. Spetta a noi fare in modo che il nostro lavoro non sia considerato solo droga e lustrini.

 E’ ormai diventata una leggenda, ma ancora oggi noi incontriamo persone che quando dici che fai il musicista ti chiedono: “Si, ma di lavoro cosa fai?” Io sono sempre stato guardato con sospetto perché i vicini si domandavano cosa facessi, visto che dormivo fino a tardi (ora non più), rientravo all’alba, non avevo orari e con questo aspetto non potevo certo fare il commercialista. A qualcuno particolarmente curioso, che cercava di capire cosa facessi, ho detto che facevo il notaio, non mi sembrava molto convinto, ma almeno ha smesso di chiedermelo. Per i curiosi finalmente sono diventato un “professionista” da quando sono apparso in televisione al fianco di Pippo Baudo, che presentava una trasmissione alla quale ho partecipato con Loredana Bertè. Consacrato dal grande Pippo, il giorno dopo ho ricevuto un sacco di complimenti da parte del macellaio, del verduriere e dai vicini finalmente sollevati dal dubbio che fossi un rapinatore o uno spacciatore.

 Tu e De Gregori: qual è la scintilla che vi ha uniti?

La grande passione per questa professione, la costante voglia di migliorarsi e la forte curiosità. De Gregori, che potrebbe tranquillamente vivere di rendita, musicalmente parlando (e non solo), riproponendo sempre più o meno quello che il pubblico si aspetta da lui, invece è uno sperimentatore sempre alla ricerca di sonorità nuove e più attuali, infatti anche i suoi classici li aggiorniamo continuamente, seguendo il suono del momento che stiamo vivendo, senza preoccuparci mai di riprodurli nello stesso modo, o peggio ancora di riprodurli come gli originali. Io semplicemente la penso nello stesso modo, da sempre. Proprio questo ha fatto sì che iniziassimo a collaborare nel 1986 e che dal 2000 a oggi diventassi il produttore di tutti i dischi che abbiamo realizzato fin ora e il “Capobanda” nei Tour.

 Le tue origini sono quelle dei tempi in cui le band si chiamavano “Complessi”. Cosa è cambiato da allora?

Un po’ è cambiata la mentalità dei giovani che si approcciano alla musica. Prima lo si faceva veramente e solamente per passione, ora quasi tutti lo fanno per arrivare al “successo” spesso anche a scapito della qualità, pur di apparire. Per questo dobbiamo ringraziare i famosi “Talent” che a mio avviso “usano” i giovani per fare spettacolo, ma non li aiutano a crescere. Quando le Band si chiamavano Complessi i Vocal coach non si sapeva neanche cosa fossero, in compenso però c’erano produttori che seguivano i giovani talenti, case discografiche che investivano, autori che scrivevano. Ancora oggi ci sono autori che scrivono, ma hanno vita molto difficile perché spesso viene richiesto loro di scrivere seguendo certi canoni. Oggi principalmente la musica deve essere di immediata fruibilità, un giovane cantante/ cantautore se non convince con il primo “singolo” difficilmente avrà un’altra possibilità, è più comodo mandarne avanti un altro e questo io non credo faccia molto bene alla musica.

 Hai iniziato a fare musica ispirandoti ai grandi artisti degli anni ’60. Quali sono i modelli attuali ai quali un giovane chitarrista dovrebbe ispirarsi?

Io credo che i modelli validi siano ancora quelli. Youtube è una vetrina incredibile in cui si trova veramente di tutto: chitarristi che suonano con i piedi, bassisti che usano il basso come fosse un clavicembalo, batteristi che sembrano polipi. Veramente! Ci sono musicisti che fanno con i propri strumenti delle cose impossibili ai più, ma alla fine se vuoi sentire cose veramente emozionanti finisci per andarti a sentire Jimi Hendrix, Jeff Beck, Eric Clapton, Jimmy Page.

 Quale sogno devi ancora realizzare tra quelli nascosti nella custodia della tua chitarra?

Ti confesso che il mio più grande sogno è quello che vivo tutti i giorni facendo quello che da piccolo sognavo di fare. Non sogno altro che continuare a farlo sempre meglio. Spero comunque di riuscire prima o poi a partecipare ad un Tour mondiale, andare a suonare in posti lontani per un pubblico diverso da quello cui sono abituato. In tutti questi anni ho capito quanto in fondo sia piccola la nostra penisola, dopo un po’ non fai altro che tornare sempre negli stessi posti. Ha i suoi lati positivi perchè rivedi persone con le quali con il tempo hai stabilito un bel rapporto, mi riferisco ai promoters locali ad esempio, e a parecchie persone del pubblico ormai diventate amiche, nelle diverse città. Allargare gli orizzonti mi piacerebbe certamente, ma sono già molto soddisfatto così.

 Nuovi progetti in vista?

Tanti: oltre alla collaborazione con De Gregori sia dal vivo che in studio ho i miei corsi che riscuotono un grande successo, infatti ora incomincerò a portarli in giro, perché non per tutti è agevole venire in studio da me. Ho alcune produzioni di nuovi talenti che seguo, e devo finire il mio libro, perché ormai ho ricevuto delle serie minacce da parte della mia editor.

 

Valentina Sciuto

http://www.jamsession20.com/news/162-professione-musicista-il-sogno-di-guido-guglielminetti-diventa-realta.html

 

 

 

Francesco De Gregori e il calcio: «Sul palco ti senti rigorista.

Totti il top, gli dedico “Volare”»

 

È una mattina calda e pigra sui Navigli. Il cortile interno dell’hotel color pastello profuma di fiori e primavera, un’atmosfera senza tempo, manca solo Alice che guarda i gatti, ideale per un incontro con Francesco De Gregori. Giubbotto di pelle, berrettino nero, aria rilassata, il cantautore giallorosso ci racconta i retroscena del doppio album live Sotto il vulcano, registrato al teatro greco di Taormina nel corso del suo Amore e furto Tour, un mix di successi con sonorità nuove, a partire dall’intramontabile Rimmel.

Quali sono le sue sensazioni nel rivisitare brani apprezzati anche dai giovani?

«Gioia e soddisfazioni non comuni. È come se scoprissi che c’è più musica di quella che pensavo. Una volta ero più tranchant negli arrangiamenti, adesso invece le canzoni si aprono, mi diverto a cambiarle».

«Rimmel», la fine di una storia, il trucco e i quattro assi di un colore solo, nel ’75 fu rivoluzionaria: dove la scrisse?

«In due tempi. Le strofe in una stanza d’albergo a Milano. Anche l’inciso l’ho scritto a Milano: ero in attesa di andare in onda negli studi Rai di porta Carlo Magno a una trasmissione per bambini presentata dal mago Zurlì, Cino Tortorella, non sapevo che cosa fare ed è arrivato il ritornello».

Ma è vero che «Sotto il vulcano», il cui titolo prende spunto dall’Etna, è stato registrato a sua insaputa?

«Sì. Due, tre giorni prima della serata di Taormina dissi al bassista, Guido Guglielminetti: “Peccato che non abbiamo mai tenuto nulla, così, per risentirci...”. Lui, zitto zitto, ha chiamato una troupe tecnica e soltanto qualche giorno dopo abbiamo saputo che aveva registrato tutto. Meglio, c’è sempre un minimo di ansia quando sai di essere ripreso».

Lei e Lucio Dalla, i primi a esibirsi negli stadi con «Banana Republic» nel 1979: che effetto faceva?

«Eravamo ragazzini entusiasti. Avevamo approcci diversi: lui era più musicista e scafato. Ci accomunava lo stupore, tutta quella gente per noi. Non cambiò il modo di vedere il nostro mestiere, rimanemmo con i piedi per terra, eravamo convinti che fosse una parentesi».

Nell’album, oltre a «4 marzo 1943», c’è anche la «Leva calcistica della classe ’68» con il mitico Nino e la paura del calcio di rigore: com’era nata?

«Ripensando a me da ragazzino, all’iniziazione e alla crescita in un gioco di squadra: tutti ci tengono a fare bella figura. C’è competizione, a volte sofferenza e amarezza».

È vero che l’aveva dedicata ad Agostino Di Bartolomei?

«No, è falso».

Lei li sbagliava i calci di rigore?

«Sì, certo. Ma all’inizio giocavo in porta perché ero alto e intervenivo sui cross – ride – sapevo fare solo quello. La canzone è stata scritta dalla parte del portiere, ho rovesciato la visione».

Che tifoso è?

«Caldo, come tutti, ma non competente. Se volete parlare di schemi chiedete pure ad Antonello Venditti. Anche Barbarossa, Ruggeri e Ligabue sono più bravi di me. Io sono uno spettatore – ridacchia – e vorrei veder piangere il mio capoufficio stampa Vitanza, che è juventino...».

La Roma ha sei punti di distanza dalla Juve a sette giornate dal termine del campionato: nutre una speranza?

«La speranza c’è sempre, ma è meglio guardarsi le spalle dal Napoli, che è molto in palla, per evitare i preliminari di Champions. Il fatto è che questa Roma è forte, ma la Juve lo è di più, quest’anno è davvero incredibile».

Se la Roma fosse una canzone?

«Grazie Roma e Roma Roma di Antonello. È difficilissimo scrivere l’inno per una squadra, lui è riuscito in due imprese meravigliose, sono due canzoni intense, commoventi, una fortuna averle composte».

Canta: «Un giocatore si vede dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia...». Chi è?

«Francesco Totti. È immenso non soltanto in campo, ma anche fuori, apprezzo la sua autoironia».

Quale brano sceglierebbe per lui?

«Merita una grandissima canzone: Volare».

Spalletti?

«Siamo amici, sarei contento se restasse. Ammiro la sua indipendenza intellettuale: in un mondo di “forse” e di “non so” lui parla chiaro».

Domani la Roma gioca contro l’Atalanta, la leva calcistica degli anni Novanta...

«L’assonanza con la mia canzone non mi porterà a fare il tifo per loro – ride – spero che per un giorno si sentano un po’ più vecchi».

C’è tanto di Bob Dylan nell’album «Sotto il vulcano», dalle sonorità ad alcuni brani tradotti: che cosa ne pensa del Nobel?

«Giusto. Il Nobel per la letteratura non è soltanto per il testo, ma per la canzone, musica compresa, un’opera letteraria. Io l’avrei dato anche a Fellini, Rossellini, Walt Disney».

Un atleta italiano da Nobel?

«Il primo che mi viene in mente è Pietro Mennea».

Se non fosse diventato cantautore che cosa avrebbe fatto?

«Il giornalista o il maestro».

Che cosa vuol dire salire sul palcoscenico?

«Confrontarsi con un’emozione. Racconto molto di me a sconosciuti che diventano intimi. È una scossa, c’è sempre un po’ di ansia: è come tirare un calcio di rigore e la porta la vedi sempre più piccola... oppure, se fai il portiere, la vedi sempre più grande».

 

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Si è mai dimenticato le parole?

«Sì, anche perché non uso il gobbo elettronico, toglie naturalezza. Mi è capitato anche con Rimmel e la Donna Cannone, a volte il pubblico non se ne accorge perché le cambio, altre mi tira le orecchie e ride. La mia band si diverte, siamo molto affiatati».

«Buonanotte Fiorellino» in versione Dylan è spiritosa, alla fine del concerto fa andare a casa tutti più leggeri. Com’era nata quella canzone?

«L’avevo pensata come un addio tra due amanti. Oggi è la giocosa confessione di un debito dylaniano e ho rovesciato l’ottica: nella versione originale “l’anello resterà sulla spiaggia”, invece in questa – sorride ironico – ho aggiunto “se per caso qualcuno lo trova lo può pure lasciare dov’è”. Le cose cambiano, le canzoni si ossidano e rivivono».

Che effetto le fa «Generale» cantata da Vasco?

«Ne sono felice. Vasco è autorevole, un Omero narrante».

La notte crucca e assassina è alle spalle, il treno va veloce, il generale già pensa al Natale, un’incantevole cartolina di pace: come vive questi tempi di terrorismo e venti di guerra?

«Con inquietudine, come tutti».

«E qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure»: dopo oltre quarant’anni di musica che cosa rimane nel cuore?

«Il rapporto con il pubblico che nel tempo si è modificato, ma non si è mai interrotto. Al di là di tradimenti e di dischi meno belli continua perché è sostenuto dalle canzoni. Tutto questo è miracoloso».

GABRIELLA MANCINI

http://cinquantamila.corriere.it/storyTellerArticolo.php?storyId=58f0d47f910fc

 

 

 

Dallo zio partigiano a “Rimmel” il libro-confessione del cantautore

 “Non sono ancora riuscito a scrivere canzoni semplici”

«Vorrei che non passasse mai in secondo piano la fisicità del mio lavoro. Mi trovo davanti persone che dimenticano che faccio il cantante e suono la chitarra. Che ho le “mani sporche”. Guarda che calli!».

 

Francesco De Gregori si racconta ad Antonio Gnoli. La frase appena riportata è una delle possibili sintesi delle

Passo d’uomo, quasi un’autobiografia in forma di dialogo (Laterza). Dei nostri artisti popolari De Gregori è in molti sensi il più intellettuale. Lo è per formazione (libresca, familiare, “politica”), lo è per la qualità della sua opera, quarant’anni di canzoni di grande densità testuale. C’è molta molta scrittura, in De Gregori. E le tante letture che l’hanno ispirata e formata nel tempo aleggiano dentro e fuori il suo lavoro. Ma è come se lui trepidasse, da sempre, per la matrice “misteriosa”, intima, sfuggente della sua arte come dell’arte in genere. Come se cercasse di difendere il suo campo – la canzone – da un doppio equivoco: quello “basso”, che tende a sottovalutarla e svilirla come canzonettismo, e quello “alto”, che cerca di costruirle attorno un’aura, appunto, intellettualistica. Difatti non gli piace, non gli è mai piaciuta, laDe Gregori, dallo zio partigiano a "Rimmel": il libro-confessione del cantautore parola “cantautore”. Preferisce “cantante”. Come per ripetere costantemente a sé e agli altri: «Io non sono un intellettuale, sono un artista. Non so se questo sia “di più” o “di meno” ma so che non è la stessa cosa, non è lo stesso mestiere, non è la stessa funzione». Per questo De Gregori mostra a Gnoli i calli da chitarrista. Sono le sue stimmate.

La lunga conversazione tra i due, legati da una solida amicizia e anche in virtù di questo non sempre d’accordo tra loro, gira lungamente attorno a questo enigma: da dove sortisca la formula indicibile che fa di una canzone – tre o quattro minuti appena – una ragione di così forte coinvolgimento emotivo. Si arriva in fondo al libro senza averlo veramente capito, e questa forse è una piccola vittoria dell’artista De Gregori sull’intellettuale Gnoli, la cui ammirevole, tenace fatica è cercare di ricondurre il discorso ai suoi termini “oggettivi” – la cultura, la politica, la società, l’arte nell’epoca della massificazione – pur sapendo bene che per il suo amico cantante l’arte non è un fatto sociale, neppure un fatto estetico, ma un “destino sentimentale”. «Il riflesso di uno splendore senza spiegazioni ulteriori », come scrive Gnoli nella prefazione.

Il bello del libro è che l’artista non sfugge, comunque, all’intellettuale. Gli si sottopone di buon grado, dalla lunga seduta vuole ricavare qualcosa di più su se stesso, sul proprio mestiere, sul proprio rapporto con il pubblico, rosa con le sue spine. È la stessa caratura culturale di De Gregori, del resto, a renderlo ben conscio dell’importanza della ricognizione intellettuale; di quel “taglio”, di quello sguardo, di quell’altro “mestiere” diverso dal suo, ma così complementare al suo. Come detto, si arriva in fondo con una sola vera certezza: l’arte non si fa afferrare più di tanto, non solamente il pubblico, perfino l’artefice non sa spiegare con precisione “come ha fatto”. Semplicemente, lo ha fatto. (Dice il grande critico Jean Clair: «l’opera d’arte è la ricompensa delle difficoltà del discorso. Permette di non pensare più»).

In compenso, fatti salvi con reciproco sollievo il mistero dell’arte e il riserbo dell’artista, il libro restituisce in pieno, con passaggi anche emozionanti, anche potenti, la persona De Gregori, la sua storia, le sue passioni culturali, le sue amicizie, la costruzione abbastanza tipica di un italiano “di sinistra” nato negli anni Cinquanta, cresciuto tra Pescara e Roma, formatosi nella fervida temperie degli anni Sessanta- Settanta, cittadino interessato alla vita pubblica, artista di immediato successo – Rimmel uscì che aveva ventiquattro anni – poi “star” piuttosto ritrosa, tipicamente antidivo, gelosissimo della vita privata, quasi scorbutico in certe relazioni connesse al suo lavoro, infine, oggi, serenamente veleggiante verso una vecchiaia bene accetta, pacificato con molte delle sue incertezze e delle sue durezze.

Dentro il libro c’è molta Italia, la nostra storia politica, la nostra cultura pop e non, i nostri umori buoni e cattivi, infine la nostra presente incertezza. Dalla e De André, il Festival di Sanremo, Nicola di Bari e Caterina Caselli, Berlinguer e il Pci, Craxi e Di Pietro. Raccontati con una misura invidiabile, non “da protagonista” che ambirebbe a impartire qualche lezione, ma da cittadino democratico (cioè: uguale agli altri) che partecipa alla vita collettiva, ascolta, riflette. E ha il tempo, perfino, per qualche ripensamento: «oggi comprerei un’auto usata da Craxi, non da Di Pietro».

Incalcolabile il numero di poeti e scrittori citati, Steinbeck, Verne, Salinger, Hemingway, Aldo Buzzi, Kafka, Valentino Zei- chen, Fred Vargas, Pasolini, Kerouac, Dostoevskij, l’amatissimo Dino Campana, Borges… Molta America, ovviamente Dylan, e quella “sottomissione” al Novecento americano, musicale, letterario, artistico, che accomuna tantissimi di quella generazione. L’indice dei nomi che chiude il libro è una attendibile summa, con le ovvie varianti personali, della formazione di un italiano di età matura e di buona cultura attento ai suoi tempi e al suo Paese. La biografia è di quelle che rivendicano “normalità” e misura anche laddove si rischia di perderne traccia. L’omaggio finale allo zio partigiano (suo omonimo: Francesco De Gregori) ucciso a Porzûs da una brigata comunista in una atroce faida interna alla Resistenza è di rara pietas. Ne stilla un dolore composto, non vindice, colmo di gratitudine per un uomo morto per la libertà.

Infine, a proposito di misura, memorabile la frase (quasi un’epigrafe) che De Gregori, nelle ultime pagine del libro, pone a suggello della sua luminosa carriera artistica. «L’unico mio rimpianto è non avere mai scritto una canzone veramente semplice». È un rimpianto artistico. Non si sa se l’intellettuale Gnoli lo condivida: una delle grandi doti dell’intervistatore è il rispetto dell’intervistato.

 

Michele Serra

http://www.repubblica.it/spettacoli/musica/2016/05/05/news/francesco_de_gregori_libro-139108624/?refresh_ce

 

E non c’è niente da capire. Francesco De Gregori e la sua quieta rassegnazione all’assurdo

“IL PRINCIPE” DELLA CANZONE ITALIANA A PORDENONE

Il cantautore e il suo rapporto con il dolore, il disorientamento, Kafka e la balena bianca

domenica 18 settembre 2016 - 20:20

 

PORDENONE – Siamo abituati a sentirlo cantare, abbiamo tutti in mente una voce nasale, con le vocali aperte, una voce senza tempo che ricorda vinili e musicassette. Ma quando parla, Francesco De Gregori ha un timbro più profondo, caldo, chiudendo gli occhi si immagina un uomo sulla trentina. Parla della sua istruzione, sempre a occhi chiusi potrebbe essere un neolaureato, appena qualche anno fuori corso. Invece, alla laurea non è mai arrivato: «Il successo mi ha travolto negli anni universitari, così l’ho seguito invece di finire la tesi. Una tesi sulle biblioteche  popolari scolastiche durante il fascismo, perché mio padre era bibliotecario. La storia è sempre stata importante per me, da piccolo ritagliavo foto di guerra dalle riviste, la prima volta a cinque anni, ho ritagliato l'immagine di un carro armato a Budapest, come nella mia canzone, ‘Il ‘56’. Grazie a quella foto, per la prima volta ho sbattuto contro la storia.  Il passato mi attrae così tanto che qualche anno fa ho cercato di finire la tesi, a distanza di decenni, ho ripagato tutte le tasse per farlo. E nuovamente non è successo. Però chissà, potrei ripagare tutto e provare di nuovo».

     Oggi a Pordenonelegge viene presentato il suo libro, scritto in collaborazione con Antonio Gnoli: ‘Passo d’uomo’. È il titolo di una canzone tratta dall’album ‘Sulla strada’, ispirato al romanzo di Kerouac. Infatti nel libro, più che di storia, si parla di letteratura. E dalla voce, inaspettatamente giovane, di De Gregori, i libri non escono come siamo abituati a pensarli, ad esempio Kafka diventa un autore ‘rassicurante’: «All’inizio de ‘Il castello’ vediamo un’agrimensore che attraversa una distesa di neve, disorientato, che entra in una locanda e si intrattiene con dei contadini sconosciuti. Sappiamo che alla fine si perderà nel castello e la sua condanna sarà tremenda, ma nell’incipit di questa storia io trovo un senso di pace, di straniamento». Lo dice come se pace e straniamento fossero sinonimi. E l’incomprensibile, un rifugio: «Lo spiazzamento che arriva dal dolore provoca sofferenza a quasi tutti gli uomini, ma per l’artista è una forma di riscatto. Quello che Kafka ha di risolutivo è l’acuta capacità di raccontare il dolore, regalarlo o infliggerlo al lettore, e nel suo caso non è triste e angoscioso, quello che cambia è la sua quieta rassegnazione all’assurdo».

     Più di Kafka lo affascina Melville, ci legge un lungo passo da Moby Dick, quello in cui Achab vorrebbe smettere di cercare la balena bianca e pensa di invertire la rotta verso una vita normale, con la sua famiglia e l’odore dell’erba. Ma il fascino di una vita stanziale si dissolve quasi subito, il capitano prosegue il suo viaggio nel mare che lo inghiottirà, insieme al suo equipaggio. «Questa, se permettete, è letteratura», sentenzia chiudendo il libro.

     Ma guai a chiamarlo intellettuale anche se, a metà di una frase. dice ‘i miei libri’ al posto de ‘le mie canzoni’. Un lapsus che lo contraddice, se rende conto ridendo, poi torna serio: «Sono un cantante, ho i calli sulle mani, non mi occupo di intelletto ma di emozioni. Non mi interessa che la gente capisca le mie canzoni, voglio che si emozioni ascoltandole». Quindi, per dirla assieme a lui, ‘non c’è niente da capire’: «Il mio sogno è scrivere una canzone semplice e bella come ‘Sapore di sale’, invece nelle mie canzoni le parole si accalcano, si affollano, qualcuno dice che sono criptico».

     Vorrei chiedergli che altro ci si potrebbe aspettare da qualcuno che confonde la pace con lo straniamento. E si commuove leggendo il lento suicidio di Achab, che sacrifica una vita semplice e serena per rincorrere un cetaceo negli abissi. Glielo chiederei, ma non ha fissato un appuntamento con la stampa.

    Una risposta mi sembra di trovarla in ‘Passo d’uomo’, la canzone che dà il titolo al libro: «E non c'è niente da nascondere, niente da svelare, niente da tenere stretto, non c'è niente da lasciare. Povero cuore, come uno straniero giro la mia terra abbandonata, abbandonato e solo, e vado per la vita a passo d'uomo. Altra misura non conosco, altra parola non sono».

     Si riconosce un capitano ferito che insegue una balena, o il protagonista di ‘Sulla strada’ che cerca il padre scomparso. Qualcuno che, da solo, corre incontro all’incomprensibile sognando la semplicità. Eppure, De Gregori non dà l’impressione di essere disorientato, sembra trovarsi esattamente dove deve essere: dove gli uomini soffrono e gli artisti si riscattano. E anche se gli anni lo hanno cambiato, la sua voce è ancora quella di un giovane uomo.

 

Stefano Mattia Pribetti

http://www.diariodipordenone.it/pordenone/articolo/?nid=20160918_391198

 

 

 

 

 

 

 

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