Bufalo Bill ‎(LP, Album) RCA Italiana, RCA Italiana TPL1-1192, TPL1 1192 Italy 1976    

Bufalo Bill ‎(Cass, Album)  RCA Italiana TPK1 1192  Italy 1976

Bufalo Bill ‎(CD, Album, RE) RCA Italiana PD 666 Italy 1989    

Bufalo Bill ‎(CD, Album, RE) RCA  PD 74046  Italy 1989    

Bufalo Bill ‎(CD, Album, RE, RM, Dig) RCA Italiana, BMG 74321 773462 Italy 2001    

Bufalo Bill ‎(CD, Album, RE, RM, Cas) Corriere Della Sera, Sorrisi E Canzoni TV 9-771825 788145 90005 Italy 2009    

Bufalo Bill ‎(CD, Album, RE, Dig) Sony Music, RCA  88843067552 Italy 2014

Bufalo Bill ‎(CD, Album, RE) Sorrisi E Canzoni TV, BMG Italy GA 20 04 04 Italy Unknown

 

 

 

 

 

Anche se ormai mi ci sono affezionato, la copertina di "Bufalo Bill" è un ripiego: io avrei voluto farla con una litografia di un espressionista tedesco, Otto Dix, che raffigurava dei pellerossa un po' fasulli che cavalcavano in stile circense sullo sfondo di una bandiera a stelle e strisce, e che mi aveva fornito l'ispirazione primaria per scrivere la canzone. Poi non si riuscirono ad avere i diritti di riproduzione di questa cosa, né credo che la RCA si sia data tutto questo gran da fare, anche perché in effetti non era un'idea così commerciale, anzi. Così recuperammo questa specie di Calamity Jane da una rivista americana, che tutto sommato ha anche lei qualche freccia al suo arco."

 

Era una cosa di Otto Dix, vediamo se sta qua. Va a colpo sicuro.
Era questa l'incisione che volevo mettere sulla copertina del disco: si intitola cavalleria americana, ma è proprio il circo di Bufalo Bill di passaggio in europa".
Purtroppo la RCA non mi aiutò a prendere i diritti di questa immagine. Tanti anni fa mi ero imbattuto quasi per caso nelle opere di gente come Otto Dix, George Grosz, i pittori dell'espressionismo tedesco, un passaggio culturale intenso e drammatico nella storia d'europa. Così cominciai a interessarmene, cercai di conoscerli meglio. Di questa incisione mi innamorai letteralmente perché mi sembrava riassumere tante cose significative: l'America vista con i nostri occhi da europei e quindi un po' l'America di Kafka, un libro amatissimo ... il confronto fra il vecchio e il nuovo continente, la frontiera dei pionieri da una parte e la nostra tradizione culturale dall'altra ... l'America dei fumetti western letti da bambino: Buffalo Bill (ma con una "f" sola, all'italiana!). Insomma, la "cavalleria americana" di Otto dix, l'incisione ispirata da uno spettacolo del circo di Bufalo Bill nel cuore della vecchia Europa incarnava perfettamente il mondo evocato dalla mia canzone: un mito che si trasforma in caricatura di se stesso, un eroe al crepuscolo fra epos e operetta... e quei pellerossa truccati da cattivi ... sarebbe stato perfetto, ma non era abbastanza commerciale e così optammo per quella pin-up con la pistola in mano presa da un calendario di Gil
Elvgren del 1948. Molto americana anche lei, tutto sommato, e molto più accattivante.
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

 

 

 

Dopo il successo ottenuto con Rimmel e la conseguente notorietà, Francesco è di nuovo nelle sale Rca per realizzare quello che definisce uno dei suoi album più belli. E’ il disco in cui si nota maggiormente l’influenza che i cantanti americani - Dylan su tutti - hanno su di lui. E’ perfettamente americano, con la A maiuscola e con tutti i denti a posto.

Attraverso l’epica ode dedicata a William Frederick Cody, Francesco ci accompagna su un treno che corre lungo i binari della nuova frontiera disegnata dalle rotaie della Northern Pacific, in cui si sente fortissimo l’odore degli ultimi bisonti del Dakota e quello del nuovo "cavallo d'acciaio": il grasso della locomotiva. Ma è anche l'America di Hemingway, dei Kennedy, di Donald Duck, di Kerouac, di Steinbeck e di tutte le altre letture che il ragazzo ha fatto, confermando un legame - mai interrotto - con la cultura americana.

 

In quest’anno ci governano prima Moro con una coalizione politica DC e poi, in estate, Andreotti; l’Apple presenta il primo personal computer; Alan Guth formula la teoria del Big Bang inflattivo; vengono scoperti gli oncogeni; in Uganda, a Entebbe, un commando israeliano libera cento ostaggi del volo Tel Aviv–Parigi; nasce “La Repubblica” di Scalfari; viene inventata la prima scheda telefonica; le BR alzano il tiro: i giudici Coco ed Occorsio; in TV va in onda l'ultimo spot di "Carosello"; la lira precipita fino a quota 880 contro il dollaro; viene ricatturato a Milano Renato Curcio;  la Corte di Cassazione vieta la proiezione del film "Ultimo tango a Parigi"; scoppia lo scandalo Lockheed: l'industria americana produttrice di aerei conferma di aver versato oltre un miliardo di tangenti a politici italiani per le forniture degli "Ercules C130" all'esercito italiano. La Commissione parlamentare inquirente mette sotto accusa per corruzione i ministri Tanassi e Gui; un violento terremoto pari al 9° grado della scala Mercalli colpisce il Friuli; a Seveso, alle porte di Milano, scoppia il reattore di una fabbrica di prodotti chimici e la nube tossica carica di diossina invade il territorio. Solo dopo 15 giorni viene decisa l'evaquazione della popolazione e la recinzione dell'intera zona, quando era ormai diventata diserbata e disfogliata, con tutte le colture distrutte per anni; Craxi viene eletto segretario del PSI; addio al gettone telefonico; la sonda americana "Viking I" atterra su Marte; grave incidente a Niki Lauda sul circuito del "Nürburgring" durante il gran premio di Germania di Formula; Jimmy Carter viene eletto Presidente degli Stati Uniti; Muoiono Luchino Visconti, Mao Tze Tung, Luciano Re Cecconi.

Nello sport Adriano Panatta vince il Roland Garros di Parigi e in estate guida l'Italia alla conquista della Coppa Davis con  Barazzutti, Zugarelli e Bertolucci (All. Pietrangeli); Franz Beckenbauer vince ancora il Pallone d’Oro; la stella alle Olimpiadi di Montreal è la ginnasta romena Nadia Comaneci e la domenica sera Adriano De Zan ci racconta che Il Torino vince lo scudetto con Castellini, Salvadori, Santin, Sala, Mozzini, Caporale, Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici (All. Radice).

Il Premio Strega va a Fausta Cialente con Le quattro ragazze Wieselberger e il Campiello va a Gaetano Tumiati con Il busto di gesso.

Dopo la scomparsa di grandi registi come Visconti, Rossellini, Pasolini e De Sica, le nuove leve del cinema italiano si danno da fare: assieme a Maestri come Antonioni e Fellini, emergono Bellocchio, Ferreri e Bertolucci. Al cinema vediamo Serpico, Rocky, Quinto potere, Il comune senso del pudore, Tutti gli uomini del Presidente, King Kong, Taxi Driver, Casanova, Novecento, Brutti sporchi e cattivi, Cadaveri eccellenti, Toto modo, Il deserto dei Tartari, Guerre stellari, L’anatra all'arancia.

La dieta mediterranea conquista gli USA, è seguita anche da campioni sportivi e stimola i consumi di pasta non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e nella stessa Italia.

Viaggiamo con la Wolkswagen Golf GTI, la Ford Granada, la Innocenti Bertone, il Fantic Motor Caballero.

La moda impone maglie e camice attillate unisex, pantaloni magari scampanati ma sicuramente bassi di cavallo e soprattutto stretti in vita e comunque tendenzialmente unisex. Le tasche sono cucite esternamente ma solo per una questione di look e design. Non brillano di praticità date le loro strettissime ed aderentissime misure che di fatto non permettono nemmeno di inserire un normale pacchetto di sigarette se non con la conseguenza di schiacciarlo. Di moda vanno gli occhiali Lozza, il Bulldog  e il Chihuahua, l’autoradio Blaupunkt, i jeans Wrangler, il Bulova Accutron, i nuovi stereo7, i pacchiani accessori per abbellire l'interno dell'automobile, lo schermo a colori sulla tv in bianco e nero per simulare il colore, gli scarpini da calcio Pantofola d'oro e Tepa Sport.

Giochiamo con Barbie, Big Jim, Shangai, la bicicletta Graziella, le bambole Furga, Migliorati, Ratti, la lavagna magica, il kaleidoscopio, Gi Joe, mettersi il Vinavil sulle mani per poi togliere le pellicine e…… suonare i citofoni condominiali.

In televisione c’è Sandokan, L'altra domenica, Non stop, Sulle strade di San Francisco, Hulk, Attenti a quei due, il Gesù di Zeffirelli, Michele Strogoff, Furia.

Spot da ricordare sono “Petrus l'amarissimo che fa benissimo”; il cavallo bianco del bagnoschiuma Vidal; 'Capitano, lo possiamo torturare? Ma cosa vuoi torturare tu?“ e “dormo tranquillo e asciutto, Lines notte assorbe tutto”

Ci intossichiamo con Big Babol, Tavolette Nestlè, Tin Tin Motta, le gomme di Brooklyn, le caramelle Elah alla liquirizia e alla frutta, i biscottini rotondi Tuc e Ritz, i biscotti Bucaneve Doria, i biscotti Biscolussi e Gran Turchese, la Brioss Ferrero

I nostri soldi vanno in fumo anche attraverso Diana, Linda, Muratti, Rothmans, Stop con filtro e senza filtro.

Leggiamo Cristall, Ghibli, I Fantastici Quattro, il Manuale di Paperinik e quello delle Giovani marmotte, il Corriere della Sera, Sorrisi e Canzoni, Porci con le ali, Il formaggio e i vermi, l'enciclopedia Tecnirama, Muzak, Re Nudo.

A Sanremo vince Peppino di Capri con “Non lo faccio più”, allo Zecchino d’oro vince "La Teresina" e al Festivalbar Gianni Bella con "Non si può morire dentro".

La mitizzazione del passato felice degli anni Sessanta e Settanta viene identificato come American Graffiti dal telefilm Happy Days, che aveva come protagonisti giovani spensierati senza alcuna frustrazione, alle canzoni surf dei Beach Boys, nonché la riscoperta dei Beatles attraverso John Lennon. Tutto inizia a ruotare in un passato che i teenager non hanno vissuto ma in cui vogliono indentificarsi.

In Italia la musica si divide in impegnata e in disimpegnata. I cantautori vengono su come funghi nonostante polemiche, contestazioni, processi e disordini causati dagli autoriduttori che disturbano i festival dell’Unità e i teatri al grido di "la musica è nostra ed è gratis". I cantautori di successo vengono pubblicamente "processati" e accusati di tradimento. Famosi restano i processi a De Gregori, Venditti, Bennato e i subbugli ai concerti dei Led Zeppelin e di Carlos Santana. Tutto ciò accade solo in Italia, al punto che i circuiti  internazionali hanno evitato per anni il nostro paese, costringendo i veri appassionati ad emigrare per ascoltare i loro idoli.

I Sex Pistols debuttano al Club 100: nasce il punk-rock in Gran Bretagna; esplode la musica reggae di Bob Marley; i Blondie lanciano la "disco-punk"; al Winterland di San Francisco The Band celebra lo scioglimento con un mega-concerto denominato "The Last Waltz” in cui sono presenti numerosi ospiti d'eccezione. Dal concerto vengono tratti un disco triplo e un film diretto da Martin Scorsese; William Ackerman fonda la Windham Hill e inventa la musica new-age; i Throbbing Gristle coniano il termine "industrial music"; boom dell'elettronica con "Oxygene" di Jean-Michel Jarre

Si afferma la musica funk e il  tentativo di fusione tra rock e musica sinfonica operato dagli Emerson Lake & Palmer, ma l’anno vede l'esplosione del fenomeno disco-music: le piste da ballo del sabato sera sono dominate soprattutto da Barry White e Donna Summer, ma anche dal funk di George Clinton, James Brown, o Kool & The Gang.

In Italia, la tradizione del rock, nata sul finire degli anni Sessanta con gruppi come i Camaleonti, i Dik-Dik, l’Equipe 84, si rinnova con gli Area di Demetrio Stratos, Perigeo, il Banco Mutuo Soccorso, la Premiata Forneria Marconi e i sempreverdi Orme, New Trolls e Nomadi.

Ascoltiamo Ancora tu, La tartaruga, Margherita, Sei forte papà, Europa, Johnny Bassotto, Linda bella Linda, Tu ca nun chiagne, Linda, Svalutation, Gli occhi di tua madre, Don't go breaking my heart, Due ragazzi nel sole, Il maestro di violino, Preghiera, Senza parole, Hurricane, Music, Gimme some, Io camminerò, La mia estate con te, Sambariò, Volo AZ 504, M'innamorai, Se mi lasci non vale, I'm easy, Histoire d'O, Come stai con chi sei, Black Emmanuelle. Per un'ora d'amore, Ullalà, La torre di Babele, 22ma Raccolta Fausto Papetti, Hacia la libertad, Let the music play, Arabian nights, A trick of the tail, Poohlover, Mahogany, La voglia la pazzia l'incoscienza l'allegria.

Gli album più venduti in Italia sono Wish you were here, Amigos Santana, La batteria il contrabbasso ecc., Desire, Minacantalucio, Via Paolo Fabbri 43, A love trilogy, 21ma Raccolta Fausto Papetti, BUFALO BILL, Concerto per Margherita.

Ma la puntina la poggiamo anche su dischi come Legalize It, Bright Size Life, This Masquesrade, Tom Petty: and the Heartbreakers, Desire, Hotel California, Music from the Penguin Cafe, Hard Rain, Songs in the Key of Life, Bob Marley Live, Ho visto anche degli zingari felici, Una storia disonesta, Wings over America, La torre di Babele, Automobili, Mio fratello e' figlio unico, Ullala, Wind & Wuthering, A Trick Of The Tail, Ballata per quattro stagioni. Tormentone dell’estate: Come pioveva, dei Beans.

http://www.rimmelclub.it/storia/storia.htm

 
 

 

 

 

A Francesco fu timidamente fatto sapere che qualora avesse provato il desiderio di mettere su di un nastro qualche nuova idea, avrebbe naturalmente potuto disporre liberamente delle magnifiche sale della Rca e di tutta l'assistenza necessaria. Francesco non se lo fece ripetere due volte (…) Una presenza, che a mio avviso contribuì non poco al nuovo sound, fu quella dell'ottimo Toto Torquati, un musicista di grandissima sensibilità. Nacque così, serenamente, quello che io ritengo il long-playing più bello mai  realizzato da Francesco e il più completo.

E’ il disco più vicino al centro della sua anima di allora, e il più universale come contenuti: ogni singola canzone, anche se isolata dalle altre, risulta più universale come contenuti. Vi sono canzoni fortemente politiche, come Ninetto e la colonia e Disastro aereo sul canale di Sicilia; canzoni epiche come Bufalo Bill e Festival; canzoni sociali, come Giovane esploratore Tobia o Ipercarmela, canzoni quasi psicoanalitiche come L'uccisione di Babbo Natale o Ultimo discorso registrato, canzoni d'amore come Atlantide o la splendida Santa Lucia. (…) C'erano le ragazze Baba Yaga, che avevano già cantato nei dischi di Francesco, serissime come sempre. (…) Credo che questo fu il periodo più felice di Francesco, il più tumultuoso e frenetico. (…). Ogni sua dichiarazione era oggetto di polemiche, come quella volta che in un'intervista fece riferimento al "mare tranquillizzante delle canzoni di Claudio Baglioni", suscitandone il suo risentimento.

Nel mese di maggio del 1976 l'album "Bufalo Bill" di Francesco De Gregori entra in classifica per la prima volta direttamente al 2° posto. Sempre in questo mese, la RCA immetterà sul mercato una nuova collana di albums [supporto: 33 giri, Stereo 8 e musicassette] a prezzo medio denominato "LineaTre". Il progetto viene presentato a Roma, presso l'Hotel Jolly, dal 5 al 7 maggio. Tra le prime emissioni, compare anche Francesco De Gregori, Riccardo Cocciante, Lucio Dalla, e altri.

Come Rimmel, anche Bufalo bill fu registrato durante le pause di una di quelle che ancora nemmeno si chiamavano tournèe ... diciamo una serie di concerti fra la fine del 1975 e l'inizio del 1976.
E' vero che cercai di staccarmi un po' dal suono di Rimmel, un suono abbastanza commerciale che avevo
cercato e trovato ed era piaciuto alla gente ed era piaciuto anche a me: ma dopo un anno mi sembrava giusto sparigliare un po', anche perché a quell'età si cambia velocemente idea su tante cose. E in un anno
era cambiato anche il mio modo di scrivere canzoni".
Certo, John Wesley Harding è un disco che conosco bene e che ho amato moltissimo ... "the ballad of frankie lee ano judas priest" in particolare ... però non credo di aver mai detto ai musicisti in studio che volevo il sound di Dylan con the Band. la verità è che le persone che hanno lavorato in questo disco non sono le stesse di Rimmel, anche per questo il suono è differente. e non credo proprio di aver dato a loro indicazioni così precise su quello che volevo ottenere, non è che lo sapessi bene nemmeno io. Così forse portai in studio un po' di dischi che in quel momento mi piacevano per indirizzare tutto il lavoro in una direzione meno scontata, meno pop. Sai, nelle registrazioni di allora, in particolare negli studi RCA dove io lavoravo, c'era questa tendenza ad essere molto perfettini, molto puliti ... the Tiburtina sound, ad esempio, avere la ritmica incollata, cassa e basso perfettamente sincronizzati, tutte cose che invece nella musica che piace a me non vengono al primo posto. Quindi per schiodarli da questo ideale di calligrafia sonora, da questa idea del compitino fatto per bene io gli facevo ascoltare tutto quello che poteva essere utile ad andare nella direzione opposta. E alla fine i musicisti si adeguavano, qualcuno addirittura finiva per apprezzare.
I musicisti che rispondevano ai nomi di Carlo Felice Marcovecchio, Roberto Rosati, Mario Scotti, Toto Torquati: "era tutta gente che lavorava con regolarità negli studi RCA di quel periodo, gente scafata, collaudata e assai richiesta. Solo Toto Torquati era un 'prelievo esterno', un ottimo tastierista che aveva suonato con Baglioni per le registrazioni di "Questo piccolo grande amore". Lo conoscevo dai tempi del folkstudio, dove suonava di preferenza jazz e blues e metteva settime maggiori dappertutto. Mi piaceva averlo con me perché era sicuramente il meno prevedibile, il meno "allineato" di tutti. Insomma, era un gruppo di musicisti molto vario e tutto sommato poco tradizionale ... in studio fu proprio Torquati quello che mi aiutò di più, soprattutto su pezzi come Atlantide o Santa Lucia ... era quello fra tutti più vicino al mio mondo.
Stupisce l'assoluta perfezione sonora di questo disco, un suono brillante che a tanti anni di distanza sembra essere registrato oggi con le più moderne tecnologie: "ma non ti puoi immaginare la fatica che abbiamo fatto per registrarlo così! Ricordo sempre grandi incomprensioni con i tecnici. Per loro era una prassi normale rifare ogni registrazione un sacco di volte, sovrapporre parti nuove a parti vecchie, incollare nastri, mettere delle toppe sugli errori registrando al volo un piccolo frammento sonoro da sostituire a quello sbagliato: 'sona, diceva, sona che ti prendo io '. Alla fine il risultato era una mancanza totale di naturalezza e tutto il suono era già preconfezionato, nasceva già avvolto nella sua bella plastichetta. Le chitarre, ad esempio: tu entravi in sala, ti sedevi davanti al microfono e suonavi la tua chitarra acustica. Poi andavi di là a sentire la registrazione ed era tutto un altro suono, di solito l'opposto di quello che cercavi. Allora dicevi al fonico di venire a sentire bene il suono naturale della chitarra: lo senti com'è? lo senti il vero suono di una chitarra com'è? e quello ti rispondeva "sì, è brutto".
Insomma a volte era una bella lotta e in definitiva abbiamo lavorato molto per ottenere quello che adesso si sente sul disco. C'è chi dice che in quegli anni le chitarre acustiche registrate negli studi della RCA avessero tutte lo stesso suono un po' da grattugia e io facevo di tutto per non adeguarmi.
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

 

 

 

 

L'aria aperta, il tempo lungo, l'incipit straordinario ci assettano in un mondo che non è questo o un altro o un altro ancora: è il mondo. C'è un paese felice, dio che lo guarda dall'alto, i soldati che lo difendono, e davanti ad una situazione simile c'è da scommettersi che un ragazzo parteggierebbe per questo.

 

Il paese era molto giovane, i soldati a cavallo erano la sua difesa, il verde brillante della prateria dimostrava in maniera lampante l'esistenza di Dio,
del Dio che progetta la frontiera e costruisce la ferrovia.

A quel tempo io ero un ragazzo che giocava a ramino e fischiava alle donne. Credulone e romantico, con due baffi da uomo.
Se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte, tra la vita e la morte, avrei scelto l'America!
Tra Bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi: la locomotiva ha la strada segnata, il Bufalo può scartare di lato e cadere.
Questo decise la sorte del Bufalo, l'avvenire dei mie baffi e il mio mestiere.
Ora ti voglio dire: c'è chi uccide per rubare e c'è chi uccide per amore, il cacciatore uccide sempre per giocare, io uccidevo per essere il migliore.
Mio padre guardiano di mucche, mia madre una contadina, io unico figlio biondo quasi come Gesù.
Avevo pochi anni e vent'anni sembran pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi più.
E mi ricordo infatti un pomeriggio triste, io col mio amico "Culo di gomma" famoso meccanico.
Sul ciglio di una strada a contemplare l'America, diminuzione dei cavalli, aumento dell'ottimismo,
Mi presentarono i miei cinquant'anni e un contratto col Circo "Pace e bene" a girare l'Europa.
E firmai, col mio nome firmai, e il mio nome era Bufalo Bill.

 

 

 

 

Mi è venuta vedendo un disegno di Otto Dix che mi è piaciuto tanto e si chiama "Bufalo Bill al circo"; Si vedono tre indiani dipinti con una cattiveria spaventosa cioè indiani imbruttiti, indiani finti; lì scattò il meccanismo della canzone cioè di vedere dietro il mito dell'America pulita, dell'America dei grattacieli, l'America dei ghetti. 

Io osservo l'America un po' come al cinema, attraverso i prodotti di Hollywood, i figli dell'"uomo da marciapiede", ma mi rendo anche conto che tutto sommato abbiamo dei debiti da pagare agli USA, cioè siamo in mano loro, se muovono un dito andiamo in fallimento, sul piano finanziario. C'è anche questo, il quadro mi ha dato l'aggancio immediato, poi la canzone l'ho scritta perchè mi interessava parlare dell'America. E' la biografia di Bufalo Bill, più o meno romanzata perchè ci sono certe coincidenze non precise, l'avvento della motorizzazione non so bene quando ci sia stato in America rispetto all'età di Bufalo Bill però è la storia di Bufalo Bill e di un certo periodo di storia americana, il mito della nuova frontiera, il mito dell'Ovest.  A un certo punto di "Bufalo Bill" viene fuori questa strana espressione "culo di gomma".  E' l'episodio del meccanico, quando si passa dall'America del Bufalo, delle prime ferrovie, della caccia all'oro del periodo mitico, al periodo dell'ottimismo, della tranquillità, il periodo che arriverà fino al 1929 al crollo di Wall Street. La motorizzazione coincide con la fine del West, come l'introduzione delle armi da fuoco coincide con la fine del periodo cavalleresco.  "Culo di gomma" perchè mi sono messo un po' nel linguaggio di questi americani che vedevano il mondo probabilmente diviso tra quelli lie andavano a cavallo e quelli che non ci andavano; e chi non ci andava probabilmente aveva il culo più molle e il meccanico che si intende di pistoni e cilindri perciò viene definito "culo di gomma" quindi una specie di sottoprodotto umano agli occhi di Bufalo Bill. Queste sono tutte cose che mi sono inventato io; magari Bufalo Bill andava in macchina alla fine

  

In un solo anno, arriva Bufalo Bill.

Forse avevano ragione Brel e Fo e il vecchio Rimbaud a dire che si scrive fino a vent'anni. Il resto è in più o inutile.

Bufalo Bill (che per me resta a tutt'oggi il suo disco più completo, umano, pensoso, vero) introduce lo sconforto, la soluzione impossibile, la paura del tempo e degli uomini, l'ipocrisia, il mondo com'è (dopo due anni di mondo come lo vedo), il disagio e la fatica, l'odio travestito da amore, la terza età in cui spaventa il dubbio e a volte più del dubbio, la certezza di un mondo che va lentamente a rotoli. De Gregori esaurisce l'uomo, la sua parabola, la sua storia in tre episodi: infanzia, sicurezza apparente, delusione mai vinta. 

Bufalo Bill non è solo America, anche se la metafora, ampia già dall'inizio lì ci colloca: è un mondo che scompare e non è più lo stesso, è un uomo eroe a 20 anni e buffone a 50, è un conflitto natura / industria, natura / progresso, finalmente descritto senza gli usuali stereotipi di fabbriche, operai o via dicendo (lo han fatto in 10.000). L'aria aperta, il tempo lungo, l'incipit straordinario ci assettano in un mondo che non è questo o un altro o un altro ancora: è il mondo. C'è un paese felice, dio che lo guarda dall'alto, i soldati che lo difendono, e davanti ad una situazione simile c'è da scommettersi che un ragazzo parteggierebbe per questo. Perché? O, dio, la civiltà, la ragione, la locomotiva dai binari segnati, ma (attenzione il ragazzo è romantico), il bufalo non va mai per percorsi diretti, è modificabile, il bufalo è poesia. Dio, che miscuglio di cose belle che ci stanno dando e di cose bellissime che andiamo perdendo: qualcuno riuscirà mai a metterle insieme? No. O scegli il bufalo o la ferrovia. E io, Bufalo Bill, eroe per niente, non avevo 'sti grandi ideali: uccidevo per giocare, per essere il più bravo. Tutto ciò è primordiale, perfino mistico "il cacciatore uccide sempre per giocare". Allora è un gioco, allora è una sorpresa, allora è un inizio di felicità:"mia madre una contadina, mio padre un guardiano di mucche, io unico figlio biondo quasi come Gesù". Allora Bufalo Bill non è bene né male, è inizio, è primordio, è America di semplici cullate illusioni: trovarlo a cinquant'anni in un circo dà l'esatta dimensione di mille fallimenti, ma il più grave è quello di un paese che non ha saputo mettere insieme due semplicità  quella indiana e quella yankee; non guardando mai indietro e frantumando ogni ostacolo per il suo passaggio al futuro, alla globalizzazione strisciante. Bufalo Bill è una canzone epica, elegiaca, chi riesce a capire capisca. Nemmeno De Andrè coi suoi indiani è così dolcemente tristemente uomo deluso. Bufalo Bill è  un testo bellissimo, per respiro, ampiezza (già dall'esordio ci sembra di essere in una prateria), bellissimo per un inconsapevole ruolo di un eroe, che eroe non è da giovane e tantomeno da vecchio, uomo piuttosto che crede ai suoi spazi, ai suoi colpi di fucile come norme, regole ancestrali di vita. Uomo di grande dignità tanto da disperdersi ,finito il sogno, e annullarsi nei circhi d'Europa. Che sia venuto in mente un personaggio simile a De Gregori e che lo abbia trattato così, fuor di morale (in un'epoca dilagante di morale e moralismi) è un miracolo. Ognuno può cogliere l'universale che trascende da questa piccola epica storia western, metafora lunga della vita di tutti noi. Di noi? Sì di noi intesi come collettività infantile che s'ingrippa e s'irrigidisce nel crescere sociale: l'icona della libertà (verde brillante delle praterie, il bufalo che può scartare e cadere) non si incastra, non riesce a fare tutt'uno con il progresso, il futuro, la società industriale (la locomotiva ha la strada segnata), restiamo bimbi in quella illusione (vent'anni sembran pochi) sperando che tutto passi e tutto resti: poi all'improvviso ci voltiamo e non troviamo più niente, diminuiscono i cavalli, aumenta l'ottimismo di tutti e resta solo l'amico dal culo di gomma a guardare con William Cody, a contemplare, fin dove l'occhio porta , un'America che non c'è più, scomparsa così da un momento all'altro per il gesto di chissà che mago: tutti belli, tutti a casa. Per capire a fondo questo spleen, questo tarlo assurdo e ingannevole del benessere bisogna leggere e ascoltare tutte le canzoni dell'album, e l'album è pieno di questa nuova borghesia, insonnolentita, appagata, straniante, che tale è e tali alleva i figli: c'è la grande restaurazione alle porte, il grande modello americano che non annette replica e tranquillizza. Roberto Vecchioni.

La canzone Bufalo Bill è nata soprattutto come un'idea letteraria, con la voglia di raccontare una storia. La musica è stata fatta in seguito e c'è un cambiamento di atmosfera e di ritmo a metà della canzone che nasce proprio dal fatto che dovevo musicare un testo molto narrativo, quasi un parlato ... quindi la costruzione musicale è stata fatta per il testo e non con il testo; e quel cambiamento di ritmo è dettato dalla necessità di far quadrare i conti con le parole: senza quel brusco cambiamento non avrei potuto dire quelle cose, quelle parole non sarebbero state cantabili. Poi per fortuna è successo quello che succede nei momenti felici: tu fai certe cose perché sei costretto e alla fine funzionano benissimo, sembrano nate solo dall'ispirazione: e invece di produrre un risultato forzato tutto diventa fluido e naturale.
Bufalo Bill, un omaggio a una America sognata, amata, anche odiata? L'idea mi era venuta da un film di Sam Peckinpah, "La ballata di Cable Hogue", un bellissimo film uscito nel 1970 sulla fine dell'epopea western, la parabola di un anziano pioniere che muore schiacciato da una delle prime automobili. L'avvento del motore a scoppio, le quattro ruote che sostituiscono i cavalli, la decadenza e la fine di tutto quel mondo cavalleresco fatto di indiani e di cowboys, di strade ferrate e praterie, Bufalo bill che arriva alla fine della sua carriera e si riduce a fare la caricatura di se stesso in un circo in giro per il mondo. Quale simbolo migliore di tutto questo? Così scrissi la canzone. che è anche una dichiarazione d'amore: 'tra la vita e la morte avrei scelto l'America' suona bene in bocca a Bufalo Bill ma è una frase che potrei sottoscrivere tranquillamente anch'io se penso ai debiti che ho con la cultura americana, con gente come ...Jack London o Donald Duck e Bob Dylan. Anche se poi l'America uno come Bufalo Bill lo ha prima consumato e poi nei fatti espulso come un corpo estraneo. Perché l'America se vuole può essere la più crudele delle nazioni e quando finisce il tempo degli eroi e comincia quello dei capitani d'industria il destino di Bufalo Bill è deciso, come quello del bufalo".
Una canzone ancora oggi eseguita, seppur non troppo spesso: "mah ... la faccio ancora ogni tanto perché
è una di quelle canzoni nelle quali la gente si identifica. Non è facilissimo renderla bene dal vivo. Come tutto ciò che sta sui dischi, dal vivo prende un'altra forma. A volte mi sembra che sia difficile superare la compattezza della registrazione originale. E' un po' un problema non buttarla in vacca dal vivo, specie quando ci sono da fare quei coretti con le voci. .. dal vivo certe cose basta poco e diventano pesanti. Ma ancora oggi mi piace l'idea che c'è dietro questa canzone e quel cambiamento a metà, quando tutto deraglia in un tempo di quattro quarti. Fu una cosa che sconcertò mia moglie quando le feci sentire la canzone prima di andarla a registrare. Arrivato a quel punto scoppiò a ridere e mi chiese se ero matto. Non le piaceva proprio. E credo che anche oggi non abbia cambiato idea.
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

GIACCIO - "Bufalo Bill" è il titolo del nuovo album, vogliamo analizzarlo Pezzo per pezzo; cominciamo da "Bufalo Bill" che è una canzone sull'America.

DE GREGORI - Mi è venuta vedendo un disegno di Otto Dix che mi è piaciuto tanto e si chiama "Bufalo Bill al circo"; Si vedono tre indiani dipinti con una cattiveria spaventosa cioè indiani imbruttiti, indiani finti; lì scattò il meccanismo della canzone cioè di vedere dietro il mito dell'America pulita, dell'America dei grattacieli, l'America dei ghetti.

GIACCIO - Quindi la tua immagine dell’America è un'immagine letteraria, vola attraverso un quadro, un film.

DE GREGORI - No, ne ho anche una mia, noi all'inizio abbiamo parlato di politica però forse questo non l'ho detto, ma credo che noi siamo veramente legati politicamente in maniera abbastanza pesante a questo sole americano. Quindi io osservo l'America un po' come dici tu al cinema, attraverso i prodotti di Hollywood, i figli dell’”uomo da marciapiede", ma mi rendo anche conto che tutto sommato abbiamo dei debiti da pagare agli USA, cioè siamo in mano loro, se muovono un dito andiamo in fallimento, sul piano finanziario. C'è anche questo, il quadro mi ha dato l'aggancio immediato, poi la canzone l'ho scritta perchè mi interessava parlare dell'America. E' la biografia di Bufalo Bill, più o meno romanzata perchè ci sono certe coincidenze non precise, l'avvento della motorizzazione non so bene quando ci sia stato in America rispetto all'età di Bufalo Bill però è la storia di Bufalo Bill e di un certo periodo di storia americana, il mito della nuova frontiera, il mito dell'Ovest.

GIACCIO - A un certo punto di "Bufalo Bill" viene fuori questa strana espressione "culo di gomma".

DE GREGORI - E' l'episodio del meccanico, quando si passa dall'America del Bufalo, delle prime ferrovie, della caccia all'oro del periodo mitico, al periodo dell'ottimismo, della tranquillità, il periodo che arriverà fino al 1929 al crollo di Wall Street. La motorizzazione coincide con la fine del West, come l'introduzione delle armi da fuoco coincide con la fine del periodo cavalleresco. C'è un film di Peckinpah bellissimo, che mi ha ispirato: si chiama "La ballata di Cable Hogue" in cui si vede uno di questi ultimi pionieri americani che muore schiacciato da un’automobile; è una simbologia molto semplice, ma efficace.

GIACCIO - E "culo di gomma"?

DE GREGORI - "Culo di gomma" perchè mi sono messo un po' nel linguaggio di questi americani che vedevano il mondo probabilmente diviso tra quelli lie andavano a cavallo e quelli che non ci andavano; e chi non ci andava probabilmente aveva il culo più molle e il meccanico che si intende di pistoni e cilindri perciò viene definito "culo di gomma" quindi una specie di sottoprodotto umano agli occhi di Bufalo Bill. Queste sono tutte cose che mi sono inventato io; magari Bufalo Bill andava in macchina alla fine...

ROMANO -  Secondo pezzo della facciata "lpercarmela".

DE GREGORI - "Ipercarmela" è vecchissima, fu scritta prima ancora che uscisse "Rimmel". E' la storia di due emigranti contenti che stanno a Torino e accettano la logica di Torino: il marito chiudendosi in cucina in questo mito della proprietà della sua casa; la donna accettando il ruolo di schiava e drogandosi di giornali femminili. Quindi due persone perdute dal punto di vista umano, in perfetta sincronia con la violenza della città che li ha accolti. E poi la nascita di questa bambina: nasce con dei buoni auspici, nasce come una stella, una cosa diversa, e sorride. Ride sempre, 'Ipercarmela' è una canzone ingenua, iperrealistica, una canzone in cui si vedono tutti i muscoli.

ROMANO – Bufalo Bill finisce con un accenno a “Bandiera rossa". In “Ipercarmela” usi un inciso inciso di "Passion fiowers , versione ballabile di "Per Elisa" Come mai questo recubero di cose musicali?

DE GREGORI – Mi sono divertito e stava bene non solo musicalmente ma anche col testo.

da FRANCESCO DE GREGORI, UN MITO di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi - Edizioni Lato Side – 1980

 

 

 

 

Ettore Castagna - "Occhi che hanno visto terra" (World Music, Roma, n. 35, dicembre 1998) Bufalo Bill - La canzone è un grande affresco ideologico. La transizione dall'America "di una volta" del sogno, del mito, della frontiera a quella reale e contemporanea, dei "culi di gomma" dove anche la vita dell'ex cowboy finirà per essere regolata da un formale contratto di lavoro ( il circo che ritroveremo negli ultimi mesi) si è consumata interamente. Bufalo Bill (si noti la "versione italiana" del nome, quella anglosassone porta una f in più e si pronuncia diversamente), il Cowboy per eccellenza, l'uomo della frontiera libero e brado si produce in una autobiografia improbabile. Improbabile per la sua intonazione di delirio e di sogno. Decisamente estranea ad ogni taglio realistico della narrazione. Eppure "vera" o meglio "verosimile". Si scopre facilmente dopo poco leggendo il testo che il vero narratore siamo noi e che la canzone pesca in alcuni dei vari modi di immaginare l'America tutti europei e più ancora italiani. Proprio quella f in meno nel nome italiano dell'Eroe (rispetto all'inglese "buffalo"), trasferisce il Bill storico delle praterie, dei cavalli e della frontiera nel Bill dei fumetti e della leggenda nostrana. Bill nella canzone è reale quanto Tex Willer. E probabilmente altrettanto "italiano". Eppure il senso di esattezza che ci trasmette questo "fumetto in musica", la precisione con la quale ci parla dell'America, in un certo senso finisce per far riflettere. E' forse ancora stupefacente, nonostante la televisione, scoprire quanto l'America non sia più soltanto dell'America e quanto parte del suo immaginario e del suo pantheon di figure mitico-simboliche sia parte effettiva del nostro immaginario. E' questo uno degli elementi caratterizzanti della canzone di De Gregori e cioè mostrare quanto lo scavare nel nostro immaginario tutto italiano di praterie viste al cinema o in televisione, di Buffalo Bill con una f in meno sia in fondo come scavare in un patrimonio oramai comune di miti e di simboli, un vero ponte transoceanico fra noi e l'America. Il pregio della canzone, una volta compiuto tutto il viaggio nel simbolico, è quello di individuare e proporre elementi di verità. Il Bill finto, fumettistico, immaginario ci racconta un'America quanto mai cruciale e reale. Quella che non ha forse ancora risolto il nodo del passaggio dall'era della verginità primitiva elaborata sul genocidio rimosso degli indiani d'America, dell'autoconsiderazione immacolata ed eroica del sè e l'America quotidiana, frantumata, non più pura, che sostituisce i bufali alle locomotive. Le locomotive con la loro "strada segnata" rappresentano il trionfo dell'invariabilità, della razionalità del percorso definito, della cancellazione della creatività nell'itinerario da seguire. E' il bufalo che "può scartare di lato e cadere". Ma il bufalo è pressoché estinto oramai. Scompare dalla scena l'animale simbolico per eccellenza. La sua forza bruta e vitale come elemento di confronto con l'uomo continuamente impegnato a piegare la prateria e la natura selvaggia al suo volere evoca alcuni degli elementi della tauromachia. La prateria si propone come il teatro ideale di una grande corrida dove l'affermazione del dominio sul toro/bufalo è l'affermazione dell'uomo bianco/tauromaco "white, anglo-saxon, protestant" sull'insorgere bruto della natura (Non a caso il vero nome di Bufalo Bill è William Cody e non Ciro Coccoviello). Il toro, energia "nera" e primordiale emerge dalle profondità ctonie della prateria come paradigma della natura da domare. Si accende l'agone mitico (uomo-bufalo), nel teatro mitico (la prateria) e in un tempo mitico (la conquista del west) nel quale si forgia il primigenio uomo americano. E' la sua vittoria sulla natura (indiani compresi, fanno parte di essa perché "selvaggi") che lo rende puro ed eroico, lo "monda" da ogni colpa. Bufalo Bill è il torero dell'America. E' questo che permette la sua ammissione nel Pantheon Americano. Pragmatico ed immacolato, Bill costruisce la sua beatificazione uccidendo/immolando bufali in nome della Frontiera e dell'America stessa. Giunta la Frontiera all'Oceano, finita l'era della conquista come un vero eroe di un mito di fondazione, Bill non muore ma è assunto in cielo con tutto il corpo. Si tratta del cielo dell'immaginario ed ovviamente dell'immortalità. Passa dalla prateria/reale al circo/ fantastico. Dopo il bagno nel sangue dell'animale mitico (il bufalo), egli è oramai immortale, può permettersi dunque di fermarsi "sul ciglio di una strada a contemplare l'America". E' significativo che nell'atto del contemplare sia suo compagno ed amico "culo di gomma, famoso meccanico". E' un simbolico passaggio di consegne fra l'eroe del tempo mitico connotato con "nome e cognome" e l'eroe meccanico ed anonimo dell'America che conosciamo, industriale e dollarogena. Dal conquistatore di praterie al conquistatore di mercati. L'uomo del cavallo "transustanzia" in quello del copertone (culo di gomma). Svanita la frontiera, dissodata e recintata la prateria, all'uomo del mito è preclusa oramai l'azione. L'età mitica è finita ma Bill, padre e figlio del pragmatismo americano, si adegua velocemente. E' lui stesso ad inaugurare quella del rito. La gloria della frontiera sarà d'ora in poi celebrata ritualmente, la mano passa alla letteratura, al cinema, al circo. Quando Bill firma il contratto per il circo "pace e bene a girare l'Europa" accetta non solo di farsi esportatore del mito americano ma di trasformarsi direttamente in sacerdote officiante. Terminato il momento primordiale dei "miracoli" giunge quello della predicazione, Bill erige la "sua chiesa". I "fedeli"/pubblico pagante accorreranno per vederlo catturare il bufalo o cavalcare eroicamente nello spazio circoscritto dall'arena del Circo Barnum. E' il Figlio della Prateria che va per il mondo a preannunciare l'Avvento (della Coca-Cola).

 

 

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una sera venni invitato alla RCA in un grande albego di Sabaudia dove c'era una riunione degli addetti alle vendite; una specie di festa del lavoro, se così si può dire, alla quale partecipavano vari artisti della RCA fra i quali appunto anch'io. Naturalmente la cosa finì tardissimo e io tornai a Roma verso le cinque del mattino e alle sette doveva passarmi a prendere Michele (Mondella) per andare insieme a Catania dove avevo una serata. Pensai che non valeva la pena mettersi a dormire per due ore e cominciai a scrivere questa canzone. Mi ricordo una stanza abbastanza grande con due finestre e addossato alla parete fra queste due finestre il pianoforte verticale. Allora mi misi lì a suonare e a scrivere questa canzone appuntando le parole su un foglio di carta e intanto faceva giorno piano piano e la luce entrava da queste due finestre a destra e a sinistra del pianoforte e pensai che quello fosse il miglior giorno stereofonico che avessi mai visto. E un po' perché sembrava proprio di stare sott'acqua, un po' perché quello era un raro, prezioso momento di solitudine, mi venne in mente di chiamare questa canzone "Atlantide". Più tardi in aereo feci leggere le parole a Mondella. Ormai era giorno fatto, il sole a quell'altezza scottava attraverso i finestrini. Sia io che Mondella avevamo dei grandi occhiali scuri ed eravamo morti di sonno e lui mi disse che ero matto.

 

 

Lui adesso vive ad Atlantide, con un cappello pieno di ricordi,
ha la faccia di uno che ha capito,

e anche un principio di tristezza in fondo all'anima.
Nasconde sotto il letto un barattolo di birra disperata,

e a volte ritiene di essere un eroe.
Lui adesso vive in California da sette anni

sotto una veranda ad aspettare le nuvole,
è diventato un grosso suonatore di chitarre

e stravede per una donna chiamata Lisa.
Quando le dice "tu sei quella con cui vivere"

gli si forma una ruga sulla guancia sinistra.
Lui adesso vive nel terzo raggio

dove ha imparato a non fare più domande del tipo:
"conoscete per caso una ragazza di Roma

la cui faccia ricorda il crollo di una diga?"
Io la conobbi un giorno ed imparai il suo nome

ma mi portò lontano il vizio dell'amore.


E così pensava l'uomo di passaggio

mentre volava alto nel cielo di Napoli,
rubatele pure i soldi, rubatele anche i ricordi

ma lasciatele per sempre la sua dolce curiosità.
Ditele che l'ho perduta quando l'ho capita,

ditele che la perdono per averla tradita

 

 

Atlantide è ovviamente un mondo scomparso o mai esistito, o solo un sogno d'infanzia o un concepir l'amore che fosse perfetta sintonia con la propria meraviglia di vivere: così non è stato. "Lui vive adesso in California, sotto una veranda ad aspettare le nuvole" e dice (dice) di stravedere per una certa Lisa. La verità è tutto l'esatto contrario, pur nella consapevolezza che "lei" è distrutta ("ha la faccia che ricorda il crollo di una diga"), perché il "vizio" dell'amore solo quella volta "lo portò lontano". È straordinario in "Atlantide" (mondo sommerso e perduto) la concessione che De Gregori fa ad un TOPOS della canzone letteraria: riferirsi a qualcuno, chiedere per interposta persona un messaggio alla donna che ha amato. Ma è straordinario anche come lo fa: due versi e niente più: "ditele che l'ho perduta quando l'ho capita / ditele che la perdono per averla tradita", due versi che sono due contraddizioni in termini per chi vive di norme. Ma a pensarci bene è così sempre e per quasi tutti. E Allora i versi suonano così: "Ditele che dopo aver vissuto per me stesso, e troppo, e oltre il limite, quando ho cominciato a capire lei non c'era più tempo" "Ditele che la comprendo, perché da egoista quale sono, ora solo ora la perdono, la comprendo per i miei atteggiamenti difensivi, nei momenti in cui con me stesso e la mia priorità l'avevo tradita". C'è un grande afflato in tutta "Atlantide" di riacquisizione di sentimenti. Anche la tristezza che non era mai apparsa in nessuna canzone di De Gregori. C'è la retrospettiva che per la prima volta si fa sincera e povera, oltre la sopravvalutazione di se stesso e c'è amore, tra piccole polveri e briciole, ma tanto, tanto ripercorso. Tralascio l'ipersensibile "Stomp" "ultimo discorso registrato" bello, ma che non serve a dirci niente di nuovo sul nostro discorso. Roberto Vecchioni.

 

 

 

 

GIACCIO - "Le fabbriche di vedove", gli F-104 sono i protagonisti di "Disastro aereo sul Canale di Sicilia".

DE GREGORI - Eh! lo l'ho scritto prima dello scandalo Lockheed, vedo nel futuro, come si dice.

GIACCIO - Un altro elemento che forse hai messo inconsciamente è "Ginestre e Cemento " '

DE GREGORI - Pensavo a Portella delle Ginestre. Anzi addirittura ho tentato di fare una strofa su Portella, ma poi l’ho levata perchè non stava bene con il testo.

GIACCIO - E il "cemento"?

DE GREGORI - lo mi ricordo certe foto di Palermo, con queste case con i supporti di cemento armato.

GIACCIO - Sì, quelle sospese...

DE GREGORI - Quelle sospese sulla sabbia.

GIACCIO - Poi "la tomba di un giornalista": Mauro De Mauro.

ROMANO - Questa canzone è abbastanza atipica per un sacco di motivi, ma forse quello che risulta più immediato è che in questa canzone è già tutto detto dall'inizio, in una premessa quasi da telegiornale. Poi il resto è solo la descrizione dí una cosa che sappiamo già avvenuta. Musicalmente è invece molto tradizionaIe; c'è questo coro, questa melodia molto mediterranea che in modo cinematografico si riallaccia alla storia. Tu usi due lingaggi completamente contrari uno dall'altro. La musica è molto ruffiana.

DE GREGORI - Non c'è calcolo di base. lo quando vado in studio la canzone l'ho scritta e provata solo sul pianoforte. Quindi ha una incastellatura molto scarna, ci sono tre accordi soltanto in questa canzone. Tutta questa musica che c'è dietro al coro in prova la faccio io con la voce; quando poi la realizzo devo tener presente che mi rivolgo ad un pubblico che ha le orecchie più che altro per sentire e siccome ho la fortuna di avere a disposizione dei mezzi che mi permettono di dargli una musica piacevole, la devo fare, visto che non ho scelto la strada dello sperimentalismo musicale; quindi cerco di fare delle cose al limite della gradevolezza senza limitarmi a livelli standard. Questa è la mia strategia dell’arrangiamento di una canzone.

GIACCIO - Da che cosa nasce questa canzone?

DE GREGORI - Da un articolo letto su "Lotta continua". L'articolo era fatto molto bene in prima pagina, e diceva che noi spendiamo non so quanti miliardi l'anno per la difesa, che alcuni di questi miliardi sono stati spesi per comprare questo tipo di aerei che cadono sempre, questo mentre in Italia i problemi gravi sono altri. Questi soldi vengono spesi per la difesa, la nostra difesa è in funzione di quella Atlantica, e perchè è tanto importante la nostra difesa in questo momento? Perchè dopo la caduta dei regime dei Colonnelli greci, dopo la morte di Franco, in Europa oltre la Turchia siamo rimasti noi a tenere a bada la situazione in Medio Oriente.

ROMANO Quindi in "prima posizione".

GIACCIO - Tu leggi Lotta continua tutti i giorni?

DE GREGORI - Sono abbonato a “Lotta continua" ma non leggo solo questo giornale leggo anche "L'Unità", “Il Messaggero", 'Il Corriere della Sera"; leggo "Lotta continua" quando ce la faccio, molte volte non leggo niente.

GIACCIO - Non leggi quindi "Il Manifesto" o "Il quotidiano dei lavoratori"?

DE GREGORI - No, dei vari gruppi extraparlamentari che esistono, penso che "Lotta continua" sia quello più vicino alle mie posizioni.

GIACCIO - Perchè oggi è più vicino al PCI?

DE GREGORI - Non è vero che oggi sia vicino al PCI; se tu riesci un attimo a non leggerlo da rivoluzionario militante, è un giornale che ti informa abbastanza bene su certe cose, come invece non ti informa il giornale del Partito.

da FRANCESCO DE GREGORI, UN MITO di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi - Edizioni Lato Side – 1980

 

 

 

 

Canzone di situazioni suggerite, di imput buttati là a partire dal grande coro iniziale che magnifica una storia apparentemente piccola. Il giovane pilota americano di stanza a Verona è l'esatto corrispondente del "giovane esploratore Tobia", non sa quel che fa, ma lo fa. Canzone senza definizioni definitive (tutti sanno tutto dell'inizio, nessuno niente della fine), canzone di verità mafio-papali-americane buttate là ("solo la tomba di un giornalista ancora difficile da ritrovare"): misteri inespressi e impossibili da risolvere, ma così, così lontani dal Bufalo e dalla sua casa nella prateria. Lunghissimo, insolubile, spettrale e limpido come un ricordo che torna e fa male anche se non lo vuoi ammettere: lui una terza persona per non farsi male, lui che ha imparato ad amare di nuovo, ma di nuovo non si può anche se si deve. Roberto Vecchioni.

 

Risulta per altro evidente, anche nel clima della distensione
che un eventuale attacco ai paesi arabi vede l'Italia in prima posizione.
Tutto sanno tutto dell'inizio, ma nessuno può parlare della fine.
E questa è la storia dell'aereo perduto al largo delle coste tunisine.
La fabbrica di vedove volava a diecimila metri sulla terra siciliana,
il pilota controllava l'orizzonte, la visibilità era buona.
Il pilota era un giovane ragazzo americano ma faceva il soldato a Verona.
E dieci chilometri sotto ginestre e cemento a due passi dal mare,
e case popolari costruite sulla sabbia, nient'altro da segnalare.
Solo la tomba di un giornalista ancora difficile da ritrovare.
E la fabbrica di vedove volava, sola come un uccello da rapina,
il mare era una tavola azzurra ormai, l'Africa era già più vicina.
Nel cielo soltanto una striscia di neve bianca, bianca di carta velina.

 

Mercoledi 16 settembre 1970. Sono da poco passate le 21.Mauro De Mauro é un cronista del quotidiano l'Ora di Palermo. Sta lavorando da mesi alla sceneggiatura del film "Il caso Mattei" del regista Francesco Rosi. De Mauro sta per rientrare nella sua abitazione di via delle Magnolie, in un quartiere residenziale del capoluogo siciliano. Una delle sue figlie vede tre uomini salire sulla Bmw del giornalista. Il guidatore accelera in modo brusco, poi si allontana ad alta velocità.

 

 

A un chilometro da via delle Magnolie viene ritrovata la vettura di Mauro De Mauro. Gli investigatori frugano nella Bmw e in uno scomparto interno recuperano degli appunti relativi ad una speculazione edilizia. Ora le inchieste e i servizi di Mauro attraggono l'attenzione degli investigatori. Nel tentativo di trovare la pista giusta che porti al suoi rapitori, si ricostruisce la sua personalità.

Qualcosa di grosso. Poco prima di sparire, Mauro De Mauro indaga sugli ultimi due giorni di vita del Presidente dell'Eni Enrico Mattei. Lo riferisce all'editore e libraio Fausto Fiaccovio, lo confida a un'amica, ne accenna alla figlia Junia, ne parla con il collega dell'Ansa Lucio Galluzzo a cui dice che si sta occupando "di un soggetto per un film di Francesco Rosi". E poi aggiunge: "E' roba da far tremare l'Italia".

Elda De Mauro, la moglie di Mauro intanto non si da pace. Mauro non ritorna a casa e a diciassette giorni dal suo rapimento ricorda un fatto lontano nel tempo, un particolare mai rivelato..... Alle indagini si interessano tre investigatori, tutti uccisi tra il 1979 e il 1982: il capitano dei carabinieri Giuseppe Russo, il commissario della mobile Boris Giuliano e il comandante della legione dell'Arma Carlo Alberto dalla Chiesa. Le piste sono comunque divergenti. Secondo i carabinieri, De Mauro avrebbe scoperto un traffico di droga internazionale e per questo sarebbe stato eliminato dalla mafia. L'ipotesi viene sostenuta dal pentito Gaspare Mutolo, secondo cui De Mauro venne strangolato da killer di Stefano Bontate, il capo della "mafia perdente",

La polizia punta dritta alla "pista Mattei". Il cassetto della sua scrivania nella redazione dell'Ora di Palermo risulta forzato. Non si trovano più nastri magnetici, dal bloc-notes con gli appunti sono state strappate due pagine e mancano anche altri fogli più recenti che riguardano gli incontri avuti nella preparazione della sceneggiatura del film "Il caso Mattei" di Francesco Rosi. C'è un sospetto forte, un'ipotesi che non sarà mai approfondita. In quel nastro e in quei fogli potrebbe esserci la soluzione di due gialli: la morte di Enrico Mattei e la scomparsa di Mauro De Mauro.

Il caso De Mauro non è ancora chiuso. Il pubblico ministero di Palermo Giusto Sciacchitano propone l'archiviazione dell'inchiesta ma il giudice istruttore dello stesso tribunale, Giacomo Conte, l'8 aprile 1991, chiede alla Procura un supplemento di indagine:vuole appurare "il ruolo della mafia e i suoi collegamenti con i poteri occulti, l'estremismo di destra, i servizi segreti e la massoneria". Secondo il giudice palermitano, "ci sono elementi di prova che portano a Giuseppe Di Cristina e Giuseppe Calderone quali autori del sequestro De Mauro nell'ipotesi che il sequestro sia stato fatto da qualcuno per bloccare l'inchiesta dei giornalista sulla fine di Mattei".

Sul "caso De Mauro" il pentito Tommaso Buscetta si rivolge al giudice Giovanni Falcone: "Della morte dei giornalista Mauro De Mauro non so nulla. Non è faccenda di mafia. Quando ne parlavo con i miei interlocutori, questi sembravano stupiti. Ho sentito dire in giro che la sua scomparsa è legata alla morte di un noto politico italiano, credo che si chiamasse Enrico Mattei".

Il punto centrale della morte di Mauro De Mauro resta l'incarico che il regista Francesco Rosi gli offre: la sceneggiatura del film "Il Caso Mattei". E' lì che si concentra il buco nero della sua sparizione. Cosa poteva avere scoperto De Mauro sugli ultimi giorni di vita del Presidente dell'Eni, Enrico Mattei?

 

 

UN CANTANTE DIFFICILE (Il Monello N. 47 del 23/11/1976)

Ventiquattro anni, romano de roma, Francesco De Gregori è oggi considerato uno tra i nostri più giovani e validi cantautori. I suoi motivi, ispirati alle emozioni più vere e più belle, trattano l\'amore in chiave moderna, anticonformista. Francesco, quando ha iniziato a cantare, aveva poco più di quattordici anni. Più tardi, in coppia con Antonello Venditti, altro noto cantautore romano, ha omposto un 33 giri che però ha imposto al pubblico in definitiva più Venditti che non De Gregori. Tuttavia, anche per lui il successo non si è fatto aspettare troppo. Con la canzone "Alice", un pezzo melodico, un po\' surrealista, Francesco De Gregori si è rivelato per quel che valeva.

Ma vediamo un po\' di capire che tipo è Francesco, visto che nell\'ambiente musicale gode fama di essere un personaggio "difficile", di avere un carattere sicuramente non malleabile. Francesco, dicono che sei scorbutico, che non ti va mai di parlare, soprattutto con i giornalisti. Perché? Scorbutico io? Macché scorbutico! Timido, piuttosto. E, come succede spesso ai timidi, un po\' aggressivo. Per via del solito timore di venire aggredito per primo. Quanto ai giornalisti, è vero, salvo rarissime eccezioni, non parlo con loro, perché tanto ti fanno parlare e poi scrivono cose che tu non ti sei mai sognato di raccontare. Mi dispiace. Come sei arrivato alla canzone? Insolitamente. Fu la tragedia di Luigi Tenco, in un certo senso, a spingermi su questa strada. Tenco se ne andò da questo mondo perché nessuno lo aveva capito. Così, mi dissi che era giusto cercare di portare avanti il suo disco e così, di punto in bianco, decisi di imbracciare la chitarra e cantare. Prima di allora avevi mai studiato musica? Assolutamente no. Digiuno completo. Ho studiato lettere e mi piacerebbe laurearmi in storia contemporanea. Strimpellavo la chitarra, perché mio nonno, appassionatissimo di musica, me l\'aveva lasciata in eredità. Tuttavia, prima di allora, non sapevo proprio cosa fosse esattamente una nota. Mi sono messo d'impegno, ho imparato a suonare la chitarra in modo decente, poi a comporre musica e, infine, a scrivermi anche le parole. Quando vuoi veramente qualcosa, riesci quasi sempre a farla, a ottenerla. Il pubblico che ti segue e che compra i tuoi dischi da chi è formato principalmente? Dai giovani. Io scrivo per loro, e loro dimostrano di gradire, di apprezzare la mia musica, i miei testi. Nelle mie canzoni cerco sempre di affrontare temi e problemi quotidiani. La poesia è anche e soprattutto nella realtà delle cose di tutti i giorni. Tu sei molto restio a parlare di te, della tua vita privata. Non credi che il pubblico abbia il diritto di sapere tutto di te? No, non sono d'accordo! La mia vita è la mia vita e, come tale, rimane e deve rimanere mia. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. Inoltre, io non credo che alla gente interessino tante cretinate, parliamoci chiaro. Storie di mogli, amanti e fidanzate. Al pubblico interessa, io penso, quello che dico con la mia musica. Una domanda facile facile: ti interessa il matrimonio? Non sono tagliato per il matrimonio. Fine del discorso. Credi nell'amicizia? Hai degli amici nell'ambiente della canzone? Per natura, sono un inguaribile ottimista. Uno di quelli che crede ancora nella gente, nella possibilità concreta di avere e poter dare dell'amicizia. Non possiamo vivere soli, isolarci, escludere un contatto,un dialogo. Non possiamo farlo, anche a costo di delusioni, di amare delusioni. Io qualche amico ce l'ho, ce l'ho anche nel mio ambiente.Tanto per fare dei nomi: Fabrizio De André e Lucio Dalla. Francesco, tu sei bravo, d'accordo, però non sei l'unico. Ci sono anche Cocciante, Baglioni, Venditti... Li consideri dei rivali? Questo è un tipo di discorso che non mi piace. E' sterile, trovo. Non mi piacciono i paragoni e detesto la parola rivalità. Ognuno di noi, vale per quello che ha dentro, quello che ha da dire. Non considero mai gli altri sotto questo profilo. Tu hai una vera e propria idiosincrasia per i festival e per tutte le manifestazioni musicali in genere. Come mai? Le ritengo terribilmente superate e maledettamante inutili! Sono del parere che se una canzone è bella, non ha bisogno di alcuna pubblicità per \"volare\". Però, hai partecipato a una edizione del "Disco per l'estate"... Allora, era l'unico sistema per riuscire a fare ascoltare una mia canzone alla radio. Mi servì moltissimo, ma da qui ad arrivare ad accusarmi di incoerenza ne corre. Del resto, Machiavelli diceva: "Il fine giustifica i mezzi..." Che effetto ti fa il successo? Non esageriamo. Il mio successo è ancora e fortunatamente circoscrivibile. Il successo, poi, è qualcosa di molto impalpabile, indefinibile. Non mi adagio mai su questi pensieri. Li trovo pericolosi e poco costruttivi. Non faccio quello che faccio per avere successo, ma solo per avere la stima e l'affetto del pubblico. E se non avessi fatto il cantautore? Avrei fatto il maestro elementare. Adoro i bambini. Mi affascina la loro intelligenza viva, genuina. Mi interessa dialogare con loro. Sono gli uomini di domani, di sempre. Nella vita, ciscuno di noi ha degli affetti. Grandi e piccoli. Tu ne hai? Certamente. L'affetto più grande, quello più vero è mia madre. E' una donna sensibile e meravigliosa. Se sono riuscito a combinare qualcosa di buono, lo devo anche a lei. Per il resto... Beh, per il resto, sono cose mie. Puoi dirci dove vivi e con chi vivi? Insistiamo, eh? Va bene, farò uno strappo alla regola e vi racconterò qualcosa, qualcosina. Abito da solo in un piccolo appartamento a Trastevere. Roma è la mia città e qui, nel cuore di Roma, trovo l'ispirazione. I tuoi programmi più immediati? Ho appena finito di registrare per la tv uno "special" che andrà in onda prossimamente sulla rete due. Spero sia l\'occasione giusta per farmi conoscere dal grande pubblico. Nel corso di questo show, presento canzoni vecchie e nuove del mio repertorio, un quadro abbastanza preciso ed esauriente di come sono musicalmente. Sempre in questi giorni sto lavorando intorno al mio ultimo 33 giri, al quale sono legati alcuni momenti importanti della mia vita. Cosa ti aspetti, Francesco? Capire la gente. Essere capito.

 

   

 

Stando alla RCA mi è capitato di parlare di Tenco e ognuno mi ha detto la sua idea sul perchè si fosse sparato. C'è stato chi ha detto che aveva debiti di gioco, chi ha detto che era sfortunato con le donne, chi ha detto che beveva whisky sopra i tranquillanti e si drogava in quel modo ed era in uno stato ipnotico quando si è sparato; nessuno però ha detto che si è sparato perchè non stava bene a Sanremo, che forse è l'unica ragione. Quando ha saputo di essere stato eliminato si è alzato, ha cominciato ad inveire a destra e a manca e poi è andato via e si è ucciso. La mattina dopo lo hanno portato lontano da Sanremo perchè nessuno doveva vederlo.  Per evitare che i giornalisti se ne andassero dal festival e andassero a vedere il funerale di Tenco. Comunque non è una canzone sul suicidio di Tenco ma sul ruolo di Tenco. La canzone è sulla televisione e sui nemici storici di quelli che fanno canzoni e non vengono capiti. E sono gli stessi poi a cui dietro il palco sudano gli occhi invece di piangere, quelli che alla televisione dicono va bene però andiamo avanti, sono i cantanti che il giorno dopo vanno sul palco a cantare tranquilli e fanno la parte delle marionette perchè nessuno poteva essere allegro lì. Però il giorno dopo cantavano tutti per andare in finale. E' questo mondo spaventoso di Ariccia, Castrocaro: un mondo che nel '66 era un mondo vero, esisteva, c'era solo quello e chi non era di quel mondo era emarginato. Anche Paoli nella sua vita ha episodi simili a quelli di Tenco, di solitudine, di sfiducia, di crisi; anche De André era un isolato, non si faceva vedere...

Forse sembriamo diversi, i festival sono crollati, ma esistono le Hit parade. 

Tenco è vittima di un'industria, di un ingranaggio; c'è la vittima Tenco e c'è la vittima Pasqualino che va con tanta fiducia da Siracusa ad Ariccia e il viaggio gli costa cinquantamila lire e viene scartato perchè canta male e tutti sapevano fin dall'inizio che avrebbe cantato male e anche se avesse cantato bene non sarebbe cambiato niente, e gli hanno rubato cinquantamila lire, e se ne torna a casa infelice, frustrato e con cinquantamila lire di meno, pronto ad emigrare nel secondo reparto Celere... è il mondo di quegli anni che andava così, e Tenco è il momento di contraddizione. Tenco non è un personaggio vincente, non è una persona che ha agito bene, e io non ho voluto fare una canzone per difenderlo, ho voluto parlare di Tenco perchè è esistito. Oggi, o non se ne parla mai o si fanno delle commemorazioni macabre..

 

E' la città dei fiori, disse chi lo vide passare, che forse aveva bevuto troppo, ma per lui era normale.
Qualcuno pensò fu problema di donne, un altro disse, proprio quasi come Marylin Monroe.
Lo portarono via in duecento,
peccato fosse solo quando se ne andò.
La notte che presero il vino e ci lavarono la strada. Chi ha ucciso quel giovane angelo che girava senza spada?
E l'uomo della televisione disse: "Nessuna lacrima vada sprecata,

 in fin dei conti cosa c'è di più bello della vita, la primavera è quasi cominciata".
Qualcuno ricordò che aveva dei debiti, mormorò sotto banco che quello era il motivo.
Era pieno di tranquillanti, ma non era un ragazzo cattivo.
La notte che presero le sue mani e le usarono per un applauso più forte.
Chi ha ucciso il piccolo principe che non credeva nella morte?
E lontano, lontano si può dire di tutto, non che il silenzio non sia stato osservato.
L'inviato della pagina musicale scrisse "tutto è stato pagato".
Si ritrovarono dietro il palco, con gli occhi sudati e le mani in tasca.
Tutti dicevano: "io ero stato suo padre", purché lo spettacolo non finisca.
La notte che tutti andarono a cena e canticchiarono la "Vie en rose"
chi ha ucciso, il figlio della portiera, che aveva fretta, che non si fermò?
E così fu la fine del gioco, con gli amici venuti da lontano.
a deporre una rosa sulla cronaca nera, a chiudere un occhio, a stringere una mano.
Alcuni lo ricordano ancora, mentre accende una sigaretta,
altri ne hanno fatto un monumento per dimenticare un po' più in fretta.
La notte che presero il vino e ci lavarono la strada, chi ha ucciso quel giovane angelo,
che girava senza spada?

 

 L'altro stomp "Festival" è di una chiarezza disarmante, di un vai e vieni di oleografie obbligatorie precise e scioccanti: tutto un mondo di fans, stars,  media, profittatori, intriganti, amici dell'ultimo momento, moralisti, buffoni perbenisti, creatori di scandali finti da copertina dei giornali a vendita inverosimile. La morte di Luigi Tenco vista come un "affaire" pubblicitario, pseudosociale, pseudopsichiatrico, quando la verità parla solo di un "giovane angelo che girava senza spada", un ingenuo, un puro senza armi da opporre ad un mondo scafato e coinvolgente, cinico e fuorviante. De Gregori li mette in fila tutti: quelli che si appropriano di una pietà mediatica ("lo ortarono via in duecento, peccato solo quando se ne andò"), quelli che costruiscono la pietà ("e l'uomo della televisione disse, nessuna lacrima vada sprecata"), quelli che cianciano di motivi e cause per giustificare il suicidio ("aveva dei debiti", "era pieno di tranquillanti", però "non era un ragazzo cattivo" (?)), quelli che ne fecero epoca e mito ("l'inviato della pagina musicale scrisse: TUTTO è STATO PAGATO), quelli che dopo averlo convinto ad esibirsi a Sanremo tra lacrime false balbettano "io sono stato suo padre", e quelli infine che lo hanno eletto, lo hanno innalzato a chissà quale simbolo "per dimenticare un po' più in fretta". In questa serie di ruffiani, falsificatori, critici illusi, cialtroni c'è tutta l'umanità di un compromesso, del non aver capito che niente, niente di tutto ciò aveva determinato la fine di Tenco. E che la fine di Tenco non si poteva nemmeno lontanamente accostare ad un fallimento pubblico, ad un inganno pseudo-popolare come Sanremo. La fine di Tenco era in lui e nella disperazione di essere arrivato prima del tempo, di aver sbattuto sulla disattenzione morale ed esistenziale di spettatori mal preparati dai "media". E di "media" mediocri, piccini, leccaculo, noncuranti nei riguardi di una canzone che c'era già e loro pretendevano inutile o di poco conto nel panorama tranquillizzante della musica italiana. De Gregori fa di "Festival" una canzone d'accusa totale, prima che di pietà. Smette la veste lirica per scendere all'invettiva e in questo si differenzia dallo stesso tema trattato da De Andrè (Preghiera in gennaio). Roberto Vecchioni.

 

 

 

 

ROMANO - Parliamo di' "Festival", che mi sembra abbastanza chiaramente riferita a Luigi Tenco.

DE GREGORI - Stando alla RCA mi è capitato di parlare di Tenco e ognuno mi ha detto la sua idea sul perchè si fosse sparato. C'è stato chi ha detto che aveva debiti di gioco, chi ha detto che era sfortunato con le donne, chi ha detto che beveva whisky sopra i tranquillanti e si drogava in quel modo ed era in uno stato ipnotico quando si è sparato; nessuno però ha detto che si è sparato perchè non stava bene a Sanremo, che forse è l'unica ragione. Quando ha saputo di essere stato eliminato si è alzato, ha cominciato ad inveire a destra e a manca e poi è andato via e si è ucciso.

GIACCIO - E poi la mattina dopo?

DE GREGORI - Lo hanno portato lontano da Sanremo perchè nessuno doveva vederlo.

GIACCIO - Per non rovinare l'atmosfera del festival.

DE GREGORI - Suppongo che fosse per questo, non lo so. Per evitare che i giornalisti se ne andassero dal festival e andassero a vedere il funerale di Tenco. Comunque non è una canzone sul suicidio di Tenco ma sul ruolo di Tenco. La canzone è sulla televisione e sui nemici storici di quelli che fanno canzoni e non vengono capiti. E sono gli stessi poi a cui dietro il palco sudano gli occhi invece di piangere, quelli che alla televisione dicono va bene però andiamo avanti, sono i cantanti che il giorno dopo vanno sul palco a cantare tranquilli e fanno la parte delle marionette perchè nessuno poteva essere allegro lì. Però il giorno dopo cantavano tutti per andare in finale. E' questo mondo spaventoso di Ariccia, Castrocaro: un mondo che nel '66 era un mondo vero, esisteva, c'era solo quello e chi non era di quel mondo era emarginato. Anche Paoli nella sua vita ha episodi simili a quelli di Tenco, di solitudine, di sfiducia, di crisi; anche De André era un isolato, non si faceva vedere...

GIACCIO - Oggi però queste manifestazioni non hanno quasi più valore sul piano del costume.

DE GREGORI - Forse sembriamo diversi, i festival sono crollati, ma esistono le Hit parade.

GIACCIO - C'è anche un pubblico che prima quasi non esisteva, un pubblico presente, militante, chiamalo come vuoi...

DE GREGORI - Non sono d'accordo su questo, esiste un pubblico drogato esattamente corne prima, che odia le novità, le cose diverse... e c'è un'industrìa. Tenco è vittima di un'industria, di un ingranaggio; c'è la vittima Tenco e c'è la vittima Pasqualino che va con tanta fiducia da Siracusa ad Ariccia e il viaggio gli costa cinquantamila lire e viene scartato perchè canta male e tutti sapevano fin dall'inizio che avrebbe cantato male e anche se avesse cantato bene non sarebbe cambiato niente, e gli hanno rubato cinquantamila lire, e se ne torna a casa infelice, frustrato e con cinquantamila lire di meno, pronto ad emigrare nel secondo reparto Celere... è il mondo di quegli anni che andava così, e Tenco è il momento di contraddizione. Tenco non è un personaggio vincente, non è una persona che ha agito bene, e io non ho voluto fare una canzone per difenderlo, ho voluto parlare di Tenco perchè è esistito. Oggi, o non se ne parla mai o si fanno delle commemorazioni macabre.

da FRANCESCO DE GREGORI, UN MITO di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi - Edizioni Lato Side – 1980

 

 

 

 

 

Gino Paoli e i jazzisti italiani rendono omaggio a Luigi Tenco

Annunciata una serata a Roma per il quarantennale della morte dell'artista

18-01-2007 - Si terrà martedì 23 gennaio, alle 21:00 nella Sala Sinopoli dell'Auditorium di Roma, una serata omaggio alla memoria di Luigi Tenco, il grande cantautore di cui ricorre il quarantennale della drammatica morte, avvenuta a Sanremo tra il 26 e il 27 gennaio 1967. Sul palco dell'Auditorium si esibiranno Gino Paoli, affiancato da jazzisti come Danilo Rea, Rosario Bonaccorso e Roberto Gatto, e Ada Montellanico, con l'accompagnamento di Enrico Pierannunzi. Le due formazioni si alterneranno nell'esecuzione dei brani più amati ma anche di alcune rarità del repertorio di Luigi Tenco. Ad offrire la loro testimonianza saranno ospiti come Renzo Arbore, Enrico De Angelis, Aldo Fegatelli Colonna, Mimma Gaspari, Giancarlo Governi e Pietro Vivarelli. Una vicenda drammatica quella di Tenco che si spera abbia trovato una conclusione a seguito della recente autopsia che ha definitivamente sancito la morte per suicidio. Un omaggio alle canzoni di Tenco è stato annunciato anche al Festival di Sanremo. Pippo Baudo diresse per la prima volta il festival nel 1968, l'anno dopo la morte del cantautore.

Da "Il Tempo", venerdì 10 febbraio 1967.

Luigi Tenco ha voluto colpire a sangue il sonno mentale dell'italiano medio

Tornare su un fatto di cronaca alla distanza di due giorni è già fastidioso per il lettore di quotidiani, ma insistere su qualcosa che è avvenuto due settimane prima è forse imperdonabile.
Oggi la morte, le alluvioni, le guerre sono spinte da altre catastrofi o da occasioni mondane nel breve corso di 24 ore.
Ma non siamo qui per fare della morale sulle leggi e sui costumi della nostra civiltà, diciamo invece che la noia è la minaccia che fa ingiallire i volti amati o odiati di ieri.
Eppure vogliamo parlarvi ancora di Luigi Tenco, cantautore, che per un giorno si è conquistato con la morte tanta notorietà come non era mai riuscito da vivo con le sue canzoni. Diciamo per un giorno, perché la gente ha preferito poi dimenticarlo in fretta, quasi per un senso di omertà come sempre avviene quando ci si sente in un certo senso colpevoli, coinvolti. E non siamo forse un po' tutti responsabili dell'atto estremo del cantante, noi che esaltiamo e sopportiamo il carosello del festival, da anni, senza esigere nemmeno un livello minimo di intelligenza nei contenuti delle canzoni?
La gente ha pianto la sua giovinezza, il mito del suicida che è caro al pubblico fin dai tempi dei cantastorie e del melodramma. E subito c'è stato chi ha detto: "Oggi i giovani si uccidono per una canzone! Sono dei deboli, ai miei tempi non si faceva così". Già, il suicidio è un atto di presunzione, un atto di viltà. E allora il suicidio, la sua tremenda soluzione finale, ha attirato su Luigi Tenco una condanna: quella che per lui doveva essere una specie di lezione morale non è stata che una conferma della sua fragilità.
Prendeva i tranquillanti, dicono: perché, domandiamo noi? Perché nei suoi occhi mentre cantava l'ultima canzone c'era la cupa angoscia che tutti abbiamo visto?
Si potrebbe rispondere che i giovani vanno dove noi li lasciamo andare indicando loro la strada con tanto di frecce, manifesti, cartelli. I giovani e in questo caso i cantanti, i divi, sono esseri viventi e non prodotti da lanciare sul mercato e da gettare via quando i gusti dei consumatori reclamano una nuova etichetta. Così avviene nel mondo dello spettacolo e soprattutto oggi in quello dell'industria discografica che va forte, a giri di miliardi. Chi è furbo capisce che le qualità sono difetti agli occhi del pubblico e che solo ciò che è generico e non agita le opinioni dei benpensanti va bene, è lecito. I capelloni, i beat, i folk e i canti di protesta sono accolti purché non superino l'avanguardia rivoluzionaria della Vispa Teresa. Luigi Tenco ha voluto colpire a sangue il sonno mentale dell'italiano medio. La sua ribellione che coincideva con una situazione personale di uomo arrivato alla resa dei conti con la carriera, ha però ancora una volta urtato contro il muro dell'ottusità. Chi non è in grado di domandare un minimo di intelligenza a una canzone non può certo capire una morte.
Il risultato del festival ha reso ancora più stridente il contrasto tra la reazione delle giurie e l'impegno che Luigi Tenco aveva sperato di richiamare con la violenza contro se stesso.
Perciò pensiamo che pochi lo abbiano capito e per questo non vogliamo dimenticare il suicidio di Luigi Tenco che va al di là di ogni sdrucciolevole simbolismo beat.

Salvatore Quasimodo

 

Ciao Luigi,

le cose qui non sono cambiate, anzi il mondo fuori dalle canzoni sta pure peggiorando!

Tu, però, hai smosso davvero tante coscienze, purtroppo solo nelle menti degli autori di canzoni o rari pensatori, che magari spesso non riescono o non vogliono gettarsi nella mischia mediatica che ci sta fagocitando tutti.

Ah sapessi che esibizionismi, che progressi, che telefonini senza fili, che immagini nelle case, nelle scuole, nel privato... l'era dell'apparire a tutti i costi ha preso il sopravvento, e non proprio in un tempo "Lontano lontano" dalla tua esistenza. Per sentire un po’ di realtà, ormai, non ci resta che il telegiornale: ma che brutte notizie!

Personalmente non sono e non voglio allenarmi per stare al passo coi tempi, e se ci provo... mi viene il fiatone!

Dalla tua morte tanto si è detto e scritto su di te. Risuonano ancora attuali, e implacabili, le parole di Quasimodo: "Luigi Tenco ha voluto colpire a sangue il sonno mentale dell'italiano medio. La sua ribellione, che coincideva con una situazione personale di uomo arrivato alla resa dei conti con la carriera, ha però ancora una volta urtato contro il muro dell'ottusità. CHI NON È IN GRADO DI DOMANDARE UN MINIMO DI INTELLIGENZA AD UNA CANZONE NON PUÒ CERTO CAPIRE UNA MORTE."

Lo sai? Io che in "Canzone Semplice" ho scritto "io mi sconfortavo se non producevo, e negli occhi mi viaggiava un velo di noiezza" e ancora "alzo il volume della vita, perché la Vita è un'altra cosa e una canzone non lo sa"... anche ricordandomi di te... non voglio più sconfortarmi e, nel tentativo di capire la tua morte, continuerò per la mia strada, chiedendo sempre un minimo di intelligenza... almeno alla canzone.

Ciao Luigi.

Aida Satta Flores

Palermo, 27 gennaio 2007

Domani uscirà un nuovo libro dedicato alla figura di Luigi Tenco
Un Luigi Tenco inedito, grande conquistatore di donne e musicista di talento, che aveva capito che la formula della canzone d'autore era già vecchia e che voleva fare musica nuova, dischi nuovi: è quanto viene rivelato nel libro ''Ed ora che avrei mille cose da fare'' (ed. Arcana) di Renato Tortarolo e Giorgio Carozzi (cugino di Tenco), in uscita il 23 gennaio, a quattro giorni dal quarantennale della scomparsa del cantautore. "Tenco era di una bellezza incredibile, un uomo di una straordinaria modernità - spiega Tortarolo, giornalista del Secolo XIX - Abbiamo di lui un'immagine triste. Ma Tenco era un rivoluzionario per la sua epoca, sotto molti punti di vista". L'autore ha raccolto numerose testimonianze, da Claudio Baglioni a Renato Zero, da Enzo Jannacci a Gino Paoli. "Tutti mi hanno detto che era uomo che si innamorava di qualsiasi idea con una passione indescrivibile".
Secondo Tortarolo, "l'assurdità di come Tenco è ricordato, compresa l'ultima nefanda inchiesta di due anni fa, quando è stata riesumata la salma. Carozzi scrive che Tenco era un rivoluzionario, faceva il Sessantotto nel '65. Per Tenco avere successo di per se' non era sbagliato, ma voleva poter dire la sua avendo successo. Come fa ora Bono. E' stato un antesignano. Lo dimostrano canzoni come Ciao Amore Ciao, nata con un tema dedicato alla guerra. Solo che il mitico Melis della Rca gli disse 'a Sanremo non ci andiamo con questo brano'". Il volume "finisce un attimo prima della rivoltellata. Tenco non è la pallottola e dopo - spiega Tortarolo - Tenco è prima".

ROMA, 21 GEN - Un Luigi Tenco inedito sara' rivelato nel libro 'Ed ora che avrei mille cose da fare' di Renato Tortarolo e Giorgio Carozzi . Il volume e' in uscita il 23 gennaio, a quattro giorni dal quarantennale della scomparsa del cantautore. Nel libro si parla del cantante come di un grande conquistatore di donne e musicista di talento, che aveva capito che la formula della canzone d'autore era gia' vecchia e che voleva fare musica nuova, dischi nuovi.

Da "La Stampa", martedì 31 gennaio 1967
Attesi invano i celebri divi della canzone

Non un collega ha seguito i funerali di Luigi Tenco

In una fredda mattina di nebbia, la salma del cantautore è giunta a Ricaldone da Recco accompagnata dal fratello - I cantanti che la notte del suicidio avevano pianto, urlato e imprecato, sono rimasti a dormire: non hanno inviato neppure un fiore - Il mesto corteo è stato seguito da una folla di anonimi ammiratori.
UN MOMENTO DEL FUNERALE DI LUIGI TENCO
Cassine, lunedì matt. Nessuno dei celebri cantanti è venuto al funerale dell'infelice collega Luigi Tenco, e non è venuta nessuna cantante. Nessuno di loro ha mandato un fiore. Ecco il finale impietoso di una tragedia amarissima.
Impietoso e sorprendente. Perchè, dopo quanto era accaduto nella notte sul 27 gennaio e il mattino seguente, era facile immaginare una folla mesta e commossa di cantanti dietro il feretro di Tenco. Quella notte e il mattino seguente c'erano stati pianti, urla, svenimenti. L'isterico grido: "Assassini, lo avete ucciso". Gente sbigottita, affranta, furibonda. E seriamente alcuni avevano proposto di sospendere il Festival.
Poche volte si era vista tanta partecipazione ad un evento luttuoso. Ma alle otto del mattino la salma di Tenco era stata portata dalla porta della dipendenza dell'albergo, seguita dal fratello e da nessun altro. Poi, la commissione organizzativa aveva deciso: "Il festival di Sanremo proseguirà regolarmente fino alla sua conclusione. Il triste episodio avvenuto questa notte non deve influire sulla rassegna perchè così vuole la tradizione del mondo dello spettacolo".
Comunque la tradizione - se non la pietà - vuole anche che si segua il funerale di un collega. Ciò ieri non è avvenuto. Quando si è cercata una persona nota nel mondo dello spettacolo, si è trovato il cantautore De Andrè e la moglie di Gino Paoli, la quale era stata compagna di scuola di Tenco. C'erano le corone dell' "Ata" che organizza il Festival, e della "Rca", la casa discografica di Tenco, ma non c'erano corone nè mazzi di fiori di colleghi.
È un mattino di nebbia e di freddo. La salma del cantautore giunge da Recco accompagnata dal fratello e da altri familiari. Non hanno permesso alla madre di venire. L'altra domenica la donna è stata su fino alle due di notte a stirare per Luigi le camicie da portare a Sanremo, il figlio le aveva fatto compagnia. Egli le parlava dei suoi progetti, ma ogni tanto si rannuvolava, appariva nervoso: "Sai, mamma, non vado volentieri a Sanremo".
Adesso la sua salma è nella casa degli zii di Ricaldone, un paese tra le colline alle spalle di Acqui, dove egli è stato ragazzo. Nell'aia vi sono le corone dei parenti e una degli "Amici della leva di Ricaldone". Hanno visto Tenco l'ultima volta dieci, quindici anni fa, e forse lui non si ricordava più di parecchi di loro. Ma ora sono tutti qui con una corona e vogliono portare il feretro a spalla.
Cresce la folla: tutta la gente di Ricaldone e parecchi venuti dai paesi vicini. Ogni tanto arriva un'auto di Milano, di Genova, di Torino e vi si cerca il cantante famoso. "Impossibile che non venga nessuno", si dice. Non viene nessuno.
Alle 11 il funerale si muove, preceduto dal prevosto don Ighino, seguito da oltre duemila persone, che la chiesa di Ricaldone non contiene tutte. Dopo la Messa funebre, la salma viene portata alla tomba di famiglia. Il freddo è più intenso, la nebbia è aumentata. La folla si scioglie in silenzio. È stato un funerale come tanti altri di questi paesi. Non è venuto nessuno dei celebri cantanti, come se tutti avessero troppa fretta di dimenticare il colpo di pistola di venerdì notte. Luciano Curino

   

Tobia era un collaboratore di Lucio Dalla. Un tipo divertente. Ma la canzone non parla di lui, mi piaceva solo quel nome, e l'ho usato, tutto qui: il resto è una storia immaginata da me. Visto che comunque Tobia in qualche modo c'entrava feci ascoltare il pezzo a Dalla e lui mi diede qualche dritta sulla musica, come aveva fatto a suo tempo con Pablo
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

Giovane esploratore Tobia, quinci anni a settembre presso a poco un bambino,
scrive il suo nome nella grotta del bue Marino, con la sua strana calligrafia, giovane esploratore Tobia.
Giovane esploratore Tobia, nato da un padre d'acciaio e da una madre distratta,
alle spalle un'infanzia igienicamente perfetta: morbillo, tristezza e nessun'altra malattia,
giovane esploratore Tobia.
Giovane esploratore Tobia, parte per la gita scolastica e non sa che fare,
gira la testa e vede un vagone bruciare, tira l'allarme e salva la ferrovia, Giovane esploratore Tobia.

 

 

 

 

GIACCIO – Tu hai fatto il boy-scout? Te lo chiedo perchè Tobia, il protagonista di quest'altra canzone, è un giovane esploratore.

DE GREGORI - No, non l'ho fatto; Tobia" è un personaggio emblematico. Quello che fa paura dei giovani esploratori è l'inconcludenza; loro imparano ad accendere i fuochi.

GIACCIO - Non sei aggiornato, sono politicizzati.

DE GREGORI - lo ho emblematizzato il personaggio dello scout: per intenderci, lo scout che nelle barzellette deve fare la sua buona azione quotidiana. Chiedo scusa a tutti gli scout se ho preso la loro figura oleografica per parlare di un personaggio come Tobia. E se avessi approfittato invece delle Giovani Marmotte? Insomma, un conto è il Movimento scoutistico Internazionale analizzabile in termini storici e politici, un conto è l'immagine dello scout che io posso usare in una canzone. Ti giuro che certe volte io racconto le barzellette sulla tirchieria dei genovesi, ma lucidamente non sono disposto ad ammettere che i genovesi siano più tirchi dei romani. Bel casino, eh?

GIACCIO - E "Tobia"?

DE GREGORI - E' un personaggio sano, americano, continua il discorso sull'America come già in "Disastro aereo sul Canale di Sicilia" e in "Bufalo Bill". Questi sono tre momenti americani, con personaggi con tutti i denti a posto e che non sbagliano mai. Però "Tobia" è una persona che tutto sommato sogna, che ha grossi problemi alle spalle di infanzia pulita, precisa, sola, probabilmente nevrotica, che fa queste cose scontate. Ma in realtà volevo riferirmi a tutte quelle persone che vivono il marxismo in maniera cattolica, in maniera evangelica addirittura. Diciamo che è una canzone che io ho scritto dopo aver fatto dei discorsi con dei ragazzi che mi hanno sconvolto per la loro impreparazione e per la loro faciloneria nel definirsi di sinistra. Quando una persona mi dice “sono comunista” vorrei che mi portasse delle prove precise sui suo essere comunista, non solamente delle cose per sentito dire. Ho conosciuto persone che erano di sinistra per sentito dire e credo che siano pericolose perchè non si è mai di sinistra per tutta una vita in questa maniera, ci si può rimanere per due o tre anni, poi crollano certe cose; e inevitabilmente ci si trova senza un'ideología e quando a 18 - 20 anni si è costretti ad inventarsi un'ideologia da zero è molto facile che si diventi una persona disponibile, nel migliore dei casi al qualunquismo.

da FRANCESCO DE GREGORI, UN MITO di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi - Edizioni Lato Side – 1980

 

    

Secondo pezzo della facciata "lpercarmela". Bufalo Bill finisce con un accenno a "Bandiera rossa". In "Ipercarmela" un inciso di "Passion fiowers , versione ballabile di "Per Elisa".

"Ipercarmela" è vecchissima, fu scritta prima ancora che uscisse "Rimmel". E' la storia di due emigranti contenti che stanno a Torino e accettano la logica di Torino: il marito chiudendosi in cucina in questo mito della proprietà della sua casa; la donna accettando il ruolo di schiava e drogandosi di giornali femminili. Quindi due persone perdute dal punto di vista umano, in perfetta sincronia con la violenza della città che li ha accolti. E poi la nascita di questa bambina: nasce con dei buoni auspici, nasce come una stella, una cosa diversa, e sorride. Ride sempre, 'Ipercarmela' è una canzone ingenua, iperrealistica, una canzone in cui si vedono tutti i muscoli.

 

La cucina era vuota, il bicchiere a metà,

l'uomo guardava serio il muro,
e poi seguiva il fumo che saliva lento verso la lampadina.
La stagione era quasi finita, l'uomo pensava: "Questa è casa mia".
Nella stanza del letto la donna grassa e nervosa, guardava su un giornale a colori, la vita di una donna bionda,

famosa e ricca. "Con qualche anno in meno", pensò,

"qualche anno di meno, e lei somiglierebbe a me".
E il tempo passa come una colomba

sulla casa dell'uomo e della donna,
dentro una città pulita e violenta
la donna

partorì una stella e la chiamò Carmela!
Figlia di suo padre e sua madre, fiocco rosa da crescere in fretta.
Rideva quasi sempre, piangere, non piangeva mai.


 

 

 

 

Era un bel periodo. Il successo di Rimmel mi aveva reso comprensibilmente felice e sicuro di me. Avevo 24 anni, ero giovane, ero libero, la cosa che amavo di più era fare musica e avevo capito che mi riusciva bene, che poteva essere il mio mestiere. E questo non mi spaventava. Ero soddisfatto di me e nell'affrontare questo nuovo disco non avevo ansie o aspettative particolari, mi sentivo in grado di andare dove volevo, sperimentare nuovi suoni, ricominciare da capo. Erano cose che mi facevano sentire bene".

 

 

 

Carmela è una bambina nata dentro una città pulita e violenta, probabilmente la Torino operaia della fine degli anni Settanta (ma questo la canzone non lo dice, lo fa solo intuire).

È figlia del suo tempo difficile e tormentato, dove progettare il futuro era un privilegio per pochi. La super, o meglio l’iper bambina, figlia di un uomo che ha realizzato il piccolo e fondamentale sogno di una casa e di una donna che sogna sulle immagini dei fotoromanzi, è una meteora lanciata sul futuro. Il padre sembra uscito da "Rocco e i suoi fratelli", la madre è una Anna Magnani in bianco e nero. Sulla casa dell’uomo e della donna, sulla loro esistenza difficile, sui loro pensieri tormentati inseguiti lungo il filo di fumo di una sigaretta verso la luce della lampadina, cade come una stella un bambina col sorriso della vita che esplode. Carmela non piange mai, è l’apparizione che deflagra dentro lo scenario asfittico della vita quotidiana. .

A marcare la grandezza dell’evento è la musica che all’improvviso diventa sincopata e veloce, perché cambia il tempo. Carmela è il futuro che non ti aspetti più e che irrompe improvviso nella vita quotidiana di una coppia dall’esistenza identica a quella di milioni di persone partite da un paese del sud verso la città produttiva e operaia, dove comprarsi una casa è un traguardo inimmaginabile e capace di ribaltare il mondo. Carmela è iper proprio per questo, perché è capace di portare dentro la vita conosciuta la vita nuova. E di staccare dai muri la tristezza della vita conosciuta davanti a un bicchiere mezzo vuoto, dentro uno scenario da neorealismo cinematografico.

Giommaria Monti, autore di "Francesco De Gregori. Dell'amore e di altre canzoni" per 

https://www.rockol.it/news-735724/8-marzo-otto-donne-cantate-da-francesco-de-gregori

 

  

 

INGRANDIRE A COLORI LE IMMAGINI DELLA VITA


Francesco De Gregori - che in questi giorni compie venticinque anni - sta per pubblicare ilq uarto ellepì 'solo' della sua carriera intitolato "Le avventure di Bufalo Bill". Un microsolco con brani, in un certo senso molto più 'accessibili' dei precedenti. Il rapporto con suo fratello, il cantautore Luigi Grechi con Fabrizio De Andrè. Iniziata una lunga tournèe. Nuovo Sound del 2.4.1976 - di Susanna Suman

Non è, in assoluto, un luogo sublime per godere le sensazioni di una buona musica, ma quel lucido metallo zeppo di fredde manopole e inerti spie luminose è l'angusta trappola di tutte le canzoni che mani esperte trasformano in nastri e proprio lì, lontani da ogni distrazione, è giusto fare il primo ascolto di un prodotto che sta per nascere.
L'imputato era lì che si avvolgeva lentamente intorno al suo nucleo, diffondendo a tutto volume le note dei primi brani dei nuovo LP di Francesco De Gregori, sotto l'occhio vigile di chi mi aveva accompagnato, un po' per cortesia, un po' per cogliere le mìe reazioni. La posizione dei critico (osservato) è delicata, a volte imbarazzante e la freddezza, tutta tesa all'obìettività, salva ogni situazione. La fronte un po' aggrottata nella concentrazione, lo sguardo alla ricerca di un punto vuoto, ascolto.
... Che strano - mi sorprendo a dire un po' sovrappensiero - c'è qualcosa che mi fa pensare a Tenco...": e ricordo per un minuto quei tragici giorni con la mia interlocutrice, che mi guarda un po' incredula. E intanto ho dimenticato la voce di Francesco.
Chiedo scusa, e ricomincio ad ascoltare "Le avventure di Bufalo Bili", "Giovane esploratore Tobia", "lpercarmeia", "L'aereo perduto" e... non posso fare a meno di notare, di nuovo ad alta voce, che sento qualcosa, nel modo di porgere, di esprimere certe frasi, che mi ricorda un amico perduto quando ero ancora poco più che bambina, e che per questo non dimenticherò mai.
Mi guardano tutti un po' stranamente ancora per un attimo, poi si ricomincia, finché sento la voce di Francesco, più nitida e incisiva che mai, parlare di "riviera dei fiori" e di uno che "...dicono che aveva bevuto troppo....... due battute e capisco che avevo capito che Francesco non solo aveva capito, ma ci aveva fatto capire... mentre i miei "inquilini" di saletta non mi guardavano più strano.
Due minuti e mezzo, il tempo di ascoltare (si e no) "Ninetto" e una sciarpa di lana bianca, lunghissima, tra un cappotto e Francesco De Gregori appare sulla porta, preceduto da un sorriso luminoso e un po' timido.
Come può, mi domando guardandolo entrare, aver capito e colto tante cose che soltanto chi era a Sanremo quel 27 gennaio 1967 può aver sentito (e neanche tutti)? E mi dico che non è facile capire Francesco, nel suo burbero mondo, fatto di tenerezza e di indifesa aggressività, più forte di chi urla, quando parla calmo e in apparenza ironicamente distaccato, più profondo delle sue rapide immagini da collage, di chi scava lucidamente con parole chiare, ancora fino ad oggi vergine e in un certo senso incosciente della sua responsabilità di "voce" della nuova generazione.
FDG: "Non conoscevo Luigi Tenco (andavo ancora a scuola, a quell'epoca) ma come tanti ragazzi lo avevo visto in televisione, quella sera, e mi aveva fortemente impressionato la sua faccia, mi aveva turbato: così ho raccolto testimonianze, ho sentito le varie interpretazíoni di chi era stato lì e di chi non c'era ed ho cucito insieme, così come mi veniva, tutto quello che avevo saputo".
SUMAN: Infatti la "magìa" di Francesco è la capacità di fermare in minuscoli fotogrammi pensieri e immagini che la sua fantasia riesce a concretizzare, e ad ingrandirli in musica, colorando anche quello che nella vita quotidiana degnamo appena di un bianco e nero.
FDG: "c'è anche - mi spiega - che quando scrivo una canzone ci metto dentro cose mie, riferimenti del tutto personali a cui sarebbe difficile ed irrispettoso dare spiegazioni... le mie canzoni non nascono come "futuri dischi", ma canzoni mie, e basta".
SUMAN: Non è difficile sposare l'immagire viva di Francesco a quella che riflettono le sue canzoni, anche se quando ti sta davanti si copre di quel sorriso disarmante che non s'immagina ascoltandolo soltanto.
Francesco è Francesco De Gregori, quello di Rimmel, quello lì di Trastevere, quello lì, insomma, sempre. E proprio per questo è facile ferirlo. La sua forza è tutta proiettata in dimensioni che vanno dall'introspettivo all'universale, senza vie di mezzo, e in questa gamma di situazioni intermedie non ha difesa; ma guai a chi sbaglia il segno anche solo di un millimetro, lui non dice niente, ma se ne ricorda.
Ed ecco che da questi ricordi, dalle esperienze e da quei tenui colori che la vita quotidiana ti fa respirare nascono le frasi che ritrovi nelle sue canzoni: alla pari trovi le impressioni e i concetti universali, mescolati come le immagini che a brandelli ci appaiono quando ci sforziamo di non pensare, e che lui riesce a fissare così, senza complimenti, senza scrupolì, in simbiosi o in antitesi con la melodia, come l'anima vuole.

 ".,.Quando scrivo non mi faccio condizionare da chi un giorno mi ascolterà: quello che sento di dire lo dico e non potrei fare diversamente, non sarebbe più vero...", ti dice abbastanza duramente se poni in ballo la questione dell'ermetismo dei suoi testi, " io sono convinto che tutti possano capire, e che comunque è più giusto essere sinceri anche se ci si esprime in modo difficile piuttosto, che buttare lì frasi chiarissime ma che restano frasi e niente più".
E a proposito di ermetismo abbiamo ascoltato insieme il suo ultimo lavoro, e c'è stato poco da chiedere spiegazioni.
.. Credo che se qui capisce del tutto sia innanzitutto perché non ascolta attentamente, e poi è vero che manca una cultura di massa che abitui a questo modo di esprimersi, che è, in fondo, il più naturale. Nella poesia e nell'arte in genere nessuno ha mai obiettato niente, e l'ermetistmo è stato accettato con riverenza, mentre non si ammette che si possa fare altrettanto con le canzoni.."
Comunque, i brani di questo nuovo e sospirato Long Playing sono in un certo senso molto più "accessibili" dei precedenti, e l'atmosfera che vi si respira è quella di un De Gregori più maturo, meno introverso e proiettato verso orizzonti píù vasti: un passo ancora avanti, poeticamente e musicalmente, di pari passo con le esperienze dei suoi venticinque anni mentre (per fortuna) ancora non si rende conto dei tutto del suo ruolo di cantastorie dei nostri giorni difficili, del personaggio ormai pubblico e dell'importanza che la sua poesia ha avuto, nel breve spazio di un paio d'anni, nel costume italiano, di cui si è fatto portavoce.
"E' una cosa grande pensare che queste canzoni che due anni fa cantavo per pochi amici oggi arrivano alla Hit Parade e raggiungono milioni di persone: questo vuoi dire che qualcosa sta davvero muovendosi..." e parla come se fantasticasse, come se il suo successo fosse ancora da venire. Così il nostro discorso volge all'improvviso verso un passato che sembra tanto lontano, e non lo è.
... In fondo devo tutto a mio fratello Luigi'. Ha sette anni più di me, e non abbiamo mai avuto una gran confidenza, però era lui in casa che suonava la chitarra e frequentava il Folkstudio. Quando usciva, mi impossessavo della chitarra e cercavo le armonie senza sapere da che parte cominciare. Scrissi così la mia prima canzone, che parlava di un impiegato che per protesta minacciava di buttarsi giù dal Colosseo, e che alla fine cadeva davvero. A quell'epoca andavo ancora a scuola, e mentre i miei coetanei impazzivano per i Beatles, io ammirava Fabrizio De André, che mi aveva affascinato fin dai suoi primi 45 giri, anche quelli che in fondo non contenevano che canzoncine. Avevamo in casa un vecchio registratore, e lì incidevo le canzoni che scrivevo, per non dimenticarle, insieme a qualche canto popolare. Così capitò che mio fratello, senza dirmi niente, ascoltasse e imparasse alcune canzoni, credendo che si trattasse di normale repertorio. Una sera, tornando dal Folkstudio, dove aveva avuto successo cantandole, mi chiese una per una di chi erano e dove le avevo trovate... quando seppe che erano tutte mie mi portò al Folkstudio e... il resto si sa". Oggi Luigi De Gregori, in arte Luigi Grechi, debutta come cantautore con un LP.
"Mi piace quello che scrive mio fratello, lo trovo molto interessante e nuovo. La sua decisione è stata improvvisa, dopo tanti anni, e io non c'entro niente, anche se in questo LP ci sono due vecchi pezzi miei inediti. Luigi vive e lavora a Milano da anni, ed è lì che si è creato il suo "giro" artistico che lo ha portato a fare questo disco. Prima, credo che non ci abbia mai pensato ".
Ancora qualche osservazione sul suo nuovo Long Playing, che come ogni disco di Francesco, è tutto da ascoltare: ci sono dei motivi di revival anni '60 e oltre (in the Summertime, Passion Flower, 0 sole mio) sfumati e quasi impercettibili...
"...Ci sono sempre dei motivi precisi, in questi passaggi, e nel suo insieme questo disco lo vuoi dimostrare. E' molto diverso da quelli che ho fatto in precedenza, e sarà diverso dal prossimo, ne sono sícuro, anche se ancora non ci ho pensato. Sono i miei momenti, è la vita, Mi chiedi perchè qui non trovi l'argomento 'amore': è perchè, onestamente, in questo periodo non ho avuto niente che mi stimolasse a parlarne. lo proprio non ci avevo fatto caso…".

 

 

 

 

 

 

GIACCIO - Poi c'è "L’uccisione di Babbo Natale”.

DE GREGORI - E' una canzone soprattutto per bambini, parla di un figlio del fiiglio dei fiori che ammazza Babbo Natale. Questi figli dei fiori mi pare che non abbiano ucciso nessuno. Sono pieno di rimpianti per questi hippies, nessuno ammette volentieri di essere stato un hippy. Però 5 anni fa li vedevì tutti quanti che scopavano contenti. Adesso ci sono dei bambini di 5 anni che sono "i figli dei figli dei fiori". Forse quando avranno 15 anni faranno delle cose serie.

ROMANO – Un altro figlio del figlio dei fuori era anche in una tua vecchia canzone. Io leggevo in quel libro di interviste "Super star", un'intervista con John Lennon in cui lui citava una serie di nomi che suonavano bene e che una volta si era scritto e messo da parte, utilizzandoli poi a distanza di anni: c'era Strawberry fields, c'era Penny lane tutte cose che non nascevano contemporaneamente ad una canzone, però suonavano bene.

DE GREGORI - Il magico 4 per 4 dei circo di Brema è una di queste frasi, il figlio dei figlio dei fiori è un'altra. Anche perchè avevo fatto una canzone seria sul figlio dei fiori, la storia di uno in una bella giornata di pioggia che sta affacciato alla finestra; chiaramente non è una persona allegra e lo capisce dal fatto che piove e ha finito le sigarette: pensa che deve uscire per andarle a comprare. Poi si ricorda di suo padre che è morto ma non ha neanche un ricordo nitido i questo padre; è morto ed è accettato così. Poi esce e va a comprare le sigarette, vede una donna che passa e pensa che carina è questa qui, pensa come sarebbe bello sposarsela. Però non le dice niente, va a casa, apre il pacchetto di sigarette e comincia a fumare. Era una canzone sul figlio del figlio dei fiori ed era una canzone su una persona triste. Sono contento di non aver fatto uscire questa canzone. Qui invece il figlio del figlio dei fiori diventa un personaggio positivo, allucinato ma positivo. La storia non è più una storia realistica ma una favola rivisitata, una favola con il rituale linguistivo e contenutistico invertito.

ROMANO - Questo "Babbo Natale' del resto è "carico di ferro e carbone"

DE GREGORI - Un Babbo Natale poco tradizionale. Invece di portare lo zucchero filato porta delle cose utili e pesanti, comunque poco belle per un bambino. Loro comunque gli danno un sacco di botte e poi tornano a casa dai genitori Ai quali raccontano tranquillamente: "Sai che che cosa abbiamo fatto? abbiamo scopato e poi ammazzato Babbo Natale". I genitori che stanno seduti a tavola dicono: "Ah sì, buona questa minestra"; ..nel paese si sparge la voce che Babbo Natale è stato ammazzato", nessuno però gli dà molto peso.

GIACCIO - Insomma i miti distrutti.

DE GREGORI - E' bello il linguaggio in questa canzone perchè è proprio un linguaggio da favola. E' Biancaneve e i sette nani. Sai quei disegni in cui si vede Biancaneve che si fa scopare dai sette nani.

ROMANO - Hai fatto la prima versione di questa canzone con un arrangiamento molto ritmato, molto violento, mancava la strofa finale, il ritorno a casa dai genitori dei figli dei fiori. Come mai l’hai aggiunta dopo?

DE GREGORI - Perchè l'ho scritta dopo. Prima la canzone finiva dicendo:, "pochi minuti e si sparse la voce che Babbo Natale era stato ammazzato". Poi sono andato in tournée, ho fatto questa canzone dal vivo sette volte e l'ultima volta che l'ho fatta mi è venuta quest'altra strofa. Anzi era proprio un momento di improvvisazione quello in cui io feci questa canzone tutta diversa, invertendo delle frasi qua e là. Qualcuno fra il pubblico diceva che non erano comprensibili le mie canzoni, e io cantavo 'Le stelle sono punte di spillo", sì, sono proprio punte di spillo per cui alla fine ero tutto gasato. Feci questa cosa del ritorno a casa dai genitori, poi ho anche cambiato l'arrangiamento perchè le parole si seguivano male.

da FRANCESCO DE GREGORI, UN MITO di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi - Edizioni Lato Side – 1980

 

 

Dolly del mare profondo, figlia di minatori si leva le scarpe e cammina sull'erba insieme al figlio del figlio dei fiori.
E fanno la solita strada, fino al cadavere del grillo, la luna impaurita li guarda passare e le stelle sono punta di spillo.
E mentre le lancette camminano, i due si dividono il fungo, e intanto mangiando ingannano il tempo, ma non dovranno ingannarlo a lungo.
Infatti arriva Babbo Natale carico di ferro e carbone, il figlio del figlio dei fiori lo uccide con un coltello e con un bastone.
 

E Dolly gli pulisce le mani con una fetta di pane, le nuvole passano dietro alla luna e da lontano sta abbaiando un cane.
E la neve comincia a cadere, la neve che cadeva sul prato e in pochi minuti si sparse la voce che Babbo Natale era stato ammazzato.
Così Dolly del mare profondo e il figlio del figlio dei fiori si danno la mano e ritornano a casa, tornano a casa dai genitori.

 

Dovrei risentirla, se la chitarra è suonata bene vuol dire che non ero io. Si alza, prende una delle tante chitarre che fanno capolino quasi in ogni angolo della casa, lascia partire la musica originale e comincia a rifare il caratteristico riff, un bel giro di arpeggio molto 'americano': "sì, sono io. Usavo una martin D28 che avevo appena comprato.
lo non mi considero un grande chitarrista adesso, figuriamoci allora, non avevo un grande controllo dello strumento, non avevo grande esperienza di studio: però spesso quello che avevo in testa io con la chitarra non riusciva a farlo nessuno. Non sempre è facile spiegare a un altro chitarrista quello che ti serve. Anche se magari è molto più bravo di te. E' un problema che si riaffaccia, a volte, ancora oggi. In Babbo Natale c'era un tipo di arpeggio particolare e poi lo stare addosso con lo strumento al canto era fondamentale. Un chitarrista professionista ha delle qualità tecniche particolari nell'uso della ritmica, la timbrica, la calligrafia musicale…. Tutte cose bellissime che però mi riguardano poco, spesso fanno a pugni con quello che cerco, non mi servono più di tanto, anzi, alla fine non mi piacciono e spesso ho dovuto sprecare un sacco di tempo per poi finire a fare da solo. Io amavo la chitarra acustica di gemte come Donovan, Dylan, anche come la impiegavano i Beatles, nei loro pezzi c'è molta chitarra acustica. Suonare la chitarra è come cantare, la tecnica è importante ma l'espressività deve venire prima, non va mai sacrificata in nome di un ideale astratto di esecuzione.
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

  

 

 

Mah ... nel 1976 i figli dei fiori erano già un po' dei residuati bellici, ultramaggiorenni, imbolsiti nel fisico e nelle idee ... anche lì, come per Bufalo Bill, stava finendo un'epoca e i più veloci ad annusare il vento avevano già rimesso nall' armadio i pantaloni a zampa d'elefante e l'eskimo da battaglia. Non era difficile immaginare che i loro figli, i figli dei figli dei fiori appunto, sarebbero stati molto diversi. Magari non proprio degli assassini, ma un po' più cattivi forse sì.
Che non fossero più tempi da Babbo Natale si cominciava a vedere, bastava guardare fuori. Pace amore e musica avevano ormai lasciato il posto alla violenza, e il mondo giovanile era il primo a pagare. Ma quando ho scritto la canzone a tutto pensavo meno che a questo, sarebbe sbagliato attribuirmi chissà quali capacità divinatorie. Quello che è successo in seguito, come può capitare, ha caricato la canzone di nuovi significati ma non è colpa mia. lo volevo solo giocare un po' con la simbologia freudiana, mettere in scena l'uccisione di un Babbo un po' speciale e provare a dissacrare quella retorica zuccherosa in cui tanti si erano cullati ... sai Woodstock, i fiori nei capelli, tutto quello stare insieme a farsi le canne, rotolare nel fango nudi ed essere felici. Comunque la canzone è meglio sentirla senza tante spiegazioni, sicuramente ci guadagna.
Mi piace l'idea che Babbo Natale vada in giro a regalare ferro e carbone, mi piace che tutto si risolva in un ritorno a casa, come se non fosse successo niente. Come se fosse stato solo un brutto sogno.

tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

 

Questo "Babbo Natale'  "carico di ferro e carbone" è un  Babbo Natale poco tradizionale. Invece di portare lo zucchero filato porta delle cose utili e pesanti, comunque poco belle per un bambino. Loro comunque gli danno un sacco di botte e poi tornano a casa dai genitori Ai quali raccontano tranquillamente: "Sai che che cosa abbiamo fatto? abbiamo scopato e poi ammazzato Babbo Natale". I genitori che stanno seduti a tavola dicono: "Ah sì, buona questa minestra"; ..nel paese si sparge la voce che Babbo Natale è stato ammazzato", nessuno però gli dà molto peso. 

E' bello il linguaggio in questa canzone perchè è proprio un linguaggio da favola. E' Biancaneve e i sette nani. Sai quei disegni in cui si vede Biancaneve che si fa scopare dai sette nani. Prima la canzone finiva dicendo:, "pochi minuti e si sparse la voce che Babbo Natale era stato ammazzato". Poi sono andato in tournée, ho fatto questa canzone dal vivo sette volte e l'ultima volta che l'ho fatta mi è venuta quest'altra strofa. Anzi era proprio un momento di improvvisazione quello in cui io feci questa canzone tutta diversa, invertendo delle frasi qua e là. Qualcuno fra il pubblico diceva che non erano comprensibili le mie canzoni, e io cantavo 'Le stelle sono punte di spillo", sì, sono proprio punte di spillo per cui alla fine ero tutto gasato. Feci questa cosa del ritorno a casa dai genitori, poi ho anche cambiato l'arrangiamento perchè le parole si seguivano male.

E adesso invece, se mi consentite, una canzone su due giovani mascalzoncelli, una canzone che io adesso non è che mi voglio vantare, ma credo di non aver mai scritto in tanti anni di carriera una canzone così immorale come questa che adesso vado a eseguire... sono due personaggi cattivi, emanano cattiveria e fanno schifo per quanto sono ripugnanti... come Hide, che uno prima ancora di rendersi conto che t'ammazza, senti un alone di un miasma di cattiveria e di immoralità, due ragazzini che se fossero andati a "blitz" (?), altro che... va bè la canzone si chiama Dolly del mare profondo...

 

 

Addio a Dolores Redaelli, storica «colonna» del Piccolo Teatro di Milano

«La Dolly» aveva 78 anni e per quasi 50 è stata dentro negli ingranaggi del teatro, avendo visto all’opera due figure straordinarie come Strehler e Ronconi. Ha lavorato fino all’ultimo nella Fondazione Gaber.

http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/17_ottobre_13/morta-dolores-redaelli-piccolo-teatro-milano-fondazione-gaber-3614eb10-afee-11e7-9acf-3e6278e701f3.shtml

 

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La scomparsa di Dolly( cosi la chiamavamo insieme a Dalla, De Gregori,Ron etc etc) e' stata come un colpo al cuore ma forte,doloroso e soprattutto inaspettato,non sapevo assolutamente che stesse male.Le parole non servono mi rimarra' sempre il ricordo di Dolly che secondo noi amava troppo Gaber e ci considerava straccioni(nel senso buono ma forse lo eravamo veramente!), la sua risata e quella naturale capacita' a farsi voler bene anche nei momenti piu difficili.CIAO DOLLY DEL MARE PROFONDO TI VOGLIAMO SEMPRE BENE!!!

 

Michele Mondella FB

 

   

 

 

   

Che tipo d'uomo legge oggi il vangelo,

che t'hanno fatto agli occhi? Gesù Maria!
Terza domanda: quanti anni ho, sotto il cielo e quante mosche

ho torturato nella mia infanzia, buona e cattiva?
Prima di diventare uno di loro quanto ci ho messo,

quanta rabbia e quanto sesso dietro ai vetri.
Discutevano in quattro in un tramonto italiano,
di politica, estetica e matematica.
Le loro sigarette tiravano il fumo al mulino
e all'improvviso un'esplosione da lontano.
Erano l'ultima guerra e il primo amore, miti tranquillizzanti,

forse droghe pesanti o mani pietose che chiudono gli occhi.
Ed adesso dimmi quando finirà la guerra,
adesso dimmi quando finirà la guerra,
ed adesso, per favore, dimmi quando finirà la guerra,
sono stufo di stare nella mia trincea di lusso.
E a questo punto i tre quarti del pubblico, cominciarono a fischiare
e a gridare: "Ogni cosa al suo posto, quest'uomo è nel posto sbagliato".  Ed io vi ho solamente raccontato, senza niente inventare, l'ultimo discorso registrato, dell'uomo che voleva parlare, dell'uomo che voleva parlare...

 

Delle canzoni di Bufalo BiIll, quattro o cinque nel corso degli anni e delle varie tournèe le abbiamo suonate. Altre magari sono poco adatte ad essere suonate su un palco ... credo di non aver mai fatto Ipercarmela o Disastro aereo sul Canale di Sicilia, ma le altre più o meno hanno avuto tutte il loro momento di gloria. nell'ultimo tour per esempio facciamo Atlantide, nonostante ci si debba arrangiare senza l'eminent, la tastiera con cui venne suonata in studio: uno strumento secondo me irrinunciabile e purtroppo oggi introvabile. Poi facciamo anche Festival, la canzone che parla della morte di Tenco. Piace molto alla gente e piace ancora molto anche a me, soprattutto come la stiamo suonando adesso. Alcuni del pubblico storcono un po' la bocca davanti ad alcuni arrangiamenti che non sono fedeli a quelli del disco originale ma che ci posso fare? Troverei indecoroso oltre che difficilissimo ricalcare le cose fatte tanti anni fa. Invece mi piace poter tornare ogni volta su quello che ho fatto, come se una forma definitiva non esistesse; non mi piace pensare a una canzone come a qualcosa da incollare una volta per sempre nell'album di famiglia a prendersi la polvere degli anni ... e poi i vecchi arrangiamenti nemmeno li ascolto più, non riascolto mai i miei dischi. Diciamo la verità: non mi piace molto mettermi di fronte alle cose che ho fatto in passato. Fatte in quel modo ormai appartengono più alla gente che a me. lo sono quello di adesso, la mia voce è questa, non quella di trent'anni fa.
I dischi sono solo momenti di passaggio, però è nei dischi registrati dal vivo che mi riconosco di più. Trovo che la sala di registrazione abbia sempre truccato troppo la mia voce, a volte è troppo compressa, a volte c'è troppo riverbero. Comunque credo che chiunque canti meglio davanti ad un pubblico che davanti a un vetro. A patto che sia un cantante.
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

 

LA BAND CHE ACCOMPAGNO' FRANCESCO

NEL TOUR 1975-76 (FINO AL PALALIDO)

 

 

le seguenti foto, che ritraggono il gruppo prima dell'inizio del tour, sono state gentilmente concesse dall'autore, Antonello Palazzolo. La Band era composta da Bob Rosati alle chitarre, Giulio Carcame al basso, Marco Felice Marcovecchio alla batteria

 e Antonello Palazzolo alle tastiere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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La notte si annunciava chiara, la sera era serena, 

a gente nel cinema assisteva seria al magico
"Quattro per quattro del Circo di Brema".
Nel cielo all'improvviso si aprì un lampo, la pellicola di colpo si spezzò
e apparve all'improvviso sullo schermo un pellegrino vestito di Chiffon.
E il silenzio piombò come un veleno e tutti cominciarono a pregare,
levato, il piccolo Ninetto scemo, che continuò a giocare.
Con una mano dentro ai pantaloni e un piede leggermente sollevato,
urlò nel cinema la sua domanda: "Chi è che ti ha mandato?"
E il pellegrino si guardò le unghie e disse: "Cosi sia, facciamo presto,
chi mi manda non parla questa lingua e non importa che sappiate il resto.
E' troppo tempo che cammino, vengo dalla montagna e vado al mare.
E' troppo tempo che cammino e questa sera mi vorrei fermare".
E tre angeli nella notte
con le catene sotto al giaccone 
facevano la guardia al mistero come rondini su un balcone.
E nella notte, alle loro spalle, le loro voci diventavano fumo.
Qualcuno cominciava ad aver paura ma non parlava nessuno.
E dietro un fondale di stelle gli impiegati della compagnia
rubarono tutta la frutta dagli alberi
e la portarono via.

 

GIACCIO – La prossima canzone si chiama “Ninetto e la colonia”

DE GREGORI – Questa è la triste storia di un bambino che si trova in un cinema al momento in cui entrano dei marines. I marines mettono tutti al muro e li fucilano tutti. Anche Ninetto. Dopo i marines arrivano dei signori con la crivatta con la scritta "Chiquìta" sulla ca a mo' di fregio e cominciano a raccogliere le banane che prima erano di Ninetto e dei suoi amici, prendono queste banane e se le vanno a vendere.

GIACCIO - Quindi una canzone sul colonialismo, le Multinazionali fra cui questa United Fruits che ha fatto con le banane e con altro il bello e il cattivo tempo in molti paesi, in Africa, forse anche in Italia.

DE GREGORI - Devo dire che questa  canzone mi è venuta in mente leggendo “Rulli di tamburo per Rancas". Non è importante tanto la storia, dire puntualmente quello che vuol dire, forse nessuno capirà che è una canzone sulle Multinazionali, sulla United Fruits, ma è importante il linguaggio.

ROMANO - Perchè hai ambientato questa storia in un cinema?

DIE GREGORI - Perchè la gente nel cinema sta lì e guarda, non si alza, è proprio la passività più assoluta. Accetta Ia realtà proiettata, ci si immedesima e crede a tutto.

ROMANO - In questa canzone, è una mia opinione personale, mi sembra veramente che tu assuma un tono da imbonitore.

GREGORI - Sì e mi piace molto. E’ cantata bene questa canzone vero? E' parlata e recitata.

ROMANO - Esatto, questo è il tuo nuovo modo di cantare, ti sei liberato da certe restrizioni. Da "Rimmel” in poi questo è il pezzo dove ti lasci andare;  e vorrei fare un aggancio al tuo modo di fare spettacoli, al tuo modo di stare sul palcoscenico. Anche quando stai sul palcoscenico ti lasci andare molto, si va al di là del ruolo puro e semplice del cantante con chitarra che arriva, canta una canzone e l'altra non dice niente, oppure dice banalità. I tuoi concerti sono arrivati quasi al cinquanta per cento di parole e al cinquanta per cento di canzoni. Tu fai discorsi spesso improvvisati.

DE GREGORI - Che poi la gente non gradisce perchè vorrebbe solamente sentire musica.

ROMANO - E perchè lo fai?

DE GREGORI - Perchè, a parte il fatto che mi diverte, è anche utile dare alla gente un'immagine diversa, loro si aspettano un cantante e si trovano invece tino che sta lì e chiacchera.

ROMANO - All'interno del panorama italiano hai, come punto di riferimento, Gaber o Dalla.

DE GREGORI - Senz'altro più Dalla, Gaber fa del teatro, ha un testo e si attiene al testo in maniera abbastanza fedele; Dalla invece improvvisa; io da Dalla ho imparato proprio queste cose, di andare a ruota libera.

GIACCIO - Tornando al testo di "Ninetto e la Colonia" ci sono "tre angeli con le catene sotto il giaccone" che per me sono gli hells angels.

DE GREGORI - Non l'avevo pensato, me l'hai fatto venire in mente tu.

GIACCIO - Non hai visto quel film sugli Stones, "Gimme Shelter"...

DE' GREGORI - No, però me l'avevano raccontato. Comunque ho visto gli heils angels in versione integrale all'isola di Wight: stavano lì, si divertivano molto a fecavono paura.

GIACCIO - Cos'è il "Circo di Brema"?

DE GREGORI - E' una cosa che scrissi circa tre anni fa questa del "Circo di Brema”. Forse Michelangelo se la ricorda, una canzone che si chiamava "5 milioni di risate" e cominciava dicendo: "Il magico 4 per 4 del circo di Brema aspettava sconsolatamente qualcuno che gli riportasse la valigia dicendo a tutti quanti: avete visto qualcuno con la mia valigia, non è che fosse una bella valigia ma c’erano 5 milioni di risate."

da FRANCESCO DE GREGORI, UN MITO di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi - Edizioni Lato Side – 1980

 

 

 

La canzone nasce da un articolo letto su "Lotta continua". L'articolo era fatto molto bene in prima pagina, e diceva che noi spendiamo non so quanti miliardi l'anno per la difesa, che alcuni di questi miliardi sono stati spesi per comprare questo tipo di aerei che cadono sempre, questo mentre in Italia i problemi gravi sono altri. Questi soldi vengono spesi per la difesa, la nostra difesa è in funzione di quella Atlantica, e perchè è tanto importante la nostra difesa in questo momento? Perchè dopo la caduta dei regime dei Colonnelli greci, dopo la morte di Franco, in Europa oltre la Turchia siamo rimasti noi a tenere a bada la situazione in Medio Oriente.

 

 

e dopo Nino, che è una canzone su un adolescente, quindi una persona già responsabile e matura, che spera di essere assunto in una grossa squadra di calcio, tipo per esempio la Roma (fischi), oppure, e qui parte una ruffianata, il Milan o l'Inter per esempio, un giovane bambino che ama giocare a pallone (forza Lazio) (a burino!)... ma sì viva tutto, viva tutto! prendiamo Nino invece in un momento precedente alla sua età, quando ancora si chiamava Ninetto... la prossima canzone si chiama Ninetto e la colonia, e non si sa perchè...

 

 

PdP – Il nuovo disco di Dylan è uscito nello stesso giorno in cui sono usciti tre nuovi dischi di De Gregori: per gli amanti del genere è stata praticamente festa nazionale! FDG – Vorrei chiarire una cosa su questi tre dischi. Ho letto che rappresentano il ritratto della mia carriera discografica, una specie di riassunto di ciò che ho cantato negli anni; ebbene no: si tratta solamente di tre dischi dal vivo, in cui sono state incise solamente le canoni che abbiamo suonato meglio. È un disco fatto di molte coincidenza: se fosse stato un "ritratto" o un "greatest hits" dal vivo, non sarebbe mai mancata "Santa Lucia" che rimane in assoluto la canzone che io amo di più; invece "Santa Lucia" non c’è ed il motivo è semplice: quando l’ho suonata non stavamo registrando. Molte canzoni sono state tratte dai tre concerti che ho fatto a Roma nell’ottobre del 1989. Splendidi concerti: erano alla fine del tour, eravamo tutti stanchi, ma anche ben rodati e tutto sommato felici. (…) Vedi? Sono tre dischi casuali che in fondo anno un unico fine: rappresentare, nel bene e nel male, il mi valore dal vivo. Non si tratta assolutamente di un monumento a me stesso: quelle sono operazioni da discografico e sarebbe gravissimo se fossero concepite direttamente dalla mente di un artista. Equivarrebbe a dire e ad ammettere che ciò che è passato pesa più di ciò che è presente o che deve ancora venire. Sinceramente quella della voglia del consuntivo, è una sensazione che non vorrei provare mai. Né mi va di scrivere, al momento, una sorta di autobiografia musicale. ( BLU – IL MENSILE DI MUSICA TUTTA ITALIANA – 1990 DI PIERLUIGI DE PALMA)

 

 

 

 

 

 

 

ROMANO - Una canzone che ami dismisura in questo è “Santa Lucia" forse la tua canzone più discussa, tra amici, conoscenti, gente dell'ambiente. E' criticata da quasi tutti, da Lucio Dalla, da Fabrizio De Andrè e anche da me; a me per esempio dà fastidio che sembri una preghiera.

DE GREGORI - "Santa Lucia" è nata così: mi ricordo che mia madre, che é leggermente miope, quando cercava qualccosa per casa e non riusciva a trovarla, magari cercava per tre ore una cosa che stava sotto i suoi occhi; e quando la trovava diceva: "Santa Lucia, Santa Lucia, non l'avevo vista! "; è un modo di dire, e la canzone scatta da lì, uno che non trova cose evidenti. Santa Lucia è la santa dei ciechi, lo sanno tutti, e questa è una canzone per quelli che non vedono. Non capisco perchè debbo vergognarmi di aver usato questa mediazione cattolica; Santa Lucia fa parte della mia cultura, mi ricorda le lezioni di catechismo. Se le critiche sono rivolte solo al fatto che si nomina una santa, io non me ne vergogno, non ho niente contro i santi. La canzone in effetti è una preghiera, ma è una preghiera anche "lpercarmela". Non trovo differenze tra le due, sarebbe bella l'idea di un De Gregori che fa esattamente quello che uno si aspetta, forte sarebbe bello che io fossi come gli altri mi vogliono; se mi viene di fare "Santo Lucia" la faccio perchè tutto sommato mi piace, esteticamente mi sta bene, i contenuti mi stanno bene. Si può dire che faccio delle canzoni commissionate dal Papa. Nessuno è al di sopra di ogni sospetto.

da FRANCESCO DE GREGORI, UN MITO di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi - Edizioni Lato Side – 1980

 

 

 

 

Santa Lucia, per tutti quelli che hanno gli occhi

e un cuore che non basta agli occhi.
E per la tranquillità di chi va per mare, e per ogni lacrima sul tuo vestito,

per chi non ha capito.   Santa Lucia!
Per chi beve di notte e di notte muore

e di notte legge e cade sul suo ultimo metro, 

per gli amici che vanno e ritornano indietro

e hanno perduto l'anima e le ali.
Per chi vive all'incrocio dei venti ed è bruciato vivo.

 Per le persone facili, che non hanno dubbi mai.
Per la nostra corona di stelle e di spine.

Per la nostra paura del buoi e della fantasia.
Santa Lucia!

Il violino dei poveri è una barca sfondata,

è un ragazzino al secondo piano, che canta, ride e stona, perché vada lontano.

Fa che gli sia dolce anche la pioggia nelle scarpe, anche la solitudine.

 

 

Bufalo Bill è stato il primo album in cui per comporre ho usato il pianoforte. sapevo suonare solo in Do e infatti i due pezzi che ho composto al piano sono Bufalo Bill e Santa Lucia, tutti e due in DO maggiore. "Santa Lucia sul disco è suonata, in modo struggente, da Toto Torquati: solo nell'ultima strofa entrano, quasi in punta di piedi, basso e batteria e una chitarra elettrica che "canta" la melodia nel finale. Mi piace molto la nudità di certi pezzi come Santa Lucia. Spesso provo a tornarci, ad atmosfere come questa, anche negli ultimi lavori l'ho fatto. Voce e pianoforte, forse anche di più che voce e chitarra, creano una sonorità solenne, molto intensa. 
Tratto da "Contemporanea" di Paolo Vites - allegato al Corriere della Sera

 

 

   

 

 

Variazioni (in do di petto) sul canto De Gregoriano
di Simone Dessì (1976)

 

Amici, redattori, lettori. italiani! Prestatemi orecchio. Sono venuto a seppellire Francesco De Gregori, non a farne l'elogio. Il male che l'uomo fa, gli sopravvive: il bene, spesso, resta sepolto con le sue ossa. E così sia di De Gregori. Il nobile Pintor, l'ilare Gino Castaldo, il pensoso Roberto Renzi vi hanno detto che De Gregori è rarefatto. illeggibile, ermetico. Se lo è, ha gran colpa; e De Gregori la sconterà gravemente. Qui, col beneplacito di Pintor, di Castaldo, di Renzi, e degli altri - ché Pintor, Castaldo, Renzi sono uomini di cultura e di gusto, e anche gli altri, tutti uomini di cultura e di gusto - sono venuto a parlare in sua difesa.
Giaime Pintor dice che De Gregori è ermetico ed è "tanto ermetico che le sue parole non si aprono a nessuna ma nessuna interpretazione" (in Linus marzo 1976). Stupisce tale ingenuità nel nostro direttore che sapevamo fine cultore di estetica, buon conoscitore di cose letterarie, assiduo nelle frequentazioni di umanisti e poeti. Ora, senza scomodare Galvano della Volpe, basterebbe Benedetto Croce (che nei buoni licei classici di una volta, quelli prima della contestazione, veniva ancora studiato) per sapere che non solo per quanto riguarda la poesia ermetica, ma per la poesia e la letteratura tout-court. l'interpretazione delle parole (in versi o in prosa) non può essere quella ricavabile dall'attenta consultazione del Melzi, dalla comparazione sinottica tra testo e dizionario: versi e prosa hanno da essere colti oltre il loro stretto significato, oltre la rigida connessione semantica tra parola e concetto. E perché, altrimenti, si farebbe letteratura? Basterebbero e avanzerebbero, la politica, la sociologia o, che so? la geografia.
E, d'altra parte, nemmeno la metafora - che pare essere l'unica concessione a una letteratura non convenzionale dei testi letterari che i critici in questione sembrano voler fare - copre tutte le possibilità che la parola offre (oltre a essere, naturalmente, qualcosa di più della semplice proiezione figurata di una parola dal senso proprio) e nemmeno l'allegoria o l'analogia; la parola, in versi e in prosa, può essere piegata, e va piegata, a mille altre soluzioni, a molti usi, a svariate funzioni, può diventare suono, sciarada, nonsense; può esprimere strettamente un concetto o può negarlo così come può stravolgerlo, distruggerlo, trasfigurarlo. Tutto questo è ancor più possibile (necessario?) quando la parola è costruita su una frase musicale, è testo di una canzone; è parte, cioè, di un'opera "letteraria" non immobile né autonoma ma strettamente connessa e intersecantesi con una struttura che è quella musicale, per sua natura "ambigua", cioè variamente fruibile. E' per questi motivi che parlare di "interpretazione", a proposito della letteratura di un testo di canzone, già mi sembra operazione non so se più scorretta o ingenua.

 

 

 

QUELLO CHE ACCADDE DOPO:

 

IL PALALIDO

 

 

Scrivere canzoni è un po' come fare le parole incrociate: il termine giusto nelle caselle orizzontali e l'accordo appropriato negli spazi verticali. Così, dagli incontri casuali e forse infiniti di questa scacchiera fatta di vocabolario e pentagramma nascono canzoni, canzonette, successi.

De Gregori, fra i tanti che si cimentano con queste prove di enigmistica, è certamente uno dei più quotati, uno di quelli che hanno le carte in regola per risolvere anche i giochi più difficili. Per questo, nel corso di questi anni, si sono accavallati vari giudizi su di lui. Dibattiti, interviste, sproloqui, lo hanno messo spesso al centro dell'attenzione, rendendo il suo personaggio una specie di mito da, volta per volta, amare o contestare violentemente.

Non è da meno, in questo senso, l'intervista che abbiamo letto precedentemente, dove siamo alle prese con tre bravi ragazzi del mondo dello spettacolo che svolgono il loro mestiere: due pensano di fare domande graffianti, il terzo è convinto di rispondere cose intelligenti.

Certi della completa buona fede dei tre, bisogna dire col senno di poi che l'unico che ha fatto veramente il suo mestiere è De Gregori.

Se le domande sono il massimo della neutralità, le risposte del cantautore romano sono un intelligente gioco, questa volta poco enigmistico, per dire poco, prendere pochi impegni, risultare un simpaticone: senza dire cose che in futuro, qualsiasi scelta il nostro avesse fatto, potessero rivolgersi contro di lui.

Eppure questa è un'intervista basilare, una pagina «mitologica» che ritorna a distanza di anni, in tutte le interviste e le biografie seguenti: tutti ne riprendono qualcosa, chi la chitarra vecchia del nonno, chi le vaghe letture di Lotta Continua. E’ basilare anche perché evidenzia le caratteristiche fondamentali per un artista di successo: una sottile membrana, un impercettibile spartiacque che creino un buon equilibrio tra verità e bugia, recitazione e umanità, impegno e gigioneria.

Elementi vissuti, che fanno del mito «uno come gli altri»: «giocavo a pallone, studiavo, suonicchiavo, non mi rompevo i coglioni, poi ogni tanto avevo le ragazzette», si mischiano con gli strafalcioni che solo una persona con molta considerazione di sé può vedere scritti sul giornale, il giorno dopo, senza chiedersi: «Ma forse ero ubriaco?» (vedi il capitolo droga e politica, ecc.).

Questo «senno di poi» fatto un po' da grillo parlante sull'intervista di Giaccio e Romano, ha però un senso: deve essere letto come una critica verso chi contribuisce a fare di un buon artista, di un valido artigiano, un mito; e non perché i miti siano positivi o negatívi (da Foscolo in poi il dibattito è aperto), ma perché non è giusto che ogni personaggio di successo debba, direttamente o no, imporre comportamenti e processi mentali che, seppur validi, sono suoi e non degli altri (da Cristo in avanti, gli esempi si sprecano).

Ma al di là delle questioni, come dire, di plagio, sussistono elementi anche personali che costano al mito molto dal punto di vista umano. Insomma, diventare un punto di riferimento, un parafulmine dell'ammirazione ma anche della violenza delle folle, non è sempre bello. E per giungere a queste considerazioni non c'è bisogno di ripensare al rapporto tra Marylin Monroe ed i suoi fans o, per restare nel settore, ai Beatles: anche per il nostro «big» di levatura nazionale, che si dice un timido, ci sono stati intoppi di non poco conto. «Il processo del Palalido» è forse il fatto più traumatico, l'incontro più sconvolgente che il mito abbia avuto col suo pubblico. Oggi, nell'apoteosi del ritorno alla grande, questo fatto e tante altre piccole contestazioni vengono dimenticate, trattate, come si dice, da scheletri nell'armadio.

Per noi il disastroso concerto del Palalido è invece il punto di aggancio, dove finisce la intervista a tarallucci e vino fatta da Giaccio e Romano e dove comincia l'iter di trasformazione di De Gregori.

Dicevamo di scheletri nell'armadio: ma per nascondere o dimenticare un fatto del genere occorrerebbe un guardaroba-cimitero di dimensioni enormi. La calda serata di Milano ha infatti condizionato molto la vita artistica del rampollo del Folkstudio, ma non soltanto quella: anche Milano ne ebbe il suo trauma e aspettò un bel pezzo prima di ascoltare un altro concerto di quel tipo.

Uno che, come De Gregori, non si è certamente dimenticato delle contestazioni di quei giorni (un po' barbare a dire il vero) è un giovane milanese: capelli lunghi, baffi, magro, sguardo spesso stravolto, si chiama Gianni Muciacia, è il capo di un gruppo di rock duro, i Kaos Rock, un complesso che, sulla onda degli Skiantos, canta e suona quel rock demenziale che fa riferimento, dicono loro stessi, alle esperienze della vita metropolitana negli anni '80.

Il padre spirituale di questa new wave italiana è il teorico della demenzialità come rifiuto: Franco Berardi, detto Bifo. Ha chiamato così le sue tesi, in parte perché veramente dementi, in parte perché ha voluto mettere le mani avanti prima che qualcuno trovasse epiteti più calzanti per definirle.

Muciacia, quindi, oggi calca le tavole dei palcoscenici: ai tempi della «grande contestazione» era solo un giovane esponente dei famosi Circoli giovanili, un contestatore professionista. Lavorava in una radio privata come esperto di jazz, anche se di jazz poco capiva, e studiava musica al Centro sociale Santa Marta: quella sera era tra quelli che presero la parola per «discutere» con De Gregori.

Dice Muciacia: «Allora contestare i concerti aveva un senso, era un modo valido per mettere in discussione certi personaggi che facevano musica speculando sui giovani, ammiccando a certi atteggiamenti e facendosi, in realtà, gli affari propri. Oggi lo rifarei, anche se De Gregori ormai è una cosa diversa, ha un pubblico più lontano da quello di allora, più composíto».

«Anche tu», gli abbiamo chiesto, «hai subìto col tuo gruppo nel corso dell'esordio, proprio al Palalido di Milano, un fitto lancio di oggetti. Non ti sei sentito vicino a De Gregori? ».

«No! Per niente», replica Muciacia, «noi invitiamo il pubblico a gettarci qualcosa, è una specie di rituale per costruire un contatto, per mettere in discussione il ruolo di chi sta sul palco, per sconfiggere i miti ».

Uno scontro tra due generazioni di artisti? Forse. Oppure cialtronaggini elevate a teoria? O ancora, un dibattito dove ognuno fa il suo giuoco?

Rispondere non è facile. Anche se due generazioni musicali si sono date il cambio, si sono alternate a gestire il loro rapporto col pubblico, troppa poca acqua è passata sotto i ponti per poter dare un giudizio, se non obbiettivo, perlomeno documentato.

Di certo queste poche parole possono diventare la cartina di tornasole per provare, ancora una volta, la funzione e l'importanza del mito: De Gregori, un simbolo contestato proprio perché considerato più vicino di altri ai problemi giovanili, alle tematiche che allora attraversavano «il movimento». Oggi è considerato, dalla stessa area, un drop-out, uno che fa musica e canzoni, per dirlo con un termine fuori luogo, «interclassiste» e quindi sostanzialmente da ignorare.

Anche il fratello «grezzo» di De Gregori, Venditti, rumoroso e chiacchierone, subì qualche tempo dopo, sullo stesso palcoscenico, un purgatorio del genere. Ma se per De Gregori, qualche intruso sul palco e il lancio di oggetti vari fu una buona ragione per raggiungere, con eleganza di gazzella e tenero tremore da Tchaicowski offeso, i camerini, Venditti, sotto una pioggia di insulti, caki e monetine, suonò ed inveì fino alla fine.

Rispose, colpo su colpo, alle accuse del «movimento», sibilando tra i denti: «Cazzo, io resto qui, non scappo, non sono mica De Gregori». Solo pochi sanno che alla fine del match, stremato, svenne tra le lacrime, nei camerini.

Anche l'uscita artistica dall'esperienza fu molto diversa per i due che così spesso vengono accomunati: De Gregori, certamente più sensibile e più fragile psicologicamente di Venditti, ebbe un lungo periodo di sconforto, un lungo ritiro durante il quale gli alimentatori di miti vociferarono varie volte di abbandono dell'attività, per protesta nei confronti di un pubblico incivile.

Venditti, più (diciamo così) pratico, si rimboccò le maniche, operò una scelta di campo fondamentale lasciando definitivamente il genere ambiguo di suoi lavori precedenti fino ad «Ullalla», per scegliere di seguire il vento e le mode come nel «Segno dei pesci» e nell'ultimo lavoro: «Buona Domenica».

Stretti ancor più buoni rapporti coi suoi compagni del PCI e con le feste dell'Unità, si avvia ad una sostanziosa carriera da «piccolo industriale», coadiuvato e consigliato da un personaggio che già conosciamo: Michelangelo Romano che abbiamo osservato nelle vesti di intervistatore e che oggi si dà un gran da fare per diventare l'emulo italiano di Robert Stigwood.

 

da FRANCESCO DE GREGORI, UN MITO di Michelangelo Romano, Paolo Giaccio e Riccardo Piferi - Edizioni Lato Side – 1980

 

 

Uno che, come De Gregori, non si è certamente dimenticato delle contestazioni di quei giorni (un po' barbare a dire il vero) è un giovane milanese: capelli lunghi, baffi, magro, sguardo spesso stravolto, si chiama Gianni Muciacia, è il capo di un gruppo di rock duro, i Kaos Rock, un complesso che, sulla onda degli Skiantos, canta e suona quel rock demenziale che fa riferimento, dicono loro stessi, alle esperienze della vita metropolitana negli anni '80. Il padre spirituale di questa new wave italiana è il teorico della demenzialità come rifiuto: Franco Berardi, detto Bifo. Ha chiamato così le sue tesi, in parte perché veramente dementi, in parte perché ha voluto mettere le mani avanti prima che qualcuno trovasse epiteti più calzanti per definirle. Dice Muciacia: "Allora contestare i concerti aveva un senso, era un modo valido per mettere in discussione certi personaggi che facevano musica speculando sui giovani, ammiccando a certi atteggiamenti e facendosi, in realtà, gli affari propri. Oggi lo rifarei, anche se De Gregori ormai è una cosa diversa, ha un pubblico più lontano da quello di allora, più composíto".  "Anche tu", gli abbiamo chiesto, "hai subìto col tuo gruppo nel corso dell'esordio, proprio al Palalido di Milano, un fitto lancio di oggetti. Non ti sei sentito vicino a De Gregori? ".

"No! Per niente", replica Muciacia, "noi invitiamo il pubblico a gettarci qualcosa, è una specie di rituale per costruire un contatto, per mettere in discussione il ruolo di chi sta sul palco, per sconfiggere i miti ". RICCARDO PIFERI - FRANCESCO DE GREGORI UN MITO – ROMANO-GIACCIO – LATO SIDE 1980)

 

Albanese: Per quanto riguarda gli avvenimenti del '77 a Milano, al Palalido... Io non ho capito mai esattamente che è successo. Lo so che lei non c'era, ma li può commentare? Lo Cascio: Lì, è stato un insieme di cose. In quel momento, c'era stata una seria di avvenimenti prima con Francesco e la sinistra: incomprensione, <<Lotta Continua>> l'aveva scritto contro di lui. Insomma, c'era stata una serie di cose. E quel periodo era un periodo in cui contestavano i grandi concerti. Avevano tirato una bomba Molotov a Santana, sul palco. Hanno bruciato... Insomma, c'erano stati anche scontri seri in giro perché c'era, nel '77... gli indiani metropolitani, quel tipo di movimento culturale, che era per la fantasia al potere, rivolta contro tutti, anche contro i partigiani, anche contro la sinistra. Era proprio una rivolta totale a tutto campo. Allora, il grande concerto era considerato come una violenza da parte di questi, che poi, in realtà, non erano, quelli che poi facevano queste cose, non erano in realtà espressione di un fenomeno importante, secondo me. Era un po' una deformazione. Era quasi più rapportabile a quello che accadrà dopo, cioè al desiderio di apparire. NICHOLAS ALBANESE INTERVISTA GIORGIO LO CASCIO – 1998)

Erano "gli anni di piombo", la contestazione incominciò a colpire anche noi che ne avevamo fatto parte. Il "processo" a De Gregori degli autonomi al Palalido fu per me un trauma. Volli andarci anch’io dopo qualche mese e mi accorsi di essere solo. La casa discografica vedeva a rischio la mia popolarità, gli amici non capivano il perché di questo confronto e gli impresari non capivano perché non impiegassi il mio tempo in esibizioni più remunerative. Suonai al Palalido e vinsi la sfida. Vendicai, a modo mio, Francesco. ANTONELLO VENDITTI – N.P.)

 

Sui fatti accaduti al Palalido di Milano, sui commenti della stampa e su certe dichiarazioni riportate non fedelmente, desidero fate alcune considerazioni. (…). Questi episodi fanno quindi oggettivamente il gioco della cultura dei potere e della musica tranquillizzante, e si prestano oltretutto ad essere ripresi e strumentalizzati in chiave terroristica, reazionaria e scandalistica da un certo tipo di stampa "indipendente". Riguardo ai miei guadagni, ritengo che più che una mia sottosctizione personale (alla quale eviterei comunque di dare qualsiasi pubblicità) sia corretto da parte mia mettere la mia musica e le mie parole, a disposizione di un movimento al quale, pur non essendo io un militante rivoluzionario, ritengo di aderire ideologicamente, condividendone pressoché in tutto le scelte culturali, confrontandomi con esso e accettandone i consensi, le critiche e le proposte. (…) Il pubblico giovanile più politicizzato, o almeno una parte di esso, dimostra di apprezzare ciò che lo scrivo e canto, forse perché provo a parlare di cose private e di cose politiche in maniera diversa da quella tradizionale. Tutto qui. Vorrei che quanto detto non venisse scambiato per un attacco o, peggio ancora, un'autodifesa. Spero solo di aver contribuito a chiarire alcuni momenti fondamentali di un dibattito che andava senz'altro affrontato anche a prescindere da quanto avvenuto al Palalido di Milano".  FRANCESCO DE GREGORI SU "MUZAK - 1976)

   

Quella del Palalido non può essere considerata contestazione ma aggressione vera e propria. Contestazione è quando contesti a una persona delle cose specifiche, gli dici: hai fatto questo, quest’altro e quest'altro ancora, e secondo me hai sbagliato, hai fatto male per questi motivi. Aggressione è invece quando ti prendono a cazzotti e ti dicono che sei uno stronzo, come è successo a me a Milano, con nessuna possibilità di chiarire le mie posizioni e di avere un confronto con le posizioni di chi mi stava di fronte. POPSTAR 1978)

 

Concerto interrotto e palco invaso al Palalido
Corriere della Sera - 3 aprile 1976 - Mario Luzzatto Fegiz

MILANO - Una serie di gravi episodi di violenza e intimidazione sono avvenuti ieri sera al Palalido, allo spettacolo serale del cantautore Francesco De Gregori, che dopo essere stato più volte interrotto,e dopo che un gruppo di giovani aveva invaso il palco, è stato costretto ad uscire dal camerino dove si era ritirato alla fine del concerto, e a salire sul palco. Subito è stato sottoposto a un vero e proprio processo politico perchè accusato di percepire cachets troppo alti e di non destinarli alle lotte dei lavoratori. Un gruppo di giovani, alcuni dei quali hanno dichiarato di appartenere al sedicente movimento di "autonomia operaia", lo ha sottoposto a una serie di pesanti accuse e ingiurie, invitandolo tra l'altro a "suicidarsi subito, seguendo l'esempio di Majakovski", De Gregori è infine riuscito a raggiungere il camerino. "Forse non canterò mai più" ha dichiarato. Gli organizzatori da parte loro hanno comunicato che la lunga tournée del cantautore, iniziata l'altra sera a Pavia, è stata annullata.

De Gregori si era esibito una prima volta nel pomeriggio davanti al "suo" pubblico (età media 16 anni) che non era mancato all'appuntamento con il mostro sacro della nuova canzone italiana, ma non aveva manifestato eccessivo entusiasmo per la più recente produzione del cantautore (Bufalo Bill, Disastro aereo sul Canale di Sicilia ecc.).
Per la serata il Palalido era esaurito. Alle 21 gli organizzatori aprivano i cancelli e decidevano di far entrare gratis coloro che erano rimasti fuori (oltre un migliaio di giovani), proprio nel momento stesso in cui costoro si apprestavano a sfondare.
Con la stessa tecnica con la quale circa due anni fa era stato interrotto il concerto dell'astro del rock decadente Lou Reed, un gruppo di giovani in formazione ha preso posizione dietro il palco, gratificando De Gregori con ingiurie e accusandolo di speculare con le canzoni politiche.
Poco più tardi alcuni elementi, staccatisi dalla formazione principale, prendevano possesso del palco e, impadronitisi del microfono, leggevano, fra la confusione generale, un comunicato contro l'arresto, avvenuto a Padova, di un militante della sinistra extraparlamentare.
Il concerto riprendeva in un clima di tensione, mentre fra il pubblico alcuni provocatori, gridando che "in sala ci sono più fascisti che compagni", scatenava la caccia al fascista che per fortuna si concludeva con qualche scazzottatura e senza gravi conseguenze. Venti minuti di interruzione e l'esibizione riprendeva. Verso le 22.30 circa, Francesco De Gregori concludeva fortunosamente il concerto e si ritirava.
Un gruppo di facinorosi prende a questo punto d'assedio il camerino, "Esci - gli gridano - torna sul palco a parlare con noi o sfasciamo tutto", Le maschere e il servizio d'ordine cercano di arginare l'assalto, ma inutilmente. Dopo qualche minuto De Gregori esce. Al microfono si alternano volti lombrosiani e giovani che sembrano colti da raptus isterico. "Suona per i lavoratori, non ti mettere in tasca i soldi". "Quanto hai preso stasera?" urla un giovane. "Credo un milione e due... - sussurra con un filo di voce De Gregori -, ma poi c'è la SIAE...". "Se sei un compagno, non a parole ma a fatti, lascia qui l'incasso", ribattono.
Prende la parola un uomo con la barba bianca, d'età indefinibile: "La rivoluzione non si fa con la musica. Prima si fa la rivoluzione, poi si potrà pensare alle arti o alla musica. Lo diceva anche Majakovski che era un vero rivoluzionario e si è suicidato. Suicidati anche tu!".
De Gregori ascolta pallido e silenzioso. Con scarsa convinzione mormora al microfono: "Forse sono una vittima dell'industria...". La delirante farsa del "processo" continua: "Va a fare l'operaio e suona la sera a casa tua".
Alcune ragazze piangono, altri oratori continuano sullo stile dei precedenti accusando tutti i presenti che han pagato l'ingresso di essere "una massa di c...".
De Gregori riesce a raggiungere il camerino. Appare distrutto e conclude: "Non canterò mai più in pubblico. Stasera mancava solo l'olio di ricino, poi la scena sarebbe stata completa".

 

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Giorgio Lo Cascio
Ormai non si può più procrastinare: è giunto il momento del dolore, dell'incomprensibile, della musica che impazzisce e nella quale qualcuno incomprensibilmente stona. Ho già introdotto quasi tutti i personaggi e quasi tutte le circostanze fanno parte dello scenario, ma vediamo, riassumendole, se non ci è sfuggito qualcosa. Dunque, abbiamo innanzi tutto i nostri eroi, con Francesco in testa, che producono canzoni gradevoli all'ascolto e dal contenuto stimolante. Ovunque vi sono circoli culturali, cineclub, momenti di aggregazione e di discussione. I partiti e i gruppi progressisti sono estremamente attivi anche dal punto di vista culturale. E' nata una forma di editoria periodica che segue con particolare attenzione questi fenomeni, e sta dilagando il fenomeno delle cosiddette "radio libere" che si alimentano in massima parte con la musica di cui stiamo parlando. Per contro la stampa e la televisione nazionale sembrano ignorare tutto ciò. Solo le reti radiofoniche RAI sembrano consapevoli di quanto sta accadendo, grazie a persone come Paolo Giaccio, Raffaele Cascone, Fiorella Gentile, Michelangelo Romano. Ma lo spazio a loro affidato non è molto. La discografia è mobilitata per sfruttare la contingenza favorevole, e analogamente tutta l'industria culturale vive un momento felice.

Nascono continuamente tentativi "alternativi" di industria culturale in tutti i settori. Il dibattito politico aumenta di qualità e di intensità. Nasce la fantasia e l'irruenza del 1977. La gente - soprattutto la gente - partecipa con grande entusiasmo a tutto ciò e alimenta con il proprio calore la grande caldaia. Sono riuscito a evocare le sensazioni che provavo in quel periodo? Tutto ci era troppo bello, troppo importante e improvviso. Era come la sfera splendente di un'esplosione di energia: nell'espandersi si frammenta, crea disarmonie e si formano le polarità. Il primo segnale mi giunse da un articolo firmato da Giaime Pintor per Linus.
Era intitolato "De Gregori non è nobel, è rimmel" e in esso Giaime sferrava un ironico attacco alla figura mitica di Francesco. La sua spada squarciava il velo del tempio proprio come aveva già fatto Sofri su Lotta Continua, ma con un'eco ben più vasta. Nel cielo si addensarono grandi nubi nere e l'aria diventò elettrica. I piloti di veicoli da corsa sanno che questa condizione è la migliore per ottenere tempi da record, e cercano di scendere in pista quanto più prossimi possibile allo scoppio dell'uragano. Forse fu per questo motivo che nessuno si accorse di nulla, essendo tutti intenti ad ascoltare il canto di un motore che girava magnificamente. Francesco si prepara ad affrontare una nuova tournee, che si preannunciava trionfale. Al suo fianco avrebbe dovuto cantare un vecchio amico, Renzo Zenobi, che aveva appena realizzato un long-playing per la Rca. La prima data era a Pavia, e subito dopo erano previsti due o tre concerti a Milano, al Palalido. Ma le nubi erano già molto dense a Pavia, e si verificarono degli incidenti tra il pubblico e la polizia. Una ragazza si fece male e Renzo la vide con il volto insanguinato. Avvertì subito che c'era qualcosa che non andava, e disse a Francesco che non desiderava proseguire la tournee. Fu l'unico a capire: tutti gli altri, Francesco compreso, pensarono che non si dovesse esagerare nelle preoccupazioni. Dopo tutto il periodo era molto turbolento e già altre volte c'erano stati inconvenienti. Al Palalido di Milano io non ero presente (dove siamo nelle occasioni in cui forse ci sarebbe bisogno di noi?) e non so cosa accadde veramente. Posso solo riportare flash di memoria su cose che mi furono raccontate: Francesco che viene contestato duramente non riesce a tenere in mano la situazione, come sempre era riuscito a fare nel passato; Francesco che viene seguito nel camerino, gli amici che si dileguano; Francesco che viene costretto a sostenere un impossibile contraddittorio al centro del Palalido, nel rumore sordo di un mare non più amico o, peggio, nell'indifferenza.
Un nuovo filtro rossastro e cupo che scatta con un colpo secco davanti al nostro obiettivo. Nel terreno fertile che si era formato in quegli anni erano cresciuti anche i cattivi pensieri, organismi perfettamente comprensibili ma più prossimi all'istinto di morte che all'istinto di vita. Francesco annullò la tournee e si ritirò ferito.

 

 

 

 

 

Francesco De Gregori su "Muzak (1976)" -
"Sui fatti accaduti al Palalido di Milano, sui commenti della stampa e su certe dichiarazioni riportate non fedelmente, desidero fate alcune considerazioni. Quando ho detto che la contestazione nei miei confronti rientrava nella strategia della tensione non intendevo dire che a porla in atto fossero gruppi di estrema destra o altri in qualche modo dell'estrema destra diretta o ad essa collegati. Così come l'espressione "fascisti rossi" non è mai stata da me pronunciata. Ritengo però che il gruppo di compagni che ha cos' duramente contestato il mio lavoro e la mia persona abbia commesso un gravissimo errore politico, che non va a vantaggio della chiarezza, ma impedisce anzi un'analisi corretta della cultura giovanile, dell'attuale produzione musicale e anche, se vogliamo, degli errori e delle inevitabili contraddizioni di quegli autori che, come me, dall'interno dell'ndustria della musica, tentano di promuovere un discorso diverso e alternativo sul terreno dei contenuti musicali e letterari e della gestione dei concerti. Da questo punto di vista l'iniziativa gravemente sconsiderata condotta da questi compagni non può che consolidare l'universo musicale consueto, ricacciando a destra autori e gruppi potenzialmente disponibili ad iniziative di sinistra, oltre a incentivare i concerti a tremila lire; gli schieramenti polizieschi e i servizi d'ordine privati presi a nolo dai grossi impresari. Questi episodi fanno quindi oggettivamente il gioco della cultura dei potere e della musica tranquillizzante, e si prestano oltretutto ad essere ripresi e strumentalizzati in chiave terroristica, reazionaria e scandalistica da un certo tipo di stampa "indipendente". Riguardo ai miei guadagni, ritengo che più che una mia sottoscrizione personale (alla quale eviterei comunque di dare qualsiasi pubblicità) sia corretto da parte mia mettere la mia musica e le mie parole, a disposizione di un movimento al quale, pur non essendo io un militante rivoluzionario, ritengo di aderire ideologicamente, condividendone pressoché in tutto le scelte culturali, confrontandomi con esso e accettandone i consensi, le critiche e le proposte. Lotta Continua, i Circoli Ottobre, Re Nudo, gli Anarchici, sanno bene che mi sono reso disponibile in maniera gratuita in moltissime occasioni politiche e musicali; dico questo non per rivendicare medagliette di buona condotta, ma per chiarire quale è stata la strada da me seguita finora e quali le mie scelte. E veniamo ora alle mie canzoni, i loro contenuti e il mio linguaggio. lo faccio le canzoni come le so fare. Esprimo semplicemente le cose come riesco ad esprimerle e credo che sarebbe demagogico da parte mia, trasformare i miei moduli e scrivere canzoni, ad esempio, come Ivan Della Mea o Paolo Pietrangeli, autori che peraltro stimo e rispetto. Credo comunque che accanto alla loro produzione, più direttamente legata alla cronaca politica dei nostri anni, possa trovare posto la mia, che muove da presupposti diversi, ma che tende, comunque, anche se forse per altre strade, ad un miglioramento del livello musicale di massa. Il pubblico giovanile più politicizzato, o almeno una parte di esso, dimostra di apprezzare ciò che lo scrivo e canto, forse perché provo a parlare di cose private e di cose politiche in maniera diversa da quella tradizionale. Tutto qui. Vorrei che quanto detto non venisse scambiato per un attacco o, peggio ancora, un'autodifesa. Spero solo di aver contribuito a chiarire alcuni momenti fondamentali di un dibattito che andava senz'altro affrontato anche a prescindere da quanto avvenuto al Palalido di Milano".
In occasione dell'uscita di "De Gregori", nel '78, Francesco parlerà di questi fatti con Michelangelo Romano di "Popster", storica testate dell'epoca: "quella del Palalido non può essere considerata contestazione ma aggressione vera e propria. Contestazione è quando contesti a una persona delle cose specifiche, gli dici: hai fatto questo, quest'altro e quest'altro ancora, e secondo me hai sbagliato, hai fatto male per questi motivi. Aggressione è invece quando ti prendono a cazzotti e ti dicono che sei uno stronzo, come è successo a me a Milano, con nessuna possibilità di chiarire le mie posizioni e di avere un confronto con le posizioni di chi mi stava di fronte".

 

 

 

 

 

https://www.iltitanic.com/2023/nos.jpgCATANIA, TEATRO AMBASCIATORI - OTTOBRE 1976

GLI ALBORI. – Credo sia stato l'autunno del 1976, forse ottobre. In città avevano attaccato sui muri i manifesti con la fotoposter inside del disco Rimmel, quella con la faccia di Francesco di profilo, e sotto la data fissata al Teatro Ambasciatori di Catania.

Se c’è qualche attempato catanese che mi legge mi può dire esattamente la data? Quel concerto lo ricordano ancora in tanti ma nessuno sa la data.

Allora era abitudine fare due concerti, uno il pomeriggio e l’altro la  sera. Io arrivai con un mio amico nell’intervallo fra i due spettacoli ma, come direbbe Fantozzi, con un mostruoso anticipo di due ore! https://www.iltitanic.com/2023/065.jpg

Sull’altezza di Francesco avevo un’idea sbagliata. Lo immaginavo di statura normale, chissà perchè. Invece, appena entrati nella hall del Teatro, vedemmo una testa sovrastare su una piccola folla di ragazzi al bar del teatro. Era lui, con un giaccone di panno a scacchi bianconero, che beveva una Coca Cola offertagli da quei ragazzi. Scherzava, rideva e parlava con tutti. Lo vedevo per la prima volta e non immaginavo fosse così alto.

Facendoci obliterare i biglietti entrammo nella sala vuota e ci sedemmo (in prima fila, ovviamente prenotati da tempo).

Dopo un po’ sentimmo arrivare sulle nostre nuche uno spiffero d’aria, il rumore di una porta posteriore che si apriva e dei passi che attraversavano il corridoio centrale. Uno spilungone di 24 anni, con la barba e i capelli rossi, ci passò di fianco guardandoci stupito e chiedendosi cosa facevamo lì a quell’ora. Avrà pensato “forse quelli delle pulizie che si riposano”.

Quando arrivò sotto al palco, uno dei componenti del gruppo folk Taberna Mylaensis (supporters del suo tour) si affacciò gridandogli “Francesco…. Alice guarda i gatti….” .

Balzando sul palco con uno stile da “Olio Cuore” De Gregori rispose “… e i gatti se magnano i topi…” e sparì dietro il tendone.

A quel punto la mia poltrona stava trasformandosi nel sedile dello Shuttle. Volevo andare lì dietro anch’io, rischiando di farmi mandare a quel paese; avrei voluto chiedergli tante cose, ma quel mio amico mi convinse a restare seduto.

Subito dopo entrò in sala una signora, qualcuno fece capolino dal tendone e la invitò dietro le quinte. La signora salì comodamente le scalette del palco e restò lì dietro quasi un’ora a vedere tante belle cose, mentre io mi ero già mangiato le mani, le braccia e il velluto della poltrona che avevo davanti.

Alle 21 il teatro era già pieno e con un pubblico diverso da quello pomeridiano, più “by night”. Alla fine del breve recital del gruppo che gli faceva da spalla, nella sala calarono il buio e il silenzio. Un faro di luce accompagnò l’apertura del tendone rosso e Francesco entrò con camicia celeste, jeans e cappellino da notte. Inizia da solo, con la chitarra imbracciata e canta subito Cercando un altro Egitto. Stava immobile a gambe unite e non faceva nessun movimento per paura di allontanare la chitarra dal microfono (allora non c’erano i radiomicrofoni). Poi parlò della capra della casa di Hilde, cantò Niente da capire ed altri pezzi che non ricordo e poi si fece accompagnare dalla sua band (Michele Ascolese, Giampaolo Ascolese, Peppe Caporello  e Fabrizio Cecca).

Un concerto favoloso! Era il De Gregori allo stato puro, quello di Rimmel e della Pecora e il grande Bufalo Bill era stato pubblicato da poco.

Oggi, quando parlo con un giovane degregoriano di Catania arrivo puntualmente, senza accorgermene, alla domanda “ma tu l’hai visto il concerto del ’76 all’Ambasciatori?”. Quando lui mi risponde “ma io non ero ancora nato nel ‘76” mi rendo conto che in quel momento l’età mi strattona la manica della giacca per farmi tornare alla realtà.

Mimmo Rapisarda

 

 

 

(FROM: RMS www.iltitanic.com  - TO: FORUM www.rimmelclub.it)

 

 

 

 

LE PROVE DEL DISCO (YOUTUBE)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

'Processo' Palalido . Come oggi la pensa il diretto interessato

De Gregori: mi chiedo se lo rifarebbero "Vorrei si materializzassero per vedere se hanno cambiato idea"
Roma, 15 mag 2010 - "Il mio 'processo' al Palalido è un episodio che viene sempre evocato e spessissimo nelle interviste mi viene chiesto come andò. Fu una vicenda sgradevolissima, ma oggi troverei interessante che si materializzassero le persone che lo hanno fatto". Così Francesco De Gregori - durante lo Speciale 'Niente di personale - Cos'era, cosa sarà' in onda ieri alle 22.30 su La7, ha ricordato il 'processo' a cui gli estremisti di Autonomia Operaia lo sottoposero nel 1976 sul palco di un concerto al Palalido di Milano. E rivolgendosi a Piroso ha affermato: "Ecco, perché non li invita lei che può? Facciamo un 'Niente di Personale' con quelli che hanno fatto il 'processo proletario', per vedere se hanno cambiato idea, se oggi lo rifarebbero, perché può darsi pure di sì. Oppure allora era un periodo in cui si poteva andare in giro a sprangare con la chiave inglese?".

E il cantautore romano ha ribadito: "Ormai io ho detto e ridetto tutto, vorrei non parlarne più, perché quell'episodio mi ha dato e tuttora mi dà, non dico dolore, ma un certo disagio sì, e perché è stato un momento storico doloroso per tutti". Poi dal palco dell'Auditorium ha chiesto: "Si materializzassero questi ragazzi! Sicuramente saranno diventati dei signori, qualcuno di loro sarà diventato anche importante, ma credo che nessuno di loro sia diventato poi un rivoluzionario. E poi, farei loro quella domanda che sta in quel bellissimo film del mio amico Moretti: 'voi dicevate colpirne uno per educarne cento'. Dove sono i cento che avete educato?".

 

 

CESENA - Addio a Libero Venturi, scopritore di talenti della canzone italiana.
Si è spento due giorni fa, al Bufalini, Libero Venturi, il ‘talent scout’ dei cantautori italiani. La sua attività più fervida va dalla prima metà degli anni ’70 all’inizio degli anni ’90, quando si fermò per problemi di salute. Ha portato al successo grandissimi nomi, da Baglioni, Battisti, De Gregori, Gaetano, Graziani, ai new Trolls e Venditti, che nella sua canzone "Robin" lo ricorda: “Sono Libero e vengo da Cesena”.
I funerali saranno celebrati domani, all’Osservanza, alle 9.30. Tantissimi dei suoi ‘pupilli’ cercheranno di essere presenti, primo fra tutti Claudio Baglioni, che gli ha dedicato il concerto di ieri sera a Rimini. Parole di affetto e commozione sono arrivate dal cantautore, prima dell’inizio dello show. Anche Sergio Cammariere e il regista Pepi Morgia lo saluteranno con lo spettacolo di questa sera a Bellaria.
Lo ricorda come un uomo semplice, con la voglia di sfidare anche Antonello Venditti e parole altrettanto affettuose arrivano dal mondo dei manager, al quale Venturi, ha dato un contributo fondamentale, sapendo coinvolgere enormi folle ai piedi dei suoi cantautori.
Morto per cause naturali, a 63 anni, lascia la moglie Leda Zaffi, la figlia Carlotta e i fratelli Augusto e Ubaldo.

(febbraio 2007)

 

«Libero Venturi, impresario di Baglioni, Venditti e della tournée di Banana Republic, era simpatico e divertente. Originario di Cesena, apparteneva in tutto e per tutto alla provincia e onestamente non si capacitava del perché la gente venisse ad ascoltare uno che cantava Alice o Saigon. Si faceva sera, arrivavamo nei locali, vedevamo i parcheggi strapieni e lui allargava le braccia: “Ma che casso succede qui? Ma son davvero venuti a sentire te?”».

FdG

 

 

 

 

 

 

 

 

IL RETRO